lnés de Suàrez nasce all'inizio del Cinquecento in Spagna, figlia di un modesto artigiano di Plasencia. Dotata di un forte temperamento che male si addice alla condizione femminile sottomessa all'autorità del clero e del maschio, lnés sposa contro la volontà della famiglia Juan de Malaga, che presto la abbandona per cercare fortuna in America. La giovane non si dà per vinta e, con i soldi guadagnati ricamando e cucinando, si imbarca anche lei per il Nuovo Mondo. lnés affronta le durissime condizioni di viaggio e si difende dai marinai libidinosi. Giunta in Perù, cerca invano il marito; senza più risorse, riprende a lavorare come sarta fin quando incontra Pedro Valvidia, un seducente hidalgo, fuggito dalle frustrazioni di un matrimonio deludente e venuto a combattere per la Corona spagnola. La passione infiamma lnés e Pedro che si mettono alla guida di pochi volontari attraverso un deserto infernale, combattono indigeni incattiviti e giungono infine nella valle paradisiaca dove fondano la città di Santiago. Le tribù autoctone difendono però il loro territorio e si accaniscono contro gli spagnoli, i cui feriti sono curati da Inés e da un'indigena a lei fedele: si rinforza così la fama di strega che la donna si era fatta scovando fonti d'acqua con una bacchetta (arte ereditata dalla madre). Non senza il malcontento di alcuni coloni, cresce la sua autorità a fianco di Pedro, divenuto governatore...
Jane Austen è una delle poche, autentiche grandi scrittrici che hanno saputo fare breccia nei cuori e nelle menti di tutti i lettori, senza eccezioni. Fra i suoi tanti capolavori, "Orgoglio e pregiudizio" (pubblicato nel 1813) è sicuramente il più popolare e amato: le cinque figlie dell'indimenticabile Mrs Bennet, tutte in cerca di un'adeguata sistemazione matrimoniale, offrono l'occasione per tracciare un quadro frizzante e profondo della vita nella campagna inglese di fine Settecento. I destini di Elizabeth, Jane, Mr Bingley e dell'ombroso Mr Darcy intrecciano un balletto irresistibile, una danza psicologica che getta luce sulla multiforme imprendibilità dell'animo umano, specie quando si trova alle prese con l'amore o qualcosa che all'amore somiglia.
Una bambina salvata in mare dai delfini cresce orfana su un'isola greca. Si chiama Irene, di giorno vive in terraferma, di notte si unisce in mare alla sua vera famiglia. A quattordici anni è incinta e consegna a uno straniero di passaggio la sua storia.
La povertà. La povertà subita e la povertà come spoliazione. Alessandro Mari parte da questo nodo di luce e costruisce un romanzo a due strade. In una insegue la figura di Francesco d'Assisi, ne registra l'avventura interiore, ne illumina il mistero e lo scandalo, fa vibrare la poesia della sua vicenda terrena. Nell'altra si muove nel nostro tempo e racconta di Rachele e Ilario: lei psicologa in un centro per anziani, lui titolare di un'agenzia di marketing al servizio del non profit. Lei ascolta le storie di chi ha molto vissuto, si lascia toccare dal senso della fine, cerca nei suoi pazienti "a termine" una prossimità non professionale. Lui "vende la povertà" e finisce, più confuso che colpevole, per guadagnarci. Toccata così dalla vergogna, Rachele si sottrae progressivamente a quella che fino ad allora era stata la scena dei suoi affetti, del suo lavoro, della sua storia d'amore. Alessandro Mari sospinge Rachele e Francesco verso il nudo segreto del dono di sé e della spoliazione, e allo stesso modo spoglia la propria lingua narrativa, conducendo i suoi protagonisti a un appuntamento rivelatore. Quasi fosse il convergere, in una sorta di vertigine temporale, di due anime liberate dalla tentazione del compromesso.
Questa storia - la storia di Auschwitz - l'hanno raccontata in tanti e in tutti i modi. Il narratore non si sognerebbe nemmeno di farlo a sua volta se non fosse che a un certo punto quegli eventi divengono essenziali perché possa parlare del nonno, e di conseguenza del padre, e di conseguenza di sé. Così ci propone l'ossessione che ha segnato la sua infanzia, la storia che ha sentito raccontare ad nauseam e che a sua volta sembra dover raccontare, come il vecchio marinaio, per spezzare l'incantesimo. Ma Michel Laub è convinto che scrittura faccia rima con tortura e che nella sua composizione (almeno per quel che lo riguarda) entrino in gioco "un 70 per cento di angoscia, ansia ed eventualmente depressione e un 30 per cento di allegria, che può essere così intensa da coprire quel 70 per cento, ma che si avverte solo alla conclusione di un capitolo". Questo originale scrittore brasiliano dichiara di non possedere fantasia creativa, di poter scrivere solo a partire da un nucleo forte di esperienza personale: il suo territorio è il passato, cui attinge per spiegare il presente, per tenere a bada il futuro. "Diario della caduta", memoir frammentario in cui si inseguono brevi e fulminanti capitoli numerati, intreccia memoria storica (di cui Auschwitz è simbolo assoluto) e memoria personale (un episodio di sadismo ai danni di un compagno di classe) in un inscindibile loop.
Questo libro parla di noi, dei nostri amici, dei nostri figli. Dei nostri consumi, dei nostri comportamenti, del nostro modello di sviluppo. Questo libro non raccomanda di fare la raccolta differenziata. Non invita a comprare un'auto ibrida. Non propone di farsi un orto in balcone. Questo libro dice la verità. E non c'è niente di più preoccupante. Stephen Emmott è uno dei più importanti scienziati della sua generazione e crede fermamente nella possibilità di valutare scientificamente le trasformazioni che la nostra specie sta operando sull'ecosistema globale. E soprattutto di prevedere quello che succederà quando, tra pochi decenni, saremo dieci miliardi di esseri umani sul pianeta. In queste pagine, che sono state anche il testo per uno spettacolo teatrale di successo a Londra, Emmott mette a fuoco tutto quello che crediamo di sapere su questi temi (riscaldamento globale, deforestazione, scarsità di acqua...) e sostituisce il nostro pigro fatalismo, o il nostro cinico disinteresse, o il nostro tecnologico ottimismo, con un sentimento molto più sgradevole ma anche molto più sensato: la paura. Perché se vogliamo salvare il mondo per i nostri figli, bisogna avere paura di quello che stiamo facendo e cambiare rotta in modo deciso e molto in fretta.
A cento anni dalla nascita di Vittorio Sereni pubblichiamo il volume che contiene uno degli epistolari decisivi di Sereni poeta, uomo e uomo di cultura. Il rapporto con Luciano Anceschi dura quasi un cinquantennio e conta 257 missive, dagli anni universitari (complice il magistero di Antonio Banfi) all'anno della morte di Sereni avvenuta nel 1983. Al di là dell'afflato amicale, lo scambio diventa prestissimo tessitura di considerazioni sulla poesia, sulle letture comuni, sulla singolare tensione aperta fra il critico e il poeta. Entrambi solitari o comunque appartati, disegnano attraverso questo "dialogo sulla poesia" uno dei più importanti documenti sulla cultura italiana del secondo Novecento. Vi appaiono inoltre le incertezze e le contraddizioni del poeta diviso fra il verso e la "tentazione della prosa": come rammenta Niva Lorenzini, "lungo il carteggio si profila una interrogazione continua circa la solidità e autenticità di una vocazione messa ogni volta in discussione da Sereni, non senza asprezza, talora con astio". E d'altro canto è proprio da lì che si muove la complessa gestazione di quella "parca, sapiente modulazione armonica", come dice Pier Vincenzo Mengaldo, che è di fatto la voce della sua poesia. Il carteggio restituisce progetti, confessioni, conflitti, scommesse dentro un panorama che non è solo letterario, ma alla letteratura finisce con il tornare, con benefica ossessione.
Il tema della casa "infestata" o "stregata", della dimora invasa dai fantasmi, è ricorrente nella letteratura fin dall'antichità ed è diventato un sottogenere nel cinema horror. Dell'argomento però - e questo è poco noto - si interessa anche il diritto romano e moderno, per evidenti motivi economici. Infatti, se un appartamento venduto e affittato presenta una simile particolarità, il suo valore commerciale diminuisce o viene messo in dubbio. Il libro offre una descrizione del tema a più livelli, fra cronaca e tradizione, antropologia e costume, scienza e storia delle idee: i concetti di fantasma e di spirito inquieto si manifestano e si modificano nella cultura, non solo occidentale, riflettendo le mentalità delle diverse epoche, il rapporto con la concezione dell'aldilà e la questione dell'immortalità dell'anima comune a molte religioni. A complicare il problema interviene, verso la metà dell'Ottocento, in piena età positivista, il fenomeno dello spiritismo, che coinvolgerà sorprendentemente anche filosofi e scienziati alle prese con i medium, cioè le persone in grado di comunicare con i morti. Questo libro offre un repertorio di conoscenze e di quesiti ancora aperti, basandosi su fatti storicamente accertati e scoprendo qualche caso davvero insolubile, in un excursus culturale curioso e colto.
Quando dico "ti amo" che cosa sto dicendo di preciso? E soprattutto, chi parla? Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia? Non c'è parola più equivoca di "amore" e più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione. Tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza che l'amore si nutre di novità, mistero e pericolo e ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Nasce dall'idealizzazione della persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l'amore in un affetto privo di passione o nell'amarezza della disillusione. Qui Freud ci pone una domanda: "Quanta felicità barattiamo in cambio della sicurezza?". Umberto Galimberti ci consegna un volume in cui l'acutezza del pensiero penetra i meandri del sentimento e del desiderio, registrando i mutamenti intervenuti nelle dinamiche dell'attrazione, nel patto con l'amato/a, nei percorsi del piacere (dall'onanismo alla perversione). Sullo sfondo si muove, come un fantasma, continuamente evocato e rimosso, quello che propriamente o impropriamente gli uomini non smettono di chiamare amore.
Il giornalista e il banchiere. Un duello fatto di domande e risposte, di ricostruzioni incrociate, retroscena confidenziali, analisi a volte contrapposte sui personaggi, i conflitti, le congiure, i denari di trent'anni della nostra storia. Dalla Banca d'Italia di Guido Carli al Banco di Napoli, dalla Cariroma a Capitalia, fino a Mediobanca e alle Generali, Cesare Geronzi è stato un protagonista assoluto della finanza italiana. Hanno fatto discutere le sue relazioni con Silvio Berlusconi, Massimo D'Alema e Antonio Fazio, le grandi operazioni bancarie culminate con la fusione del polo romano in UniCredit suggerita da Mario Draghi. E ancor più ha suscitato reazioni la sua ascesa alla presidenza dei templi della finanza del Nord. Nel dialogo serrato con Massimo Mucchetti, l'autore di "Licenziare i padroni?" e "Il baco del Corriere", prende corpo la "confessione" di un banchiere non pentito. Sono innumerevoli gli episodi mai raccontati che restituiscono la trama dei grandi affari: un continuo gioco di specchi che rimanda le mutevoli immagini dei vincitori. Indicato da Ciampi in Cariroma, Geronzi prese poi il potere sponsorizzando la Lazio come chiedeva il romanista Andreotti. Si sentì domandare da Enrico Cuccia, che nei suoi ultimi giorni voleva consolidare il suo delfino Maranghi in Mediobanca: "Vuol sempre bene a Vincenzino?". Ottenne da Giovanni Agnelli un soave: "Ma caro Geronzi, se lei non vuole, non si fa" con cui liquidare l'assalto alla Banca di Roma.