Andrea Bocconi, che dell'arte del viaggio ha fatto la materia dei suoi libri, ne ha voluto compiere, questa volta, uno diverso dagli altri, un viaggio, come dice il titolo, "formato famiglia". Dopo aver visitato tante volte l'India, nel corso della sua vita, in coppia, con un amico, da solo, l'autore ha voluto farla conoscere ai figli, Martina e Tommaso, di dieci e sei anni. È stata l'occasione per rivederla con i loro occhi, per capire cosa guardano i bambini e cosa vedono gli adulti in quello sguardo, per godere dei loro commenti sorprendenti, tipo "tutti gli autisti indiani sputano e suonano il clacson" o "la porta della camera ha un diamante per maniglia". Un viaggio con i bambini ha permesso di sperimentare emozioni diverse, di battere sentieri vecchi e sentieri mai percorsi prima: la ricerca delle tigri nel Tiger Park, i grandi meditanti delle montagne, la ricchezza delle religioni, la povertà di sempre, gli alberghi comodi finora evitati e gli ozi di Goa. Come dice Bocconi: "È stato per me come presentare una fidanzata in famiglia: vorremmo fortemente che piacesse a tutti, anche se noi stessi non sappiamo che cosa ci lega a lei. Quando Francesca e i bambini sono tornati a casa, anche l'India che ho ritrovato da solo era impregnata della loro presenza. Ma noi, saremo piaciuti all'India? È una terra accogliente, penso che ci abbia accolto anche stavolta. E sono sicuro che ha fatto amicizia con Tommaso e Martina".
In questa Guida agli animali fantastici ci sono i prodigiosi esseri che circolavano liberamente nel mondo antico, ippocentauri, manticore, remore, sirene, ircocervi, e che oggi non circolano più, né lo potrebbero, con tutte le regole autostradali, la coltivazione industriale delle campagne, la deforestazione, gli antiparassitari, il traffico marittimo e altro ancora.
Ma in mezzo a loro, altrettanto fantastici, ci sono gli animali che sono rimasti e si incontrano comunemente, il pollo, ad esempio, con il suo sguardo sospettoso e un po’ sprezzante, o le formiche, sempre di corsa e preoccupate per la crisi economica, o le api, socialiste imperterrite fin dalla nascita, o la mucca che rumina e riflette. Che idee avranno su di noi? Sulla vita e sulla morte? Ne sapranno qualcosa o faranno finta di niente? Questi esseri molto prossimi, nostri parenti stretti, però anche distanti come gli extraterrestri, li si può stare a guardare per ore in un prato, o veder traversare come apparizioni una strada, o passare in cielo mentre migrano in Africa: esseri meravigliosi e misteriosi quanto le specie fantastiche e inesistenti.
E da ultimo c’è l’animale forse più fantastico di tutti, senza piume, a due gambe, spettatore del grande spettacolo dell’universo. «Quell’animale che guarda in cielo e dice: cosa sono quei lumini sospesi? E risponde: le stelle. Perché nessun altro animale le ha mai notate, nel corso di tanti milioni di anni e di tante notti stellate che sono passate su questo pianeta.» L’animale chiamato uomo.
Ernest ha settant’anni, Irena appena la metà. Lui, reduce da un’operazione, ha bisogno di assistenza, lei di prendersi cura di qualcuno dopo la morte dei genitori, di cui coltiva il ricordo e continua ad accudire con un’attenzione meticolosa gli oggetti, i vestiti, la casa. Due mondi, due solitudini, due generazioni incalzate dalla Storia e approdate in Israele quasi per caso, dopo lunghe peregrinazioni: Irena è nata a Francoforte dopo la Liberazione, in un campo di smistamento; Ernest, abbandonata Czernowitz al seguito dell’Armata rossa, è riuscito ad arrivare in Italia e da lì a imbarcarsi su una nave che raccoglieva profughi, ma ha lasciato dietro di sé tutta la sua famiglia.
Inatteso e improbabile, l’amore muta nel profondo le loro esistenze: in quella di Irena porta parole, le parole che Ernest cerca strenuamente nella sua lotta quotidiana con la scrittura; in quella di Ernest la luce, l’armonia che irradiano da lei, dalla sua fede semplice e dai suoi gesti premurosi. Attenzioni che, come le pietanze leggere e nutrienti che Irena gli prepara, riescono a sottrarlo alla cupezza che talvolta lo assale, e lo riconciliano a poco a poco con il proprio passato: i genitori respinti e abbandonati troppo presto, i nonni e l’atmosfera incantata dei Carpazi, il Dio dei padri. Per Ernest la presenza di Irena diventa una porta verso la vita nella sua concretezza; grazie a lei riuscirà a conquistare quella prosa limpida ed essenziale, fatta di parole «contate» come quelle della Torah, che «si possano porgere come una fetta di pane o una brocca di latte», e a diventare finalmente uno scrittore.
"Una volta lui gridò: 'Da giovane mi hanno strappato via l'amore.'
Lei non capì il senso della frase e ovviamente non fece domande, ma una notte comprese e disse: 'Ti darò tutto l'amore che tengo in serbo'."
Nell’inverno del 1972, a New York, Nadia vive reclusa in una casa vuota, a fare i conti con la solitudine dopo un abbandono e con le difficoltà del suo mestiere di scrittrice. L’incontro di una sola notte con un giovane poeta cileno le cambierà la vita: lui decide di lasciarle in prestito i suoi mobili e di tornare in Cile, dove verrà inghiottito dalle carceri di Pinochet. A Nadia resta in eredità un’enorme scrivania, dotata di diciannove piccoli cassetti, uno dei quali impossibile da aprire. E quando dopo venticinque anni riceve la telefonata di quella che si presenta come la figlia del poeta, Nadia si rende conto di non volersi separare da qualcosa che è diventato parte integrante della sua identità.
Si tratta, forse, della stessa scrivania su cui da sessant’anni un antiquario di Gerusalemme sta cercando di mettere le mani, nel tentativo di ricostruire pezzo dopo pezzo lo studio di suo padre, saccheggiato dai nazisti a Budapest in una notte del 1944. E per un periodo sembra essere appartenuta anche a un’altra scrittrice, Lotte Berg, fuggita a Londra dalla Germania nazista: solo alla fine della loro vita insieme il marito di Lotte, un professore universitario inglese, capisce di non aver mai conosciuto a fondo la donna che ha amato di un amore struggente, e che proprio in quei cassetti nascondeva un terribile segreto.
Quella scrivania diventa il simbolo dell’intreccio fra destini lontani che inaspettatamente finiscono per collidere: con la sua ingombrante presenza e la sua insopportabile assenza incarna i ricordi, i rimpianti, le debolezze di chi l’ha posseduta e l’ha perduta, il peso opprimente di tutto ciò che riusciamo o non riusciamo a trasmettere alle persone che amiamo.
A New York, in un’afosa domenica di luglio, un uomo viene investito da un taxi e resta gravemente ferito. Risvegliatosi dal coma in un letto d’ospedale, assiste, spettatore indifferente e quasi ostile, ai disperati tentativi di guarirlo da parte dei medici e della donna che lo ama. Se il presente — il mondo inconsapevole dei vivi, con la sua promessa di serenità, l’amore di Kathleen, la benevola curiosità di un giovane dottore, l’affetto degli amici — vuole imporgli le sue ragioni, un passato di distruzione e morte lo reclama a sé e pretende i suoi diritti. In un caleidoscopio di ricordi, in cui all’infanzia nel villaggio ebraico si mescolano le esperienze della guerra e del dopoguerra, sfilano dinanzi a lui i volti delle vittime, gli uomini e le donne annientati durante l’Olocausto. Le voci dei morti, eco di un mondo scomparso per sempre, risuonano ben più reali e forti di quelle dei vivi, imponendogli l’imperativo della memoria, il dovere della testimonianza.
Vivere è una colpa, perché vivere significa dimenticare, significa accettare che, anche dopo Auschwitz, siano possibili la felicità e l’amore. In questo breve romanzo, teso ed essenziale, Elie Wiesel ripropone la lotta tra le ragioni della memoria e le ragioni della vita, la tragedia di chi è sopravvissuto e non riesce a perdonarselo.
Questo libro è una battaglia, perché la cultura non abbandoni la nostra vita e prima di ogni altro luogo la nostra scuola, rendendo il futuro di tutti noi un deserto. È anche un atto di accusa alla mia generazione, che ha compiuto alcune scelte disastrose e non manifesta oggi il minimo pentimento. Infine, è la mia personale preghiera ai giovani, perché scelgano loro, in prima persona, la vita che vorranno, ignorando ogni pressione, sociale e soprattutto famigliare. E perché, in un mondo che li vezzeggia, li compatisce, e ne alimenta ogni giorno il vittimismo, essi con un gesto coraggioso e rivoluzionario si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono.
Un mondo governato dai matematici: questo sembra vagheggiare Platone nel libro settimo della Repubblica. La storia, però, non ha dato seguito a quel suo autorevole suggerimento: ci sono stati, è vero, politici di estrazione matematica, oppure tentativi più o meno riusciti di socialismo "scientifico". Ma nel complesso l'utopia di uno stato matematico è rimasta tale. Non così in letteratura: i classici ci propongono infatti esempi di società matematiche, come l'isola del terzo viaggio di Gulliver, sperduta non in mezzo al mare, ma tra le nuvole, come del resto i cervelli dei suoi distrattissimi abitanti, persi nell'empireo delle speculazioni astratte. In genere tra gli scrittori "matematica" è spesso sinonimo di rigidità, predeterminazione soffocante e disumana contro cui ribellarsi. Osserva per esempio Dostoevskij che la vita è "pur sempre la vita, e non solo una radice quadrata". Eppure anche in letteratura - in Borges, Carroll, Musil, Queneau e moltissimi altri - emerge un'altra immagine di matematica, che è invece gusto del paradosso e dell'aforisma, libertà da ogni schema, fantasia di inventarne di nuovi, levità e giocosità: quella che Italo Calvino definisce nelle sue Lezioni americane la "leggerezza della pensosità" e Thomas Mann chiama in Altezza Reale un "gioco dell'aria". È di queste matematiche esotiche e variegate che il libro tratta, presentandole così come ce le dipingono i riferimenti letterari.
Di dizionari filosofici ne sono stati scritti tanti, ma il più delle volte trattano di questioni come Dio, la sostanza, il destino, la libertà, e qualche volta persino con un tono oracolare, o quantomeno professorale. Invece, in questa «filosofia per dame» – che significa, illuministicamente, «filosofia per tutti», non solo per chierici o addetti ai lavori –, si tratta anche di temi non canonicamente metafisici, come il lasciarsi, lo stress, il marito pantofolaio, i corteggiatori forse molesti, le vacanze e i suoceri, fino alle più moderne e postmoderne gaffes sul web o amicizie di Facebook.
Temi classicissimi, in realtà, e spesso importanti, gravi quando non addirittura funesti, ma classicamente reputati poco filosofici, e ai quali questo dizionario cerca di dare delle risposte, il più possibile pratiche e attuabili, sfatando il mito secondo cui la filosofia dovrebbe soprattutto porre domande. L’ordine delle voci è ovviamente alfabetico, ma si gioca con i rimandi, che creano nessi psicoanalitici e spiazzamenti liberatori. Il vantaggio, in veste di filosofi, è che nel dare risposte «non si è costretti a essere ottimisti o confortanti. Al massimo si possono suggerire piccoli stratagemmi, giacché, come scriveva Gracián, la vita è milizia contro la malizia umana». E se poi la milizia non dovesse aver la meglio sulla malizia, resterebbe pur sempre l’estrema risorsa di Scarlett O’Hara: dirsi che domani è un altro giorno, e prenderla con filosofia.
Non si è mai soli a Kaikurussi, piccolo villaggio del Kerala. C’è sempre un vicino che dispensa consigli, che vuole sapere, che ficca il naso nella vita degli altri, pronto a giudicare e a commentare quello che ha scoperto. Una rete di chiacchiere che potrebbero portare anche il migliore degli uomini a comportarsi male. Ma esiste un uomo migliore di altri a Kaikurussi? È forse Mukundan che, pensionato, torna al paese dei genitori e si trova a combattere con i fantasmi del passato e con gli incubi del presente? O magari è Bhasi il pittore, laureato con il massimo dei voti, ma rassegnato a passare il resto della vita appollaiato su una scala di bambù a dipingere pareti, ascoltare le lamentele dei clienti e curare a modo suo chi ne ha bisogno? Di sicuro non è Achuthan, il padre tiranno di Mukundan, che il figlio, nonostante non sia più un ragazzo e abbia una sua vita, ancora teme, né il ricchissimo Ramakrishnan, intenzionato, nonostante i moltissimi soldi vinti alla lotteria, ad arricchirsi ancora di più calpestando chiunque osi mettersi sulla sua strada.
Toccherà a Mukundan scoprirlo sulla propria pelle, imparando per la prima volta nella vita ad avere fiducia in se stesso, a non lasciarsi condizionare dal giudizio di nessuno, ad aprirsi alle emozioni curandosi solo di chi gli è veramente vicino.
Le ricerche d’archivio di una giovane storica ci catapultano, all’inizio del romanzo, in un piccolo borgo ebreo nella Polonia ottocentesca, Podhoretz, dove Haim Yaacov, ciabattino e violinista, riceve la visita del profeta Elia e diventa rabbino della comunità, osannato da tutti e in grado con il suono del suo violino di guarire gli animi e i malati. Un secolo dopo, i nazisti invadono il paese e solo uno dei discendenti del famoso rabbino violinista riesce a salvarsi, rifugiandosi nel ghetto di Varsavia, dove però viene catturato e deportato ad Auschwitz. Quello che si salva dall’orrore anni dopo è un uomo distrutto, uno scrittore apolide, incapace di superare l’angoscia del sopravvissuto, fino all’incontro con una donna che con il suo amore lo riporterà alla vita.
Intensa saga famigliare, venata di sense of humour e narrata nei toni poetici, lievi e surreali di un racconto chassidico, La stella del mattino è anche un canto funebre per chi non l’ha avuto, fucilato sul ciglio di una fossa comune, ucciso dal tifo o asfissiato nelle camere a gas.