"Sulla scrittura, sull'amore, sulla colpa e altri piaceri" è un dialogo sulla vita e sulla scrittura, ma la voce di Shira Hadad, la editor di Amos Oz, è in fondo la coscienza del grande scrittore, che gli pone domande sul proprio passato, sui temi che l'hanno coinvolto, sulla sua intimità di uomo e scrittore. Ne scaturisce un ritratto a tutto tondo, una sorta di testamento artistico, spirituale e familiare. Un autoritratto di Amos Oz in forma di dialogo.
Viviamo nel paese della pseudoscienza? In Italia c'è più pseudoscienza che altrove? Il caso Di Bella e il metodo Stamina, due esempi di trattamenti fasulli, ma anche l'isteria che ha circondato gli ogm e persino i vaccini sono segni di un fenomeno tanto diffuso quanto pericoloso. Le pseudoscienze sono sempre fondate su dogmi e ideologie che non possono essere messi in discussione. Le teorie falsamente scientifiche non vengono mai formulate in modo tale da poter essere provate o smentite, i metodi sono segreti e rivendicano una straordinaria utilità pratica, come la capacità di curare malattie gravi. I resoconti sperimentali o clinici sono spesso incompleti e frammentari e, soprattutto, non finiscono mai sulle riviste scientifiche, ma sui social. E sui canali mediatici più potenti della nostra epoca gli pseudoscienziati non usano argomenti logici, bensì il linguaggio delle emozioni. Ma perché preferiamo credere alla pseudoscienza? Perché la troviamo più naturale della scienza? Gilberto Corbellini disegna una mappa dei pregiudizi più nocivi che colpiscono il nostro senso comune e, con la chiarezza e il rigore di un approccio naturalistico, ci guida nella scoperta delle origini e del modo di funzionare della pseudoscienza. Un fenomeno che minaccia profondamente la nostra società: la intossica, perché mette alla prova le basi cognitive che permettono la complessa costruzione del tessuto morale e politico di ogni democrazia liberale. Mentre "la scienza," spiega Corbellini, "favorisce la diffusione del pensiero critico e così produce libertà".
Storie per lettori curiosi, svegli, ribelli, che non si accontentano delle risposte preconfezionate, ma vogliono ragionare con la propria testa. Perché, come scrive Umberto Galimberti nella sua ampia introduzione, giocare con le idee permette di allargare i propri orizzonti, diventare più tolleranti, più capaci di comprendere, e quindi vivere meglio. Età di lettura: da 8 anni.
"Il signor Pirandello è desiderato al telefono". Cascais, 1935. Un attore che interpreta Pessoa (o Pessoa stesso?) telefona a Piran-dello, perché ha l'anima in pena e "a lui interessano le anime in pena". Un dialogo a una sola voce, un gioco del rovescio costruito su continue rifrazioni che danno l'illusione di una poetica polifonia. "Il tempo stringe" è un duello mancato. Enrico usa le parole come fendenti, contro un avversario che si è già sottratto allo scontro, poiché giace morto su un letto di ospedale. Tra il disperato e il grottesco, una surreale resa dei conti tra un uomo e un fantasma, simbolo della novecentesca solitudine dell'Io. "I dialoghi mancati" di Tabucchi sono a ben vedere due monologhi, perché si articolano con interlocutori che non possono rispondere. È l'Umano portato sulla scena attraverso il personaggio, maschera cava costruita per far risuonare l'anima dell'attore: la sua voce. "Marconi, se ben mi ricordo". Radio Londra, 1935. Lo speaker guida in una vivacissima trasmissione un gruppo eterogeneo di ospiti, tra cui un professore patriottico, Orwell, la sua chiromante, un anarchico italiano e Madame Liberté. Con una tipica capriola tabucchiana, si finisce per commemorare non tanto Marconi, quanto gli anarchici "scacciati senza colpa" da Lugano proprio nel 1895. In un radiodramma polifonico, scritto per i cento anni della radio, Tabucchi tesse un inno alla libertà e scaglia un duro monito a non dimenticare la Storia, oggi valido più che mai.
Questo è un viaggio nella memoria, che ha l'andamento di un giallo. La Banca che non c'è più ma conserva l'insegna, le due lapidi per Pinelli, una vicina all'altra, e la loro storia, il palazzo di giustizia dell'era spagnolesca in cui si processarono gli anarchici per l'attentato al Teatro Diana, l'incredibile percorso di appena cento metri che Valpreda avrebbe percorso in taxi. Sono passati cinquant'anni, ma ci sono domande che ancora non hanno una risposta. Perché, per esempio, venne scelta la Banca nazionale dell'agricoltura? L'anno più tetro della storia italiana continua a essere pieno di misteri irrisolti. Tra le bombe e i depistaggi scopriamo la vera storia del tassista Rolandi e della sua accusa a Valpreda, conosciamo il gruppo di assistenti della Cattolica che per primi cominciarono a dubitare del suicidio di Pinelli, incontriamo Guido Lorenzon, un professore di francese di Maserada sul Piave che risolse il caso già lunedì 15 dicembre e lo comunicò alla giustizia. In quell'anno la musica e l'arte, con la Guernica di Enrico Baj, cambiarono Milano.
Per anni le radici cristiane dell'Europa sono state al centro di un dibattito sull'integrazione politica dei popoli che vi abitano. Esiste dunque un modo laico di vedere nel cristianesimo non un fronte di divisione, ma un elemento irrinunciabile della nostra storia e della nostra cultura. Oggi l'Europa è cristiana? E se lo è, in che modo si esprime questa sua identità? Olivier Roy racconta il lungo processo della secolarizzazione, entra nella storia della Chiesa cattolica e di quella protestante per mostrare che il cristianesimo nell'Europa contemporanea non conta più tanto come religione, ma come un'eredità di grande rilevanza civile, perché ha contribuito a costruire il sistema dei valori della società liberale. Eppure, avverte Roy, oggi il cristianesimo sotto forma di identità culturale è anche un facile strumento nelle mani della politica populista, che può usarlo come categoria di esclusione dello straniero. Una delle posture di chi si definisce cristiano è infatti quella nostalgica e autoritaria che ai "valori del cristianesimo" oppone una società troppo laica o un Islam conquistatore. Questo libro spiega in che modo noi europei siamo rimasti orfani del nostro passato cristiano e ci aiuta a riscoprirne la portata, per sottrarlo alla retorica vendicativa e nazionalista della politica contemporanea.
Non è vero che i criceti sono poco intelligenti. Il loro problema è un altro: hanno una pessima memoria. Se uno stimolo non viene ripetuto moltissime volte, se ne dimenticano. Ma non sono i soli: questo problema lo hanno anche interi Paesi. Paesi come l'Italia. Da più di un secolo diciamo di voler combattere la corruzione, ma non riconosciamo le sue radici e creiamo leggi che la incentivano. Per non parlare delle grandi opere: dalle Autostrade alla Tav, ci lamentiamo che non si riescono a costruire o a completare. Però facciamo di tutto perché finisca sempre così. O della guerra ai privilegi del Palazzo: un ritornello che ci accompagna da decenni. Senza che la guerra si riesca mai a vincere. La storia del potere e delle sue appendici si ripete sempre uguale a se stessa. Sergio Rizzo ci presenta un catalogo esilarante e al tempo stesso desolante di vicende e lotte che appartengono al nostro passato e si ripetono tragicamente oggi senza soluzione di continuità. Così scopriamo la catena italiana di intrecci ricorrenti, di tira e molla e di leggi rimandate, approvate, blindate e poi mai veramente applicate. Una galleria di storie sotterranee che denuncia l'eterna ripetizione delle promesse e delle menzogne con cui siamo stati felicemente ingannati e continuiamo a ingannare noi stessi. Dalla privatizzazione della Rai al salvataggio dell'Alitalia, sino alla lotta alla burocrazia: in Italia tutto ci è sempre già stato promesso dalla politica. Solo che lo abbiamo dimenticato, e così continuiamo a ripetere sempre gli stessi errori. A chi conviene un'Italia senza memoria?
Si va in montagna da soli per starsene da minuscoli dentro le immensità di natura. Molte le variabili in salita, dall'incontro con una cerva all'attraversamento di una foresta sradicata dal vento. Unico il caso di due che si ritrovano in un passaggio esposto a decenni di lontananza dalla fine della loro amicizia. Qui c'è il verbale del loro avvenimento. Il loro impossibile non avviene come fulmine a cielo sgombro, ma come crollo di valanga per lento accumulo di tempo sopra un pendio. Se ne occupa un magistrato che deve ricostruire, insieme al presente, anche un passato sconosciuto.
"Guarda, questi sono i luoghi di re David, dei profeti". Nel 1968 Wlodek Goldkorn è un ragazzo gettato dal cuore dell'Europa alle strade di Gerusalemme. Con la sua famiglia è costretto a lasciare Varsavia, da apolide, da "non cittadino", e va in Israele, per trovare una terra in cui poter essere libero. Da un luogo perduto a un luogo da conquistare. "Osservavo mio padre, con le mani saldamente aggrappate alle assi del camioncino. Era di fronte a me. Lo sguardo rivolto fuori, i miei occhi pieni della curiosità di imparare a memoria il nuovo paesaggio della patria". Goldkorn prova interesse per la sua nuova terra, ma anche attrazione per tutto ciò che è arabo. Con un esercizio della memoria, lo stesso protagonista del "Bambino nella neve" racconta Israele e Gerusalemme: non solo la città reale, ma anche le altre Gerusalemme, immaginarie e sognate. Riflette sui simboli e sulle identità, su quella sovrapposizione dei ricordi e dei luoghi che ha qualcosa di morboso e artificiale. Parla dello scarto fra l'ideale sionista di creare un ebreo nuovo, pioniere e agricoltore, e la realtà che ha riprodotto il vecchio mondo, popolato dai fantasmi della Shoah. Ma si dichiara innamorato della lingua ebraica e della grande letteratura israeliana, quella di Amos Oz e di Lea Goldberg. La chiave del suo racconto è la nostalgia del futuro, che mette in moto il bisogno di ricostruire un passato denso di dolore e di violenza, ma anche il desiderio di conoscere e amare che appartiene a ogni adolescente impegnato nella fatica di diventare uomo.
Gerusalemme: un luogo unico dove le vite si sfiorano e si incrociano con studiata distanza. Sarah e Samira, due ragazze della stessa età, una israeliana e l'altra palestinese, un giorno si incontrano nel salone di un parrucchiere nella Città Vecchia. Parlano ebraico perché Sarah l'arabo non lo conosce. E alla fine scoprono che la casa in cui ora abita Sarah una volta apparteneva alla famiglia di Samira. Una casa dentro cui Samira non è mai entrata e di cui Sarah non conosce la storia. È Beit Dajani, una villa costruita dal commerciante palestinese Tawfik e poi abbandonata quando la storia è passata come un terremoto sulla città. Chi ha vissuto a Beit Dajani dopo la fuga dei proprietari nel 1948 a causa della guerra? E come si è trasformato quel quartiere nel corso di un secolo? Paola Caridi accompagna i lettori lungo le strade di Gerusalemme, città in cui ha vissuto per dieci anni, rivelandone tutto il fascino e scoprendone le ferite. Ferite che impediscono di scrivere una storia condivisa, ma che possono aiutare a capire la storia dell'altro. Età di lettura: da 10 anni.