La gravidanza di Trudy è quasi a termine, ma l'evento si prospetta tutt'altro che lieto per il suo piccolo ospite. Ad attenderlo nella grande casa di famiglia (e nel letto coniugale) non c'è il legittimo marito di Trudy e suo futuro padre, John Cairncross, poeta povero e sconosciuto, innamorato della moglie e della civiltà delle parole, ma il fratello di lui, il ricco e becero agente immobiliare Claude. Dalla sua posizione ribaltata e cieca, il nascituro gode nondimeno di una prospettiva privilegiata sugli eventi in corso, ed è lui a metterci a parte di una vicenda di lutto e di sospetto dagli echi assai familiari. Certo, la scena non è quella corrotta e claustrofobica del castello di Elsinore. Certo, i due cognati fedifraghi, Trudy e lo zio Claude, non hanno regni nordici cui aspirare. Piuttosto a far gola ai due vogliosi amanti è l'edificio georgiano su Hamilton Terrace, decrepito ma d'inestimabile valore, incautamente ereditato da John, i cui pavimenti luridi e la cui onnipresente immondizia prendono il posto del marcio in Danimarca. Ma amletico è il crimine orrendo che il narratore vede (o meglio sente) arrivare, e amletico è pure il suo inesauribile flusso di pensieri dubitanti, gli stessi che hanno inaugurato al mondo la danza della modernità. Se nel testo shakespeariano l'origliamento, l'atto di spiare e raccogliere informazioni rovistando i recessi e gli anditi del regno, è spesso motore dell'azione, nel guscio l'udito è il senso privilegiato per ragioni fisiologiche, e a essere rovistati a pochissima distanza dal capo dell'inorridito narratore sono spesso e volentieri i recessi e gli anditi del corpo materno. Mentre all'orecchio non sempre affidabile del nostro eroe non-nato si dipana la tragica detective story, nella manciata di giorni che separano il suo «esserci» dal suo protetto «non-esserci» ancora, con il conforto di qualche buon vino giunto fino a lui dalle superbe degustazioni materne, e costantemente edotto sul mondo dai programmi radiofonici di approfondimento culturale che fortunatamente Trudy preferisce a quelli musicali, il nascituro ha tempo di riflettere su di sé, sulla complicata faccenda dell'amore, sul mondo, coi suoi orrori contemporanei e con le sue desiderate meraviglie. Ha tempo e curiosità sufficienti per farsi domande, interpretare i segni della sua realtà mediata, contemplare azioni e concludere che la sua sola salvezza, la salvezza dell'uomo, sta forse nell'esitazione.
Alvin E. Roth ha condiviso nel 2012 il premio Nobel per l'Economia per le sue pionieristiche ricerche sul market design: i principi che governano quei mercati in cui il denaro non è l'unico fattore a determinare che cosa spetta a ciascuno. Per mostrarci quanto questi mercati siano diffusi, Roth ci conduce, per esempio, presso una tribù aborigena che combina i matrimoni per nipotini non ancora nati oppure ci fa conoscere il meccanismo su cui si basano nuove imprese come Airbnb e Uber, il cui successo è in gran parte determinato da un brillante market design. "Matchmaking" esplora con brio e acume mercati che spesso si rivelano i più importanti per noi: se vi è capitato di cercare un lavoro o di assumere qualcuno, di iscrivervi a un'università o scegliere l'asilo giusto per vostro figlio, di dare un appuntamento sentimentale a qualcuno, allora avete avuto a che fare con il matchmaking. Roth individua cosi i fattori che fanno funzionare bene o male i mercati e insegna a prendere le decisioni più sicure ed efficaci per dare «a ciascuno il suo».
«Il borghese... Non molto tempo fa, questo concetto sembrava indispensabile all'analisi sociale; oggi invece possono passare anni senza che se ne parli. Anche se il capitalismo è più potente che mai, la sua incarnazione sembra essere svanita nel nulla. "Io sono un membro della classe borghese, mi sento tale e sono stato educato alle sue idee e ai suoi ideali", scriveva Max Weber nel 1895. Chi potrebbe ripetere oggi quelle stesse parole? Le "idee" e gli "ideali" borghesi: ma che cosa sono?» Inizia così lo studio di Franco Moretti sulla presenza della borghesia nella moderna letteratura europea. Nel saggio, la galleria dei singoli ritratti si intreccia con l'analisi di specifiche parole chiave («utile» e «serio», «efficienza », «influenza», «comfort», la «roba»), con le mutazioni formali riscontrabili nella prosa di celebri opere romanzesche (da Defoe, Austen e Flaubert a Goethe, Verga e Pérez Galdós), e con alcuni riscontri paralleli nella coeva arte europea (da Vermeer a Manet). A partire dal «padrone lavoratore» del primo capitolo, passando attraverso l'etica espressa da alcuni romanzi ottocenteschi, l'egemonia conservatrice della Gran Bretagna vittoriana, le «malformazioni nazionali» delle culture periferiche, e chiudendosi con l'autocritica radicale messa in scena dai drammi di Ibsen, il volume traccia la mappa delle vicissitudini della cultura borghese, esplorando le cause della sua storica debolezza e della sua attuale irrilevanza.
Da sempre gli esseri umani aspirano alla felicità, ma molti non sanno dove risieda. Spesso si lasciano sedurre dai piaceri dei sensi, che ingannano con le loro carezze, e trascurano la salute dell'animo. Ma la vera felicità non si trova nei beni apparenti. Non ai piaceri del corpo, «delle cucine e dei bordelli», bisogna abbandonarsi e neppure a quelli della ricchezza, perché labili, deperibili e dannosi per la mente. Ma allora dove cercare? E che mezzi ha la filosofia per aiutarci? A partire da queste domande Seneca, con tono acceso e partecipato, pagina dopo pagina, ci svela il segreto per vivere felici. Perché la felicità, per quanto sembri irraggiungibile, è alla portata di tutti.
In media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi: la distrazione è ormai uno stile di vita, l'intrattenimento perpetuo un'abitudine. E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un'anomalia; invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio. Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una scelta. Nei mesi trascorsi nell'Artide, al Polo Sud o in cima all'Everest, ha imparato a fare propri gli spazi e i ritmi della natura, e a immergersi in un silenzio interiore, oltre che esteriore: un immenso tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo dal frastuono della vita quotidiana. Ma che cos'è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è più importante che mai? Queste sono le tre domande che Kagge si pone, e trentatre sono le possibili risposte che offre. Trentatre riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture diverse, e tutte animate da un'unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere più a fondo la vita.
Cosa significa essere femminista oggi? Per prima cosa reclamare la propria importanza, di individuo e di donna insieme; reclamare il diritto all'uguaglianza senza se e senza ma. E cosa significa essere una madre femminista? Non smettere di essere una donna, una professionista, una persona, e condividere alla pari la responsabilità con il proprio compagno. Mostrare a una figlia le trappole tese da chi la vuole ingabbiare per mezzo della violenza, fisica o psicologica, in un ruolo predefinito, e spiegarle che quel ruolo non ha nessun valore reale e che potrà scegliere di essere ciò che vorrà. Farle capire che la sua dignità non dipende dallo sguardo e dal giudizio degli altri e che la sua realizzazione non dipenderà dal compiacere quello sguardo. E significa soprattutto insegnarle che l'amore è la cosa più importante, ma che bisogna anche capire quando è il caso di battersi contro l'ingiustizia. Adichie ha scritto un intenso pamphlet sotto forma di lettera, con uno sguardo confidenziale eppure politico. La sua voce, che sa essere intima e allo stesso tempo universale, ha saputo dare vita a un manifesto necessario in un presente in cui dobbiamo imparare a vivere la differenza per poterci ancora dire umani.
Il desiderio e il tramonto del corpo sembrano contrapporsi e invece si rispecchiano e si accendono, nel ricordo e nella vitalità, nello struggimento e nella fantasia, nelle parole inesauste di una narrazione ininterrotta. Ed è di questo che parlano, sornioni e malinconici, irriverenti e divertiti, i dieci racconti di cui è fatto questo libro. C'è un addio iniziale, breve e lancinante come tutte le prime volte. Un bambino spaurito che lascia la mano della mamma il primo giorno di scuola. C'è un addio finale, lento e lancinante come tutte le ultime volte: un uomo che esce piano dalla sua lunga vita coniugale e familiare, per tornare gradualmente, irreversibilmente, nei territori dell'infanzia. E c'è un ultimo addio, lancinante e basta. Ma dolcissimo, perduto nell'estasi. Tra l'uno e l'altro, di racconto in racconto, il desiderio e i suoi fallimenti fanno emergere nei protagonisti il loro pili profondo modo d'essere; e la fine, quando arriva, soffice o drammatica che sia, è la conseguenza inevitabile, dolce e amara, di quella scoperta. Insomma, un'ininterrotta sequenza di inizi e di finali, così come è fatta la vita: ogni racconto una storia d'amore e di passione, palpiti, struggimenti, felicità del corpo e malinconia.
In questo libro l'autrice narra e commenta, con profonda sensibilità, una storia di maternità con l'intento di valorizzare una esperienza fondamentale, che non sempre occupa il posto che merita nella vita delle donne. Già i mesi dell'attesa costituiscono, se non vengono prevaricati da altre richieste, un periodo di straordinaria intensità emotiva. Ma, nell'epoca della fretta, molte giovani donne si trovano sole e smarrite al momento di realizzare il desiderio di un figlio. Per aiutarle è allora opportuno riallacciare un dialogo tra le generazioni ove alcune troveranno la possibilità di rievocare situazioni ed emozioni che credevano dimenticate, altre di sentirsi motivate e preparate ad accogliere «l'ospite più atteso», il figlio che nascerà.
In occasione dell'uscita della serie Tv "I Bastardi di Pizzofalcone", Maurizio de Giovanni dà voce ai personaggi che compongono la squadra investigativa più famosa d'Italia. Ognuno di loro si racconta, talvolta quasi si confessa. E parla dei colleghi e dello strano commissariato dove, contro ogni previsione, ha trovato riscatto. Con 134 foto del set.
"Malamore è un libro del 2008 e ha una forza che cresce col passare degli anni: cresce perché resta intatta, nel tempo, la vera domanda che lo anima. E la domanda non è perché gli uomini si sentano tanto spesso autorizzati a esercitare violenza - verbale, fisica, psicologica - sulle donne che sostengono di amare. La vera questione - mi pare, piuttosto - è perché le donne non siano in grado di respingere la violenza, quando la riconoscono. Cosa le induce, cosa ci induce a sopportare il crescendo di umiliazioni, le piccole angherie domestiche, le prepotenze pubbliche che sempre preludono a un epilogo tragico? Cosa ci fa credere di poter cambiare, accogliere, domare la minaccia? C'è una sorta di presunzione, dice l'antica favola che apre questo libro: la topolina si innamora del gatto, convinta che lo renderà vegetariano. C'è un oscuro sentimento profondo che si nutre di sensi di colpa, raccontano le tante storie di donne - celebri, anonime - che come stelle cadenti illuminano la scena del delitto. Esercizi di resistenza al dolore, recita il sottotitolo. Forse la chiave è qui: nella confidenza che le donne hanno col dolore, la palestra che serve a trasformarlo in forza. Ciascuno troverà la sua risposta, leggendo. Troverà qualcosa della sua storia e forse il coraggio di guardarla negli occhi. Se accadesse anche una volta sola, è per quella volta che ho scritto questo libro." (Concita De Gregorio)