La Teogonia è uno dei testi fondanti della civiltà greca, perché racconta il Principio e la genesi delle divinità primigenie, sino al dominio di Zeus, dando a esse un nome. Genesi, cioè generazione. Non Creazione, della quale, come anche di un Dio creatore dal nulla, non vi è traccia in Esiodo. Gli esseri primi semplicemente «vennero ad essere»: Caos, Terra, Tartaro ed Eros, «il più bello fra gli dèi immortali, / che scioglie le membra». L'immane vuoto, il Caos, nel quale campeggia la materia prima, la Terra; il fondo «caliginoso» del mondo sotterraneo, Tartaro, nel quale verranno poi confinati i Titani sconfitti. E, su tutto regnante, l'Amore. Di questi mattoni originari è fatto il cosmo, per Esiodo: sono essi che generano le entità successive: da Caos nascono Erebo e Notte, e da loro, unitisi «in amore», Etere e Giorno. Terra, d'altra parte, genera, «uguale a sé, Cielo stellato», affinché tutt'intorno la copra e per gli dèi beati sia sede sicura sempre. Primo di tutti i racconti cosmogonici classici, la Teogonia non si ferma alla genesi degli dèi, ma nella versione che ci è pervenuta giunge, dopo le vicende di Prometeo e la guerra contro i Titani e Tifeo, addirittura sino a Ulisse: il quale con Circe genera Agrio e Latino, che regnano sui Tirreni. Ma soprattutto, la Teogonia inizia e termina con le Muse: «Le Muse eliconie cantiamo per prime», recita l'apertura del poema. Le Muse, figlie di Zeus e Memoria, formano danze belle e seducenti, ondeggiando sui piedi. «Velate di fitta bruma», esse vanno nella notte, «versando una voce bellissima» e celebrando gli dèi. Sono loro che ispirano Esiodo: a lui che «pascolava gli agnelli ai piedi dell'Elicona divino» esse hanno dato per scettro un ramo d'alloro, e impongono di cantare il «vero», perché egli glorifichi «ciò che sarà e ciò che prima è stato»: e di celebrare «la stirpe dei beati che sempre sono, ma di cantare loro all'inizio e alla fine sempre». Un parallelo implicito viene così stabilito nella Teogonia tra l'inizio del mondo e quello del canto, della poesia. Perché anche le Muse cantano, glorificando «la stirpe venerabile» degli dèi, «dal principio, quelli che Terra e il vasto Cielo generarono». Allora «ride» la dimora del padre «alla voce di giglio delle dee» e le Muse, come Esiodo, cantano il Principio.
La modernità sta davvero fallendo? O non riusciamo forse ad apprezzare il progresso e gli ideali che lo rendono possibile? Il ventunesimo secolo sembra sprofondare nel caos, nell'odio e nell'irrazionalità. Eppure Steven Pinker dimostra che questa è un'illusione, un sintomo di amnesia storica e fallimenti statistici. Guardando infatti alle tendenze e non ai titoli, risulta evidente che le nostre vite si sono allungate, siamo più sani, più felici, il mondo è più sicuro e più pacifico e questo è vero non solo in Occidente ma dappertutto. Questo progresso non è il frutto del caso: è il risultato di un sistema di valori coerente e stimolante che molti di noi abbracciano senza nemmeno rendersene conto. Questi sono i valori della ragione, della scienza, dell'umanesimo e del progresso. Le sfide che affrontiamo oggi sono formidabili, tra cui disuguaglianza, cambiamenti climatici e tensioni religiose. Forse non avremo mai un mondo perfetto, ma, grazie alla scienza, possiamo continuare a renderlo migliore.
Generoso con gli umili, insofferente con i rivali, attaccatissimo al soldo, ascetico, trasgressivo, Michelangelo Buonarroti è il primo artista veramente moderno, capace di opporsi a tutto e a tutti, pontefici compresi, pur di esprimere se stesso. Scultore, pittore, architetto, poeta, durante la sua lunghissima vita (morì a quasi 89 anni) fu acclamato, strapagato, imitato, odiato. Troppo spesso, fu solo. Per necessità, per scelta, per destino. Senza lasciarsi intimorire né abbagliare dal mito del genio assoluto, Giulio Busi segue le tracce dell'uomo Michelangelo, che si sentiva fuori posto sia nelle botteghe di pittori e scultori sia nei salotti dei principi. Figlio di un'antica famiglia cittadina impoverita, nasce in provincia, tra i monti dell'Appennino toscano, dove il padre Lodovico è podestà di Caprese e Chiusi. Lui dovrebbe studiare latino e invece diviene apprendista di Domenico Ghirlandaio. Lo scopre Lorenzo il Magnifico, che gli dà protezione, mezzi, fiducia in se stesso. Innamorato di Firenze, se ne va appena può, per cercare fortuna a Roma. Affascinato dal moralismo visionario di Savonarola, lavora per i cardinali e scolpisce per i nemici del frate domenicano. Insofferente all'autorità, si piega al volere del terribile papa Giulio II, e per lui progetta una tomba fastosa (gli ci vorranno quarant'anni per finirla) e affresca la smisurata volta della Sistina. Sopporta a stento i Medici, i suoi benefattori, e ne riceve committenze e ricchi incarichi. Ama la bellezza maschile, si lascia affascinare da giovanotti eleganti e da qualche ragazzo di vita, ma s'infiamma d'amicizia per Vittoria Colonna, gran dama e specchio di virtù. Sempre insoddisfatto, inquieto, inarrivabile. Lungo le pagine di un racconto storicamente documentato e sorretto da una felice vena narrativa, Busi rivisita tutte le tappe di uno straordinario percorso creativo (dalla dolorosa bellezza mistica della Pietà vaticana, al titanismo della Cappella Sistina fino al dialogo con la morte della Pietà Rondanini) e di un egualmente straordinario percorso biografico. Da un amore all'altro, dal trionfo all'amarezza, arte e vita s'intrecciano, si fondono, si scontrano, in un'avventura esistenziale compiuta, come Michelangelo stesso ebbe a scrivere, «con tempestoso mar, per fragil barca».
Ottobre 1946, Mississippi. Pete Banning, cittadino modello di Clanton, reduce di guerra pluridecorato, patriarca di una nota famiglia locale proprietaria di campi di cotone, amato padre di famiglia e fedele membro della locale comunità metodista, in una fresca giornata di ottobre si alza presto, sale in macchina e si dirige verso la chiesa. Entra nello studio del pastore, il suo amico reverendo Dexter Bell, e con calma e determinazione gli spara e lo uccide. Da quel momento, l'unica cosa che Pete ripete a tutti, familiari, avvocati, uomini di giustizia, è "non ho niente da dire". Qualunque sia stato il motivo del suo inconcepibile gesto non verrà svelato. Pete non ha paura della morte e viene giustiziato portando il suo segreto nella tomba, lasciando incredula l'intera comunità di Clanton. Ma perché l'ha fatto? In questo romanzo, John Grisham accompagna il lettore in un viaggio alla scoperta della sua verità, dagli Stati del Sud alla giungla delle Filippine durante la guerra degli americani contro i giapponesi, a un claustrofobico manicomio pieno di segreti fino all'aula del tribunale dove l'avvocato del protagonista cerca invano di salvarlo senza la sua collaborazione, mostrando gli effetti che può avere a lungo termine un crimine terribile e inspiegabile.
Con questo volume di poesie scelte, Corrado Calabrò consegna al lettore un'opera antologica importante e nuova, organizzata in sezioni che gettano luce sui temi fondamentali della sua sessantennale attività di scrittura: un autoritratto poetico da cui emerge la forte consapevolezza raggiunta con la piena maturità espressiva, capace di stabilire rapporti profondi fra testi nati in momenti diversi della vita. Il mare, l'astrofisica e l'amore risultano gli elementi cardine intorno ai quali ruota il pensiero emozionale del poeta, tenuti insieme dall'energia che dà forma alla salda pronuncia del dettato, tra classico e sperimentazione, nella variabilità di forme che spaziano dal poemetto all'epigramma. «La vera originalità del Calabrò» ha scritto Carlo Bo nel 1992, individuando uno dei motivi centrali dell'intera sua opera «sta nell'essersi staccato dai modelli comuni per inseguire una diversa sperimentazione poetica Ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l'idea di un mare eterno e insondabile.» Accompagnano le poesie due significative riflessioni d'autore. La densa postfazione, intitolata "C'è ancora spazio, c'è ancora senso per la poesia, oggi?", costituisce un bilancio dei multiformi interessi e della passione profusa da Calabrò nel fare poesia; l'altra nota è invece dedicata al poemetto "Roaming" - apparso per la prima volta nel volume "La stella promessa" del 2009 e ora posto in apertura di questo libro - che rappresenta forse l'opera più suggestiva di Calabrò. Dopo duemila anni dal "De rerum natura" di Lucrezio, infatti, l'astrofisica è tornata ad essere, in forma onirica, materia di poesia.
Nel fitto di un bosco di uno dei monti dell'Italia settentrionale un uomo ritrova una baita appartenuta ai suoi antenati. Decide di ristrutturarla, per andarci a vivere e sfuggire così alla crudeltà del mondo che lo circonda. Ma, mentre lavora, un colpo di piccone bene assestato cambia per sempre la sua vita. Dietro la calce, in un'intercapedine del muro, trova i corpi mummificati di tre donne. E si accorge che sulla loro carne sono stati incisi dei segni, quasi lettere dell'alfabeto di una lingua misteriosa e sconosciuta. Qual è la storia delle tre donne? Chi le ha nascoste lì? Qual è il terribile messaggio che quelle lettere vogliono comunicare? Ed è possibile che la cerva dagli occhi buoni che sbuca ogni sera dal bosco voglia davvero proteggere l'uomo e rivelargli qualcosa? Mentre le tre mummie cominciano a infestare i suoi pensieri e i suoi sogni, trasformandoli in incubi e allucinazioni, l'uomo si mette alla ricerca della verità, una ricerca che può portarlo alla perdizione definitiva o alla salvezza. O forse a entrambe. Mauro Corona, dopo anni in cui si era dedicato a forme più brevi, torna al romanzo vero e proprio. E lo fa con un libro che racconta la maestosità della natura e la cattiveria degli uomini, denso di immagini - per esempio quella del pivason, l'uccello-vampiro, e del suo spaventoso verso, presagio di morte - e di momenti di lirismo, come la scena in cui il protagonista scende in una foiba e dentro una pozza d'acqua scopre un piccolo essere di cui si sente improvvisamente e inaspettatamente fratello. Con "Nel muro", Corona torna a raccontare i boschi, gli animali e gli uomini della sua terra.
"C'è una sorgente inesauribile di energia che abita le aree più profonde del cervello e ci fa incessantemente ringiovanire. Quasi sempre l'invecchiamento dipende dal nostro atteggiamento mentale. Mancanza di sogni, rancori, rimpianti, abitudini, staticità, passività, eccesso di pensieri e di giudizi, autocritica e tormenti interiori indeboliscono la rigenerazione delle cellule nervose. Invece creatività, erotismo, attività fisica, contatti con la natura, passioni, cambiamenti, novità, le rinvigoriscono più di qualsiasi farmaco. Questo libro ci insegna come aprirci alle svolte che solo dopo i quarant'anni si possono verificare. 'Il pomeriggio conosce cose che il mattino nemmeno sospettava'. Modificando lo sguardo, dirigendo l'occhio e la visione sull'interiorità, distaccandosi dalla routine e dai cliché del pensiero omologato, possono verificarsi cambiamenti sorprendenti, veri e propri miracoli. In questo periodo della vita il meglio può arrivare da un momento all'altro. Paradossalmente, invecchiando diventiamo più giovani. Stiamo per scoprire capacità che non sapevamo di avere. Lasciamoci guidare Solo così avremo giorni felici."
"Non è vero che gli anni sono tutti uguali. Nella mia vita i Novanta sono stati speciali, anni di tritolo e di rose. Di assurdi boati e di bellissimi fuochi d'artificio." Così Costanzo racconta e celebra un decennio che, rispetto ai precedenti, sembrava il più incolore: se gli anni Sessanta sono stati gli anni del boom, i Settanta gli anni di piombo, gli Ottanta gli anni dell'edonismo, i Novanta sono sempre stati difficili da etichettare, da definire in una parola. Costanzo ne usa due, per i "suoi" anni Novanta. Il tritolo dell'autobomba che doveva ucciderlo, e le rose della storia d'amore con Maria De Filippi. Un amore di cui per la prima volta scrive con sincerità e candore, lui sempre così restio, anche nei suoi libri, a parlare della vita privata. Se quel 14 maggio 1993 l'attentato di Cosa Nostra fosse andato a segno, "la mia vita sarebbe saltata in aria e io non avrei potuto sposare la donna che amavo: Maria". Intendiamoci, Costanzo non si scioglie mai, il suo racconto è asciutto e ironico com'è nel suo stile. Ma proprio per questo è divertente, quando rivela i dettagli del loro primo incontro a Venezia (freddino) o il motivo per cui, grazie alle imperscrutabili trame del destino, lei accetta di spostarsi da Pavia a Roma e di lavorare in tv invece che nelle aule di tribunale Accanto a quello privato, spicca in questo libro anche il Costanzo protagonista e testimone privilegiato della vita pubblica degli anni Novanta, dai Muri che crollano a Berlino fino ai grattacieli che si sciolgono colpiti da voli dirottati nel cuore di New York, e in mezzo tutta una società che cambia. C'è la discesa in campo di Berlusconi, le stragi di mafia, Tangentopoli, e cose più lievi ma non meno rivoluzionarie come l'addio ai gettoni in favore del telefonino, la tv e suoi tormentoni, la globalizzazione, i blog, la rete, le prime serie televisive, la pecora Dolly, l'Aids, il Telesogno e le personalità come Carmelo Bene, Francesco Totti, Enzo Tortora, Federico Fellini e Fiorello, la musica di Franco Bracardi e Demo Morselli, le risate di Enzo Iacchetti e di Ricky Memphis, le denunce di Falcone e Borsellino, l'estro polemico di Vittorio Sgarbi, e tanti altri momenti del nostro costume e della nostra storia raccontati da chi per mezzo secolo ogni sera ha fatto alzare il sipario sull'Italia.
Nel 1957, in Messico, un gruppo di psicoanalisti di origine e formazione occidentale, tra cui il celebre Erich Fromm, si sono riuniti per ascoltare dal dottor Suzuki alcune lezioni sugli insegnamenti fondamentali del buddhismo zen, arricchendo così la loro visione dell'uomo e ricevendo notevoli spunti per considerare i concetti chiave della psicoanalisi, quali il subconscio e l'inconscio, con un'ottica nuova. Sul testo delle lezioni tenute durante quel seminario da Fromm, ampiamente rielaborato dall'autore in vista della pubblicazione, è basato questo volume: una lettura stimolante per riflettere sulle verità più profonde che riguardano tutti noi.
Fra il gennaio 1919 e quello del 1920, a Parigi si decise il destino del mondo. Al termine del grande conflitto che secondo la promessa wilsoniana avrebbe dovuto «porre fine a tutte le guerre», in un momento decisivo per un possibile riscatto dopo anni di atrocità, i leader delle quattro potenze vincitrici si riunirono nella capitale francese per discutere i termini della pace: ridisegnare i confini politici e stabilire gli equilibri dell'Europa e del mondo. La trattativa, che avrebbe dovuto creare un ordine fondato sulla giustizia e il rispetto dei diritti dei popoli, non seppe dare al continente, e al mondo, un assetto per quanto possibile giusto e pacifico. Ai vinti vennero imposte dure condizioni, spesso a scopo vendicativo e sotto la minaccia di continuare ad affamare la popolazione civile. Sulle rovine degli imperi sconfitti nacquero nuovi Stati, in cui si affermarono i nazionalismi più gretti, sorsero problemi insolubili e numerose guerre locali. Le decisioni prese in relazione alla Germania sconfitta, contornata da piccoli Stati con forti minoranze tedesche, contribuirono in maniera determinante alla salita al potere di Hitler. Il presidente Wilson, che volle rappresentare il proprio Paese al tavolo delle trattative senza essere un diplomatico, né tantomeno possedere alcuna esperienza di negoziati internazionali, complicò ulteriormente la già ingarbugliata situazione postbellica, finalizzando la Conferenza di pace alla costituzione della Società delle Nazioni, alla quale gli stessi Stati Uniti non aderirono. Franco Cardini e Sergio Valzania ripercorrono in questo libro i fatti occorsi a Parigi in quell'anno fondamentale per la storia mondiale, le vicende che precedettero e seguirono la firma dei trattati di pace con i Paesi sconfitti. La Conferenza di Parigi del 1919 per i suoi protagonisti - il presidente Woodrow Wilson e i primi ministri Lloyd George, Clemenceau e Orlando - fu l'occasione mancata di stabilire un giusto ordine internazionale. I quattro leader ebbero nelle loro mani il destino del mondo, un potere e una responsabilità mai avuti prima, ma costruirono una pace che non ha funzionato, una «pace mancata», uno dei fallimenti più importanti e decisivi del secolo scorso.