Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.
Nella primavera del 2011 il mondo arabo è stato investito da una serie di proteste radicali che chiedevano un reale cambiamento dei regimi politici al governo. Dopo decenni di dittature militari, di corruzione generalizzata, malversazioni, inefficienza amministrativa e sperpero delle risorse nazionali, per un breve spazio di tempo è sembrato che finalmente la democrazia stesse per affermarsi anche in Medio Oriente. Il sogno si è infranto quasi subito nella tragedia: la sanguinosissima guerra civile in Siria, i conflitti tribali e petroliferi in Libia che hanno smembrato quella parvenza di Stato che era la Jamahiriyya di Gheddafi, le guerre religiose che nella penisola arabica hanno ridotto alla fame lo Yemen. Tunisia a parte, ovunque la richiesta di democrazia è stata disattesa, ovunque i problemi economici e demografici sono rimasti irrisolti, ovunque si è preferito utilizzare la forza per affrontare le tensioni tra Stato e società civile. Ripercorrere la storia di questa stagione è fondamentale per comprenderne fino in fondo le ragioni, per analizzare le responsabilità e per prevedere le conseguenze che essa avrà anche sulla nostra parte di mondo. Una lettura indispensabile per chiunque voglia approfondire le contraddizioni e i conflitti del nostro tempo, soprattutto in un paese come l’Italia che dal legame con il mondo arabo viene direttamente coinvolto.
Se la postdemocrazia ci ha condotto fin qui, gestirla non è più sufficiente: occorre combatterla. Non soltanto, infatti, quelle che erano le principali nuove armi di cui la società civile dispone – le armi offerte dalla tecnologia dell'informazione – le si stanno rivoltando contro, ma nelle democrazie consolidate di tutto il mondo siamo di fronte a una messa in discussione profonda dell'ordine costituzionale e a un risveglio xenofobo. Queste sfide, sebbene non estreme come quelle portate dal fascismo e dal nazismo tra le due guerre mondiali, sono di segno politico analogo. È arrivato il momento di difendere le nostre democrazie.
Già nel 2003 Colin Crouch delineava le debolezze e le caratteristiche della nostra democrazia rappresentativa: il crescente disinteresse dei cittadini alla vita pubblica, la competizione elettorale che si trasforma in uno spettacolo controllato da esperti nelle tecniche di persuasione, il peso delle lobby all’interno dei parlamenti eletti. Questa nuova fase fu denominata da Crouch ‘postdemocrazia’. Oggi è essenziale aggiornare e ridefinire il quadro postdemocratico alla luce dei più importanti eventi politici, economici e sociali degli ultimi anni: la crisi economica del 2008 e, due anni dopo, la crisi dell’Unione europea; la crescita e l’affermazione dei partiti populisti e xenofobi di destra; l’utilizzo politico della rete e dei social network (che all’inizio promettevano l’allargamento del dibattito democratico mentre oggi si rivelano strumento di controllo e persuasione di massa); ma anche i movimenti ambientalisti e femministi cresciuti e rafforzatisi negli ultimi anni. Nell’ultima parte del libro, Crouch si concentra su alcune proposte concrete in grado di salvaguardare la democrazia rappresentativa e costruire un’alternativa a un futuro che appare a tratti distopico.
«Il viaggio raccontato da Mangano lungo la complessa filiera agroalimentare permette di conoscere ciò che si nasconde nel piatto in cui mangiamo. La conoscenza come strumento per essere liberi e scegliere consapevolmente. Il cibo come elemento con una potenza straordinaria capace al contempo di indebolire o favorire giustizia sociale: nostra la scelta, nostra la responsabilità.»
Carlo Petrini, Slow Food
Al supermercato siamo contenti di trovare passate di pomodoro e arance ‘sottocosto’. Spesso le compriamo, soddisfatti del risparmio. Poi capita di indignarci leggendo certe notizie spaventose sui lavoratori delle campagne.C’è un filo comune che lega quelle notizie ai nostri comportamenti d’acquisto. Questo libro indaga la filiera di alcuni prodotti agricoli ad alto rischio, dalle arance ai pomodori, all’uva. Andando a ritroso dal supermarket ai centri di distribuzione, fino alle serre e ai campi, scopriamo che la brutalità del caporalato e la ‘modernità’ della globalizzazione convivono senza scontrarsi. E che l’economia globale porta i contadini di Rosarno a competere con quelli brasiliani; i pugliesi con i cinesi; i piemontesi con gli spagnoli. I ghetti sono la parte visibile del problema. Le cause vanno cercate in una filiera dominata dagli intermediari e sovrastata da oligopoli capaci di imporre i prezzi, a ogni costo.Antonello Mangano ci accompagna in un lungo viaggio dagli agrumeti di Rosarno alle industrie di succo d’arancia tra Messina e Catania, dai supermercati del milanese ai campi di pomodori di Foggia e Ragusa, fino alle centrali logistiche padane. Infine, scopriremo i frutteti di Saluzzo e i vigneti del Chianti, perché lo sfruttamento si annida persino nelle aree più ricche.Il libro si chiude con una domanda cruciale: se non voglio essere ‘complice’ di un sistema ingiusto, come devo comportarmi? Le alternative, per fortuna, sono numerose.
Uno spaccato illuminante dell’economia del nostro paese dal 1968 a oggi: la storia degli interventi pubblici nell’economia italiana ma anche la loro relazione con la trama dei principali eventi politici, istituzionali, internazionali e sociali di quegli anni.
Ne emerge il racconto avvincente di una stagione di illusioni ed errori, culminata dieci anni fa in una crisi economica gravissima, da cui l’Italia stenta a riprendersi.
Una guida utile per chi – anche se non addetto ai lavori nelle discipline economiche – voglia orientarsi nella storia recente della politica e dell’economia in Italia.
Il mondo contemporaneo ha assoluto bisogno di pensare il futuro come una possibilità buona. È nell’ottica di un’opportunità per il cambiamento che questo libro rilegge le utopie moderne da Thomas More a Francesco Bacone, da Henri de Saint-Simon a Zygmunt Bauman.
Il ritorno a Utopia è un viaggio necessario, per quanto il suo percorso sia difficile da immaginare con precisione. Superata l’illusione che il progresso si produca automaticamente per un destino o per una necessità storica o tecnologica, abbiamo il compito di immaginare strutture e relazioni sociali che siano meno ingiuste, meno autodistruttive, più vivibili, anche se non perfette.Si tratta di provare a tracciare l’immagine credibile di un futuro in vista del quale agire con decisione. La navigazione è affidata all’ingegno di ognuno e di tutti, ma prima di salpare occorre rintracciare e ordinare le conoscenze intorno a che cosa sia la meta che intendiamo raggiungere. Conoscenze che si trovano precisamente in quell’immagine della giustizia e del bene che abbiamo imparato a chiamare ‘utopia’. Riscopriremo così la profondissima ragionevolezza del pensiero utopico, il suo realismo, la sua concretezza – antidoto alle contorsioni folli dell’attuale assetto del mondo.
Giudicare: un compito necessario e impossibile. Necessario perché una società non può lasciare senza conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza. Impossibile perché non possiamo mai avere la certezza di riuscire a conseguire la verità. Da questa contraddizione nasce l’esigenza di stabilire un itinerario conoscitivo, il ‘processo’, ritenuto il metodo meno imperfetto per pronunciare una decisione giusta, che siamo disposti ad accettare pro veritate.
Una preziosa riflessione sul processo penale che ne analizza l’irrinunciabile funzione sociale, le scelte epistemologiche qualificanti, gli snodi fondamentali, le distorsioni della sua rappresentazione mediatica.
La direzione del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici è cambiata: le speranze di miglioramento, che erano state riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reimpiegate nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Con un simile dietrofront il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, si trasforma in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale a quello di vedersi riprendere le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere-prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, potrebbe trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente.
Negli ultimi trent’anni l’Italia e gli italiani sono profondamente cambiati. Assetti demografici, lavoro, welfare, produzione, consumi, stili di vita, forme della partecipazione e della comunicazione, partiti, sistema politico: quasi nulla è più come prima. Il libro prova a ricostruire i più importanti tra questi mutamenti – lo choc migratorio, il declino economico, la metamorfosi dei valori e delle appartenenze, gli effetti della rivoluzione digitale – per concentrarsi quindi sulle trasformazioni del sistema politico tra Prima e Terza Repubblica. Riprendendo e aggiornando le tesi di Karl Polanyi sulla ‘grande trasformazione’, l’autore colloca al centro del quadro l’urto strisciante e poi frontale tra le forze sempre più invincibili della globalizzazione, in particolare del mercato e dell’economia globali, e un paese messo progressivamente in ginocchio dai suoi effetti distruttivi. Ne è derivata una confusa e disordinata ‘rivolta della società’, che ha voltato le spalle alle vecchie forze politiche della Seconda Repubblica, sempre più incapaci di proteggerla, e che ha ceduto infine alle velleitarie promesse di riscatto dei populismi. Una trappola insidiosa, dalla quale – almeno per un po’ di tempo – sarà assai difficile uscire. In Italia e in molte altre parti del mondo.
Uno dei maggiori studiosi italiani dell’Inquisizione ricostruisce le secolari resistenze di una piccola isola alle imposizioni della Chiesa: a Procida i ripetuti tentativi delle autorità ecclesiastiche di introdurre le severe regole dettate dal Concilio di Trento – dalla lotta alle convivenze alla repressione delle pratiche magiche – dovettero fare i conti con una comunità ricca, vivace, aperta agli scambi e orgogliosamente attaccata ai propri modi di vita. Il quadro complessivo restò a lungo per la Chiesa di Roma fallimentare, e il libro lo documenta ampiamente. Le vicende di Procida sono l’occasione per riflettere sul complessivo esito dei tentativi di disciplinamento religioso nell’Italia moderna. Ovunque, sia in altre piccole isole, sia nelle aree rurali, sia nelle città, le reazioni furono diffuse e invitano a riflettere sulla straordinaria durata del ‘Medioevo’ religioso nel paese del papa.