Il libro venne pubblicato nel 1898, dapprima a puntate e solo in seguito in volume. Una giovane istitutrice viene chiamata per seguire due bimbi rimasti orfani e affidati alle cure di uno zio che, per diverse ragioni, non può occuparsi di loro. Questi assume la giovane donna a una sola condizione: di non contattarlo mai, qualsiasi cosa succeda ai ragazzi. Pertanto dovrà risolvere da sé ogni tipo di problema. Sempre! L'istitutrice fa quindi la conoscenza dei due ragazzi di ritorno dal college. Sono veramente intelligenti e adorabili. Lei si appassiona al lavoro e tutto sembra procedere per il meglio... sennonché cominciano ad apparire per la casa, sempre più sinistramente, due figure: un uomo con i baffi e una donna vestita a lutto... Un classico della letteratura gotica che ha ispirato decine di film e miniserie tv, opere liriche e teatrali, persino fumetti, qui tradotto dalla vibratile penna di Luigi Lunari.
Il romanzo si apre con il viaggio del giovane ufficiale in seconda Jim su un vascello, il Patna. Lo scontro con un relitto fa credere che la nave sia in procinto di affondare e Jim la abbandona con sopra i passeggeri. Jim, che nel fondo è un idealista, si pente subito del gesto vile, frutto di un atto impulsivo dettato dall'orrore del momento, ma anche un'inchiesta sancirà la sua colpa. Nel tentativo di rifarsi una vita, va in giro per il mondo, sfuggendo a se stesso, cercando l'anonimato. Raggiunge infine l'isola di Patusan, nell'arcipelago malese, dove con la forza del suo carattere e le sue qualità carismatiche riesce a stabilire l'ordine e a passare per un semidio.
"I Viceré si iscrive a mio avviso nel capitolo delle grandi saghe che con la potenza di un affresco narrano alcuni decenni di storia attraverso le vicende di una famiglia, di una stirpe, di un ceto sociale, assunti come monade del mondo che li circonda. [...] I Viceré è una disperata, sofferta, dolorosa confessione. La confessione di un essere umano che si identifica totalmente con una precisa società, e ne racconta i fatti e i misfatti con una oggettività insistita e impietosa; come un serial killer che una volta preso e smascherato svuota finalmente il sacco dei suoi delitti, rivelandone addirittura di insospettati. [...] I Viceré è dunque davvero un lungo, dolente monologo. Dal suo senso più profondo possono anche distrarre i fatti, i conflitti, i personaggi che ne animano le pagine, e che nel romanzo tengono desta l'attenzione, incuriosiscono, e addirittura appassionano. Ma il più autentico filo conduttore è quello: il dolore, forse anche la disperazione, che ne fanno il sofferto epicedio di questa società di naufraghi della Medusa, atavicamente impotente, alla quale l'autore è atavicamente legato e alla cui sorte si immola." (dalla prefazione di Luigi Lunari)
"La presente edizione dell'intera opera poetica di Mallarmé, corredata di traduzione e commento, si propone di contribuire a far partecipe il maggior numero di lettori italiani della difficile e schiva bellezza di questa poesia. Il commento utilizza gli apporti più rilevanti della critica mallarmeana, sulla base di una lettura personale (che consiste, necessariamente, d'innumerevoli riletture) costantemente tesa nello sforzo di raggiungere, di auscultare il poeta, e lui solo. La traduzione, condotta sull'edizione de "La Plèiade", è nata dalla mia personale esigenza di comprendere Mallarmé attraverso un'attenzione e una tensione di lettura superiori al normale, quali, cioè, una traduzione di poesia le richiede. Il criterio fondamentale cui mi sono attenuta è stato quello d'una fedeltà globale al poeta, che dedicandosi scrupolosamente alla traduzione dell'opera sua, andasse assorbendone di pari passo i modi espressivi, il gusto, i vizi e le manie, cercando di ottenere effetti simili con mezzi simili; che fosse, in sostanza, una sorta di imitazione di Mallarmé." (Luciana Frezza)
Ciascuno di noi ha due vite, e la seconda comincia proprio nel momento in cui realizziamo di averne solo una. Dopo "Essere o vivere", François Jullien ritorna con un saggio che analizza quel fondamentale momento di rottura in cui, mentre esistiamo, all'improvviso diventiamo pienamente consci di essere vivi. È l'inizio di una nuova vita, che germoglia dentro la vita stessa. Ed è anche un grande colpo di fortuna. Jullien comincia questo percorso filosofico ed esistenziale a partire da una considerazione tanto semplice da sembrare ovvia: a mano a mano che il tempo passa e la vita avanza, perché scegliamo di continuare a vivere? Una domanda universale, valida per tutti. Eppure, una domanda dalle mille risposte, spaventosamente enigmatica. La saggezza cinese, capace di pensare l'immanenza e la trasformazione, ma anche i "Dialoghi" di Platone sono i punti cardinali di Jullien, che ci guida lungo un percorso di consapevolezza, senza accontentarsi mai di risposte banali, e cerca una comprensione più alta e più ambiziosa, in grado di conquistare il senso della nostra seconda vita. La seconda vita si trova proprio qui, nel mezzo del tempo quotidiano della vita ordinaria. Per conquistarla dobbiamo innanzitutto interrogarci sulle certezze che consideriamo verità. Non le verità della scienza, ma quelle della vita di tutti i giorni, che diamo per scontate. E magari metterle alla prova, rimetterle in discussione alla luce della nostra esperienza. Allora scopriremo che alcune certezze sono negative e ottenebranti, e che la vita è apertura, è infinita pienezza di possibilità. Uno sguardo a questo nuovo orizzonte e possiamo cominciare a vivere davvero.
Accanto alle varie interpretazioni filosofiche di questo enigmatico classico esiste da sempre in Cina una tradizione oracolare che si rifà alle immagini sciamaniche del testo, rifuggendo da letture precostituite. Su tale base, il contenuto immaginale del libro acquista senso specifico nel dialogo con la domanda e la situazione del consultante, così come accade nell'interpretazione di un sogno. La polivalenza di significato dei caratteri e l'assenza di struttura grammaticale danno ai testi cinesi più antichi una fluidità di senso sconosciuta alle lingue occidentali, ragione per cui ogni traduzione è inevitabilmente una restrizione della loro ricchezza semantica. La presente traduzione dell'"I Ching" si serve di accorgimenti particolari per ovviare a questa limitazione: un'unica parola italiana restituisce ogni carattere cinese, evidenziandone un nucleo semantico; a essa però si affianca l'intera gamma dei significati del carattere, in modo tale che chiunque possa accedere all'intero spettro semantico che un lettore cinese coglie immediatamente.
Lei, la ragazza, è un'aspirante modella che si guadagna da vivere come può. Lui, Milo One Way Montero, è un pugile che conosce una sola direzione, andare avanti, e che andando avanti ha conquistato il titolo di campione del mondo. I due si incontrano, si annusano, si perdono. Quando si ritrovano, lui porta sulle spalle il peso di una bruciante sconfitta e di un'operazione all'occhio che lo ha reso più fragile; lei sembra pronta a farsi custode di quest'inedita fragilità. Parlano la stessa lingua, una lingua fatta di corpi che si intrecciano, di frasi scarne, ma soprattutto di gesti: lei copre con la mano l'occhio di lui, lui fa altrettanto con quello di lei. «Mi vedi?» si chiedono. E finché continuano a vedersi - malgrado le paure di lui, malgrado l'inafferrabilità di lei - il resto è solo rumore di fondo. Ma quel rumore c'è, e interferisce. C'è la provincia post-industriale italiana che Milo si è lasciato alle spalle. C'è il grande ritorno sul ring da preparare con il sostegno di un intero clan. E c'è Irene, la sorella di Milo, che gestisce l'impero economico nato attorno al brand One Way, ed è pronta ad andare contro chiunque minacci di ostacolarla o anche soltanto di intromettersi. A osservare il clan Montero, Leo Ruffo, giovane scrittore ingaggiato da Irene per raccontare la vita del campione. E il biografo allora diventa confidente, testimone di quanto accade dentro e fuori dal ring. Ma da che parte stare? Da quella di Irene, disposta a tutto pur di tenersi stretti la ricchezza e i privilegi faticosamente conquistati? O da quella della ragazza, che adesso cerca redenzione e giustizia attraverso la vendetta?
Febbraio 1862, la Guerra civile è iniziata da un anno, e il presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, è alle prese con ciò che sta assumendo tutti i contorni di una catastrofe. Nel frattempo Willie, il figlio prediletto di undici anni, si ammala gravemente e muore. Verrà sepolto a Washington, nel cimitero di Georgetown. A partire da questa scheggia di verità storica - i giornali dell'epoca raccontano che Lincoln si recò nella cripta e aprì la bara per abbracciare il figlio morto - Saunders mette in scena un inedito Aldilà romanzesco popolato di anime in stallo. Il Bardo del titolo, un riferimento al «Libro tibetano dei morti», allude al momento di passaggio in cui la coscienza è sospesa tra la morte e la prossima vita. È questo il limbo in cui si aggirano moltitudini di creature ancora troppo attaccate all'esistenza precedente, come Willie, che non riesce a separarsi dal padre, e il padre, che non riesce a separarsi dal figlio. Accompagnati da tre improbabili guide di ascendenza dantesca, assisteremo allo sconvolgimento prodotto nel mondo di queste anime perse dall'arrivo di Willie Lincoln, che è morto e non lo sa, e di suo padre, il presidente, che è come morto ma deve vivere per il bene del proprio paese. Sentiremo le voci - petulanti, nostalgiche, stizzose, accorate - degli spiriti e il controcanto della storia. Leggeremo nei pensieri di Lincoln e nella mente di suo figlio, uniti da un amore che trascende il dolore e il distacco fisico. Il romanzo si svolge in una sola notte, eppure abbraccia le epoche e arriva fino a noi, spaziando in un territorio dove tutto è possibile, dove la logica convive con l'assurdo, le vicende vere con quelle inventate, dove tragedia e farsa non sono due categorie distinte e separate ma un'unica realtà indifferenziata e contraddittoria, che proprio per questo appare spaventosa e viene negata. Come si può vivere, amare e compiere grandi imprese, sapendo che tutto finisce nel nulla?
Un'ironica meditazione sul destino e sul senso della fine, una critica feroce della Cina contemporanea, fra comunismo e ipercapitalismo. Yang Fei esce di casa una mattina e trova una nebbia fitta mista a una strana neve luminosa: è in ritardo per la sua cremazione. Inizia così il viaggio nell'Aldilà di un uomo vissuto, troppo brevemente, nella Cina del capitalismo socialista e delle sue aberranti contraddizioni. In un'avventura di sette giorni, il protagonista incontrerà persone care smarrite da tempo, imparando nuove cose di loro e di se stesso. Conoscenti e sconosciuti gli racconteranno, poi, la propria storia nell'inferno vero, l'Aldiquà: demolizioni forzate, corruzione, tangenti, feti buttati nel fiume come rifiuti, miriadi di poveracci che pullulano in bunker sotterranei come formiche, traffico di organi, consumismo sfrenato... La morte livella finalmente le diseguaglianze, svelando l'essenziale, e i cittadini di questa necropoli soave uscita dalla penna di Yu Hua ci insegnano tutta la semplicità dell'amore.
«Questo libro non è un tentativo di prevedere il futuro. Questo libro è un tentativo di sbloccare il futuro». E per sbloccare il futuro, scrive Rutger Bregman, bisogna tornare alle utopie. Di fronte al ritorno dei nazionalismi, al divario sempre più ampio tra ricchi e poveri e allo stress che il carico di lavoro porta ogni giorno nelle nostre vite, siamo costretti a riconoscere che le nostre aspettative sullo sviluppo liberale della società occidentale si sono drammaticamente consumate, lasciandoci di fronte alla dura verità: senza utopie, tutto quello che resta è un presente senza orizzonte, il presente immobile e sterile della tecnocrazia. Ma quali sono le utopie di cui abbiamo bisogno per rilanciare la politica e trovare la strategia per una convivenza sostenibile? Secondo Bregman, è arrivato il tempo di ridurre consumi e ore di lavoro, di aprire i confini degli stati e combattere sul serio la povertà, di concedere a tutti un reddito minimo, sottraendolo alle vuote retoriche populiste che si stanno impadronendo del dibattito mediatico in tutto il mondo democratico. "Oggi la pressione e il lavoro eccessivo sono diventati uno status symbol. Avere un po' di tempo libero è considerato come essere disoccupati, non come la scelta intelligente di anteporre la vita al lavoro". Per vivere meglio, secondo Bregman, basterebbe lavorare meno. Ma come si potrebbe sopravvivere? Concedendo a tutti il reddito di base. Un pensiero utopico, che in Olanda ha dato vita a un movimento per il reddito minimo, catturando l'attenzione dei media internazionali. D'altra parte, non si tratta di un'idea nuova né stravagante: "Da troppo tempo ci alleniamo a combattere, non a divertirci", scriveva John Maynard Keynes nel 1930.