
Dalle riunioni educative per i giovani cattolici tedeschi avvenute nel 1929 al castello di Rothenfels nascono queste dieci meditazioni di Romano Guardini, che trattano altrettante dimensioni del volto del Dio di Gesù Cristo, offrendo un percorso carico di afflato spirituale. Le riflessioni toccano i temi della Provvidenza, della volontà di Dio, della grazia e della contrizione, del cuore e del Dio che consola, dando corpo alle grandi parole della fede e mettendo in luce il loro apporto vitale per l'esistenza. Grande è l'attenzione per l'umanità del credere, per i tratti che dicono la "carne" della fede e il midollo delle giornate: le domande, la morte, la coscienza della colpa, il perdono, la speranza. Con uno guardo profondo sulla realtà della creazione, Guardini testimonia e annuncia il Dio Vivente, il Dio della vita, appunto, che guarda il mondo e l'uomo con benevolenza.
"Gesù Cristo e il cristianesimo - qui per la prima volta in edizione critica, condotta su manoscritti in parte riprodotti nel testo - è un'opera della maturità in cui, rifacendosi alle tradizioni della scuola tedesca, Martinetti cerca di rispondere all'interrogativo "possiamo ancora dirci cristiani?", ripreso poi da Croce. Ai suoi occhi, il cristianesimo ha un profondo significato filosofico e un valore universale, fondati sul messaggio di Gesù e incarnati storicamente nelle "eresie". La prospettiva di un futuro rinnovamento del cristianesimo è per lui affidata più all'iniziativa delle piccole comunità di credenti (i "cristiani senza chiesa") che non alle istituzioni ecclesiastiche, a cominciare dalla Chiesa cattolica, storicamente prigioniera di una mondana volontà di potenza che la lega diabolicamente al potere (all'epoca, il regime fascista). Un messaggio e una lettura inattuali, ma che non hanno perso nulla della loro potenza drammatica." (Giovanni Filoramo)
I cattolici tendono a far derivare il rinnovamento della Chiesa dalla sua forza vitale, che erompe da un nucleo divino, e a contestare l'influenza che ebbe lo scisma avvenuto nel XVI secolo in questo processo. Considerano la "Riforma cattolica" come la vera "Riforma" e si oppongono al concetto di "Controriforma", perché pensano possa nascondere l'idea che la rigenerazione della Chiesa sia solo un movimento reazionario. I non cattolici considerano la Riforma protestante come il vero rinnovamento della Chiesa tendente al cristianesimo originario e vedono nella Controriforma la vittoria del papato, politicamente in auge, sul luteranesimo apolitico e sul calvinismo politicamente isolato. Partendo da fatti storici universalmente riconosciuti e al di là delle interpretazioni, Jedin cerca di indicare un punto di incontro sul significato di questi concetti e di eliminare i malintesi per quanto concerne l'uso storico della lingua, utilizzando poi i risultati ottenuti per l'inserimento del Concilio di Trento nella storia della Chiesa. «Questo libretto merita d'essere indicato agli studiosi ed esaminato da vicino, perché, nella sua brevità è, come si diceva una volta, succosissimo, o per dirla con modi popolareschi, pieno come un uovo, come un uovo, tutto buono» (Delio Cantimori).
La riflessione di Schwarzschild sul divieto di idolatria - tema fondamentale per la fede e la prassi religiose del mondo ebraico - è un commento filosofico-rabbinico al precetto di non farsi alcuna immagine di Dio. È, però, anche un'applicazione di questo comando alla storia del sentimento religioso e della spiritualità, dal momento che farsi immagini costituisce un bisogno umano che, proprio perché tale, va sottomesso all'imperativo divino. Rinunciando a stigmatizzare le pur pericolose idolatrie del nostro mondo, Schwarzschild si concentra sulla "madre di tutte le idolatrie", quella religiosa, perché è l'idolatria che pretende di non esserlo, quella che si smercia per veritas e vera religio. Nell'approccio di questo originale pensatore ebraico, idolatra è chiunque creda o pensi che si possa eliminare la cesura tra divino e umano, tra idealità e realtà. La proibizione dell'idolatria diventa, in questa prospettiva, la formula negativa con cui si tutela la primaria e più alta verità della rivelazione divina e della riflessione razionale umana: esiste un Dio uno e unico, nel quale l'unità numerica sfuma e si trascende nella sua dimensione morale.
Il deismo unisce all'attestazione di una "religione naturale" e alla difesa della tolleranza religiosa la critica all'autorità ecclesiastica e il rifiuto di ogni rivelazione divina, secondo un orientamento metodologico di chiara matrice lockiana. Tutti aspetti rinvenibili in questo libro in cui sono tradotti per la prima volta in italiano due pamphlet di Anthony Collins, seguiti in Appendice dalle lettere che John Locke gli scrisse a testimonianza della profonda amicizia tra i due. Il primo, Difesa degli attributi divini, tratta il problema del male proponendo un'etica deista contrapposta alle soluzioni oscure e contraddittorie degli uomini di Chiesa. Il secondo, Il perfetto inganno del clericalismo, colpisce la tradizione in genere, ricostruendo la presunta contraffazione di una clausola dei Trentanove Articoli di religione, le basi dottrinali della confessione anglicana. Si delinea la possibilità di ricostruire sulla base della ragione una teologia laica e una vera religione.
ANTHONY COLLINS (1676-1729), insieme a John Toland e a Matthew Tindal, è stato uno dei maggiori esponenti del deismo. Tra le sue opere sono state tradotte in italiano: Ricerca filosofica sulla libertà umana (Bompiani, 2015); Discorso sul libero pensiero (Liberilibri, 2019)
L'autore, nelle tre meditazioni qui raccolte, ha inteso fare opera non teoretica, ma pratica: invitare, con l'urgenza di un appello rivolto alla singola persona, a un ripensamento del problema del bene, della coscienza e dei rapporti che li legano nel vivo dell'azione. Il testo è indirizzato a illuminare, in spirito religioso, che cosa sia concretamente il bene per colui che lo vuole attuare nella sua esistenza; e nell'unicità e assolutezza del bene, che ogni volta ci si propone e ci stimola a operare, ci fa contemplare il fulgore di santità del Dio vivente. Così la coscienza, che dal bene si lascia attirare, supera da una parte i pericoli di un moralismo astrattamente universale e superbo e dall'altra di un arbitrio universale. Essa attinge poi la sua perfezione cristiana quando, salendo alle vette del raccoglimento, vi schiude lo spazio dove può inabitare Dio con l'infinito delle sue sacre ispirazioni e con il dono delle grazie mistiche, che suggellano la dedizione suprema dell'uomo al Suo volere. Il procedimento "socratico", con la pacatezza della sua progressiva penetrazione, aggiunge persuasività al discorso.
Nella storia della Chiesa cattolica Tommaso d'Aquino - il "dottore angelico" - è considerato il teologo per eccellenza. Con sintesi e chiarezza, questo libro spiega chi era, il contesto storico, culturale, religioso e spirituale in cui visse e insegnò e il valore di questa teologia oggi. Mette inoltre in luce, grazie ad alcuni brani riportati a fine capitolo, il rapporto tra fede e ragione, tra Vangelo e teologia. È completato da un'Introduzione del curatore che presenta Chenu al lettore italiano e da una cronologia sulla vita di Tommaso, le sue opere e i principali avvenimenti del suo tempo.
Può la filosofia essere utile a comprendere il proprio tempo? Con quale metodo e strumenti concettuali? È questa la sfida che il volume affronta interrogandosi sulla crisi dell'Occidente, in un corpo a corpo con la filosofia di Husserl, a partire dalla Crisi delle scienze europee dove il filosofo si poneva analoghe domande. Nello sviluppo dell'argomentazione, dapprima appare la necessità di assumere consapevolezza delle idee di Assoluto e di storia, identità e esperienza, arché e telos, e solo dopo la possibilità di riflettere, senza pregiudizi, sul futuro dell'Europa, oggi quanto mai enigmatico. L'atteggiamento fenomenologico rappresenta, in tal senso, una guida: la mai disattesa interrogazione dell'"origine", fonte di comprensione degli eventi in senso filosofico e storico, è indicata in queste pagine come il "segreto" stesso dello spirito europeo e di una storia universale multiculturale e multipolare.
L'approfondimento del problema del male è ciò che accomuna le figure di due pensatori rappresentativi della filosofia cristiana del Novecento in Italia. Augusto Del Noce e Luigi Pareyson hanno introdotto la considerazione dell'ateismo e del nichilismo nella storia della filosofia, riconoscendone la potenza, sino a pensare - con parole di Pareyson - che «una professione di cristianesimo che intenda porsi come attuale non può non ritrovare ateismo e nichilismo come problemi a sé interni, come possibilità la cui considerazione e il superamento sono essenziali alla sua stessa affermazione». Raccogliendo l'eredità scientifica e culturale dei due filosofi, l'autore elabora una proposta di ontologia cristiana che ha come punto di partenza l'idea della libertà di Dio e dell'uomo. È questo, infatti, il problema in cui si distingue il pensiero cristiano: la libertà che implica nell'uomo intenzionalità e rapporto con la trascendenza; la libertà del peccato originale, dalla quale nascono le meditazioni del pensiero tragico sulla realtà del male che caratterizza la condizione cosmica e umana.
Ci sono teologi che meritano di essere riletti a distanza di un secolo poiché la loro visione permette di cogliere un metodo di accostamento al pensiero attuale grazie alla radicazione nella tradizione. Tra questi Pierre Rousselot (1878-1915): scomparso prematuramente sul fronte della prima Guerra mondiale, lascia una comprensione della fede nella quale lo "sguardo" occupa un posto fondamentale. Credere è vedere, ma connesso con una dimensione affettiva, senza la quale non si riuscirebbe a percepire l'identità della realtà che si manifesta e alla quale ci si unisce. Educato al pensare di Tommaso d'Aquino e alla tradizione mistico-spirituale, il giovane teologo riesce a coniugare la "razionalità" del credere e l'imprescindibile aspetto affettivo dello stesso: «L'amore dona occhi, il fatto stesso di amare fa vedere, crea per il soggetto amante un nuovo tipo d'evidenza». Mediante questo sguardo si crea un nuovo tipo di evidenza. Alla fine, la fede è una forma di perspicacia, capace di vedere l'invisibile nella consapevolezza che esso permane nella sua eccedenza e quindi mai esauribile nel linguaggio che cerca di dirlo. (Giacomo Canobbio)