Un giorno può avere il respiro di un’epoca: forse lo pensava anche Giulio Cesare, quando decise di varcare il Rubicone.
Andrea Giardina
Uno sguardo nuovo su uno degli episodi più noti della storia antica: il punto prospettico non è infatti l’avanzata inarrestabile di Cesare, ma la decisione inaudita di Pompeo, sull’altro fronte, che pochi giorni dopo ordina a tutti i senatori di abbandonare Roma.
Luciano Bossina, “La Stampa”
Nel gennaio 49 a.C., Cesare varcò il Rubicone alla testa di alcune coorti legionarie, pronunziando una celebre frase. Nello stesso giorno occupò Rimini, presidio strategico della terra Italia. Si spinse poi verso sud, minacciando la stessa Roma. Pompeo, incaricato di fermarlo, rispose con una mossa meno celebre ma altrettanto fatidica. Ordinò all’intera classe politica di abbandonare la città e di seguirlo, per contrattaccare dal meridione della Penisola o, addirittura, dai Balcani. Il panico fu inenarrabile. Mai i romani si erano trovati di fronte a una situazione del genere. L’Urbe, nella sua secolare storia, era stata sempre difesa. Che cosa avvenne in quei terribili giorni? Roma era davvero indifendibile? Quali furono le conseguenze della fuga pompeiana?
Era davvero il viaggio della vita. Erano altri tempi, pi o meno mezzo secolo fa. La meta era lontana: l'India, il Nepal, lAfghanistan. Le condizioni del viaggio erano disagevoli: niente aerei, carte di credito, cellulari, bed and breakfast; piuttosto travelers cheque, scassati uffici del telegrafo, fermo posta, ostelli. I pi fortunati viaggiavano su un pulmino Volkswagen, se no bus, treni, autostop. Fu davvero una grande migrazione, ricordata in questo prezioso Baedeker di Emanuele Giordana; lui oggi giornalista specializzato in Paesi asiatici fu uno dei pionieri. Fu un viaggio interiore, individuale e collettivo, alla ricerca di spiritualità, meditazione, allargamento della conoscenza e una reazione alla vita competitiva che si conduceva in occidente. Un libro rievocativo, preciso e nostalgico. Enrico Deaglio, Il Venerdì di Repubblica
Emanuele Giordana ritorna sulla rotta degli anni Settanta per Kathmandu: il Grande Viaggio in India fatto da ragazzo e ripercorso a otto lustri di distanza. Un sogno che portò migliaia di giovani a Kabul, Benares, Goa, fino ai templi della valle di Kathmandu.
Usando un linguaggio semplice e rigoroso, Marcello Ticca sfata i falsi miti che influenzano negativamente le nostre scelte a tavola e che demonizzano piaceri innocenti come un buon pane fragrante, magari di farina bianca, o un piatto di spaghetti a cena.
Un libro prezioso e di piacevole lettura anche per chi pensa di non essere stato influenzato dalle mode alimentari più recenti.
Elisabetta Moro, “Il Mattino”
Solo un ricercatore che ha dedicato la sua vita a studiare gli alimenti, gli effetti di questi sull’organismo e le diete corrette per perdere peso poteva raccogliere tutti i luoghi comuni sull’alimentazione. Un libro che rivoluziona l’argomento, evidenze scientifiche alla mano, e ci accompagna senza imposizioni, obblighi o divieti.
Carla Massi, “Il Messaggero”
A fine lettura vivremo più serenamente il rapporto con quel che mettiamo nel piatto.
Marino Niola, “Il Venerdì di Repubblica”
Siamo sicuri che mangiare la pasta di sera faccia ingrassare, che la cioccolata provochi l’acne e l’ananas e il pompelmo aiutino a dimagrire? Siamo prigionieri di tanti luoghi comuni sul cibo... da sfatare per riappropriarci di uno stile alimentare più equilibrato e consapevole.
È vero che gli immigrati ci rubano il lavoro e abbassano i salari? Che abusano del nostro welfare? Che rallentano lo sviluppo? L'autore risponde a queste domande per spiegare come i migranti influiscono sulla nostra economia. E ne pone delle altre forse ancora più rilevanti per il nostro immediato futuro: perché senza immigrati il nostro sistema di welfare andrebbe a picco? Come possiamo attirare migranti con qualifiche elevate e perché farlo è fondamentale per l'innovazione? Perché 'aiutarli a casa loro' è come lasciare 50 euro sul marciapiede per evitare lo sforzo di raccoglierli? Perché investire sull'integrazione dei nuovi arrivati è vitale per l'economia italiana?
Un anarchico, un re e un cocchiere. Tre persone che non hanno nulla in comune; tre vite diverse che si incontrano la sera del 29 luglio 1900 a Monza. Uno spara, uno muore, l'altro osserva. Tre voci, tre punti di vista per raccontare un giorno come tanti che ha visto il primo di una serie di omicidi politici che avrebbero costellato i decenni a venire. Gaetano Bresci, l'anarchico, è un operaio figlio di contadini, un emigrato in New Jersey, un uomo ora radicato negli USA ma capace di lasciare tutto e attraversare l'Atlantico per vendicare gli oppressi dalle violenze del sovrano. Un uomo comune che con il suo atto dirompente diventa un mito destinato a sopravvivere per decenni. Il re è Umberto I, 're buono' perché abolisce la pena di morte, ma anche 're mitraglia' perché sostiene le cannonate di Bava Beccaris durante i moti popolari a Milano. La politica, gli stili di vita, le condizioni culturali, sociali ed economiche dei due uomini, Umberto I e Gaetano Bresci, diventano così il pretesto per raccontare un'epoca con le sue tensioni e le sue contraddizioni. E, infine, c'è il terzo protagonista: il cocchiere. Una figura marginale e fino a oggi trascurata eppure centrale nella scena del delitto. Un osservatore particolare: invidia e non sopporta il re con il suo snobismo e i suoi eccessi, ma non capisce e nemmeno si accorge di tutta la tensione sociale che attraversa il Paese. In questo giorno si chiude per l'Italia l'Ottocento, secolo della nascita della nazione e dello stato unitario, e comincia a prendere forma il Novecento, secolo delle masse.
Il Palio di Siena non è una corsa di cavalli. O meglio: sì, è una corsa di cavalli, ovviamente, ma la galoppata che scatena la passione dei senesi e la curiosità di chi la segue è soprattutto un compendio, in poco più di un minuto, di una storia che non è fatta solo di cavalli che corrono e che non è neppure solo senese. Il Palio è un caleidoscopio attraverso il quale possiamo fare un viaggio nel tempo, in secoli di feste italiane. Il Palio di Siena nasce nel Seicento e solo nell'Ottocento prende la sua attuale veste 'medievale'. Paradossalmente diventa così ciò che nel Medioevo non era: una festa 'fatta' dal popolo, dal momento che fino al XVII secolo era una festa 'offerta' al popolo. Da questo punto di vista il Palio costituisce un esempio clamoroso di invenzione della tradizione. La festa senese, inoltre, non è mai stata sempre uguale a se stessa perché è stata ridefinita in tutte le sue componenti dalla storia dei tempi: quella nazionale e in qualche caso quella sovranazionale. La storia del Palio di Siena è, dunque, solo in parte storia che riguarda una singola città: per molti aspetti si tratta di una vetrina del modo in cui, nei secoli, si è trasformata la festa urbana e si è consolidato l'immaginario che essa ha suscitato. Ma come ha fatto una festa del tutto simile a una miriade di eventi analoghi a sopravvivere solo a Siena? Perché la contrada, il vero nucleo sociale aggregante del Palio, è riuscita qui a resistere e a costituire un modo di vivere che altrove si è perduto con il passaggio alla modernità? Una ricostruzione degli avvenimenti che contornano la corsa di cavalli più famosa al mondo insieme al racconto di quanto di vero, reale, semireale o totalmente fantasioso si è sedimentato intorno a questo evento, affascinando antropologi, giornalisti, scrittori, poeti, registi cinematografici e viaggiatori di ogni epoca.
In occasione del centenario della rivoluzione d'ottobre, Emilio Gentile rovescia i giudizi correnti nella storiografia italiana e straniera sui rapporti fra Lenin e Mussolini e getta nuova luce sui due primi capi rivoluzionari del ventesimo secolo, artefici dei primi regimi totalitari, l'un contro l'altro armati per imprimere il proprio modello sulla civiltà moderna. I due regimi non furono fratelli-nemici: il primogenito comunista non insegnò al secondogenito fascista, divenuto suo rivale, il metodo per distruggere la democrazia e istituire il regime a partito unico. Mai Mussolini considerò Lenin, la sua rivoluzione, il suo regime come esempi da imitare. Al contrario. Fin dal 1920 Mussolini condannò il regime di Lenin come una dittatura di fanatici intellettuali imposta col terrore sul proletariato, considerò fallito l'esperimento comunista, giudicò liquidata la minaccia bolscevica in Europa. E un anno prima della conquista fascista del potere, il duce dichiarò pubblicamente che in Italia non c'era nessun pericolo di rivoluzione bolscevica. Ricostruendo l'attitudine e l'atteggiamento di Mussolini nei confronti di Lenin, la rivoluzione bolscevica e il regime comunista, emerge una nuova e originale lettura di due uomini che hanno fatto la nostra storia.
In pochi anni e con un'accelerazione imprevedibile è successa una catastrofe: sono spariti il Patriarcato e il suo rappresentante più noto, il Padre. Il loro posto è stato occupato dal Sé, è lui che comanda e sancisce il giusto dall'ingiusto. L'individuo, insensibile alle regole e alle leggi e in assenza di grandi narrazioni condivise, pretende di realizzarsi e di ottenere con facilità ricchezza, benessere e potere sociale. Se nelle società del passato l'urgenza era quella di adeguarsi alle regole e alla legge del Padre, oggi il desiderio più profondo dei ragazzi - ma sempre di più anche degli adulti - è quello di suscitare ammirazione. E se non c'è l'ammirazione, c'è la vergogna: risulta intollerabile l'idea di essere considerati brutti, insignificanti, privi di fascino. Alla caduta dell'etica condivisa ha corrisposto l'enfasi sull'estetica, sul potere della seduzione, sull'esibizione spudorata di doti spesso inesistenti. Ecco perché oggi la paura di essere inadeguati, di non essere all'altezza delle aspettative, di non essere desiderabili, è divenuta la causa più diffusa di sofferenza mentale.
I diritti, quelli individuali e sociali, sono la misura della qualità di una società. È su questo principio che Stefano Rodotà ha costruito la sua vita di studioso, di politico e di intellettuale pubblico. Lo sviluppo della tecnica e i rischi di disumanizzazione della vita, la dignità umana, l'impatto delle nuove tecnologie sull'esistenza delle generazioni presenti e future, la questione dei beni comuni, il diritto al cibo, l'identità in Rete: su questo si riflette e si discute pagina dopo pagina in questo libro. Oltrepassando la prospettiva strettamente legata al diritto positivo, Rodotà riflette all'interno di visioni che hanno una natura culturale e morale. Non a caso al centro pone sempre la persona umana, la sua dignità, il valore della solidarietà. In questo nostro tempo di tumulto, come lo definisce l'autore, «i principi guida devono essere ricercati in una dimensione irriducibile all'economia, prendendo le mosse dal sistema complessivo, fondato sul riconoscimento primario contenuto nell'articolo 1 della Carta dei diritti: La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata».
Per una casualità del destino, l'Unità d'Italia corrisponde cronologicamente all'affermarsi della fotografia. Questa coincidenza temporale ha fatto sì che le fotografie abbiano registrato fin dalle origini eventi e umori di una società in divenire e abbiano contribuito alla costruzione dell'identità nazionale. Presenti nella quotidianità come nella rappresentazione ufficiale, ci offrono testimonianze, icone, memoria. La particolarità dello svilupparsi di questo racconto è che, qui, lo sguardo del fotografo incontra quello dello storico. Ciascuna immagine, selezionata dalla photo editor Manuela Fugenzi, è accompagnata dalle interpretazioni, dai commenti e dagli approfondimenti della penna di quattro grandi storici: Vittorio Vidotto, Emilio Gentile, Simona Colarizi, Giovanni De Luna. Nasce così il circuito virtuoso tra il lavoro dello storico, con i suoi strumenti di analisi capaci di scavare nel profondo di un'epoca e lo sguardo di chi era dentro un evento e lo ha immortalato per sempre in un'immagine.