Testimonianza di una grande amicizia, "la più grande amicizia del secolo", "Mio sodalizio con De Pisis" è un libro di memorie, scritto con il tono e il ritmo disordinato della tenerezza. Comisso racconta la vita di un artista e amico, getta lo sguardo ai ricordi degli incontri quando insieme, "divini ragazzi", attraversavano Roma e Parigi alla ricerca di nuove ebbrezze e piaceri. Il racconto inizia con gli anni degli incontri a Roma, quando De Pisis comincia a dipingere per giustificare come studio l'alcova dove invita i ragazzi; e attraversa gli anni di Parigi, "le inaudite meraviglie" gustate insieme con il successo artistico e mondano. Sono gli anni migliori per De Pisis e per la loro amicizia. Con la sua incantevole scioltezza verbale, Comisso compone un racconto che ha lo stile della pittura di De Pisis, leggero, distratto e goloso, come ha scritto Parise, senza la minima tensione o forzatura, nello stesso italiano dolce e luminoso di Delfini, Penna e dello stesso Parise. E questa stessa dolcezza, che è poi tenerezza per la vita, lo assiste anche nel racconto degli ultimi tragici anni dell'amico, segnati dalla malattia e dalla reclusione in clinica: "nel corridoio i nostri passi andavano concordi come quando si andava prepotenti e felici per le strade di Parigi e Cortina"; e giunge ad accoglierci tutti nel pensiero finale: "noi siamo soltanto magnifiche onde in attesa sempre di disfarci nel crollo".
Adam e Cynthia Morey sono una coppia perfetta. Intelligenti, affascinanti, frivoli, vivono l’istante, l’immediato presente che li circonda, senza alcun legame affettivo che rallenti la loro corsa. Sentono di essere infallibili, sempre e comunque, e nella cerchia dei loro amici sono i primi a sposarsi. Hanno poco piú di vent’anni, e il matrimonio è l’occasione giusta per tagliare i ponti con i genitori, modesti lavoratori che i due guardano con disprezzo. Adam è un ragazzo avvenente, Cynthia, bellissima e vanitosa, ripete spesso: «Adam mi fa ridere e mi fa godere».
Sei anni dopo si sono trasformati nei tipici aspiranti ricchi dei quartieri bene di Manhattan. Lui lavora nella finanza da mattina a sera, è il preferito del capo (che disprezza) e ha iniziato a guadagnare un mucchio di soldi, non sempre in modo legale. Lei invece sta a casa con i bambini, e fatica a trascorrere delle giornate ripetitive che sembrano non finire mai. Al massimo va in palestra, con l’angoscia di essere diventata una di quelle donne che hanno smarrito ogni vitalità.
Ma il periodo buio non durerà molto. I due hanno un unico interesse, una grande ambizione: diventare sempre piú ricchi, raggiungere una posizione sociale di assoluta preminenza, in qualunque modo. Gli scrupoli non contano, una buona parte dei guadagni di Adam viene da affari poco puliti, da informazioni riservate, ma il mondo della finanza è fatto cosí, bisogna sempre incassare i propri privilegi. E la fortuna è dalla loro parte: un giorno Cynthia e Adam conquisteranno una ricchezza tale da dover assumere un consulente per le spese personali, e anche i figli impareranno a sfruttare l’ambiente dorato che li circonda. Se si mettono nei guai sanno che riusciranno sempre a farla franca, come tutti i ricchi di questo mondo.
I privilegiati delinea il ritratto intimista di una famiglia e si trasforma gradualmente in un’accusa rivolta a un’intera classe sociale e al momento storico in cui stiamo vivendo. È una storia ricca di suspense, di malinconia, caustica e divertente, narrata con una prosa limpida e pacata, capace di raccontare con intensità e bellezza la complicata e crudele commedia della vita.
È una mattina d’inverno del 1777 a Vienna quando Franz Anton Mesmer, il medico forse più noto della città, scende le scale che dagli alloggi notturni conducono alle stanze in cui esercita la professione. Fuori è buio pesto e fa freddo. Cinque minuti alla tastiera della glassarmonica, giusto qualche accenno di Mozart, Haydn o Gluck, sarebbero forse il modo migliore di cominciare la giornata. Ma Mesmer ha fretta di raggiungere il suo studio. Lo attende una visita importante, forse la più importante della sua carriera: deve esaminare la figlia cieca del funzionario imperialregio Paradis.
Della nuova paziente ha sentito dire tutto e il contrario di tutto. Che è brutta. Che è bella. Compresa nel suo dolore. Che si veste in modo poco adatto. Che suona il pianoforte meglio di quanto canti. Che ha una cataratta completa. Che finge soltanto di essere cieca. Solo su un punto sono tutti concordi: all’Imperatrice la ragazza sta enormemente a cuore dal giorno in cui, nella chiesa di corte degli Agostiniani Scalzi, ha cantato e suonato al suo cospetto commuovendola oltre ogni misura.
Per Mesmer, è chiaro, la giovane Paradis rappresenta un’occasione unica. Una volta accolta a corte, infatti, la sua figura di medico cesserebbe d’incanto di essere così controversa, e il suo metodo, la trasmissione del fluidum, la materia più fine che ha l’universo, attraverso l’uso di magneti e l’imposizione delle mani, sarebbe accettato da ministri e segretari, cameriere e valletti, padri e figli, e da tutte le fanciulle del Paese.
Il tempo di preparare lo studio, di sentire una carrozza arrivare e Mesmer si trova al cospetto del Segretario di corte e di Maria Theresia Paradis: una bambola pallida, imbellettata di cera, con una parrucca che sovrasta tutti, una drammatica cascata di pieghe nell’abito celestiale, gli occhi chiusi, la voce attutita come se fosse avvolta nella lana, il volto che assomiglia a un nido abbandonato da tempo.
Riuscirà Franz Anton Mesmer, medico tedesco in Vienna, genio per alcuni e ciarlatano per altri, a guarirla?
Romanzo intriso di magia letteraria e storia, La musica della notte indaga, con l’ammaliante melodia della sua prosa, la vicenda vera dell’incontro tra la più raffinata pianista della Vienna di fine Settecento e Franz Anton Mesmer, lo scopritore del magnetismo animale ammirato da Mozart, Kleist e Olov Enquist e considerato da molti il precursore della psicanalisi.
Nel 1892, a Manhattan, un’elaborata insegna in bronzo fa bella mostra di sé. Tiffany Glass & Decorating Company declama la scritta che campeggia sopra una solida porta di vetro molato. Oltre quella porta, si schiude un grande salone con enormi vetrate appese al soffitto e imponenti mosaici poggiati alle pareti. E poi vasi dalle linee morbide, pendole, candelabri Art Nouveau, lampade con paralumi di vetro soffiato in mille splendidi colori.
È il regno di Louis Comfort Tiffany, pittore di quadri orientalisti raffiguranti minareti, moschee e beduini, secondo il gusto del tempo. Gardenia all’occhiello, baffi fluenti, Louis Comfort Tiffany ha creato il suo atelier coltivando un progetto ambizioso: estendere la sua idea dell’arte come «bellezza che non ha bisogno di spiegazioni perché basta a se stessa» alla decorazione del vetro.
La Tiffany Glass & Decorating Company è, tuttavia, anche il regno delle Tiffany girls, le ragazze di Tiffany, come sono chiamate a Manhattan le donne che l’artista ha riunito attorno a sé. Ogni giorno Louis le esorta ad abituarsi a riconoscere la bellezza in ogni momento, a «cogliere la grazia di una forma, l’eccitazione di un colore». Radunate nel laboratorio al quinto piano, le ragazze, però, non hanno bisogno di soverchie esortazioni per tagliare il vetro con estro, e disegnare e dipingere alacremente.
Vi è Wilhelmina, impertinente diciassettenne dall’alta statura, Mary diciottenne dai capelli rossi, Cornelia, riservata e taciturna, Agnes, l’altera, la prima donna cui Tiffany ha accordato l’onore di dipingere i soggetti delle sue vetrate. E, infine, Clara Wolcott Driscoll.
Giovane vedova in un laboratorio dove vige la regola, imposta dal padre di Louis, di impiegare solo fanciulle non maritate, Clara è l’artefice autentica delle creazioni Tiffany. È lei, infatti, a ideare quegli oggetti meravigliosi, i paralumi di vetro soffiato, decorati con uno stile che sembra celebrare la gioia e il mistero di un secolo che deve ancora iniziare.
Una ragazza da Tiffany è, soprattutto, la sua storia. Una storia in cui Susan Vreeland non celebra soltanto un talento misconosciuto, ma illumina anche gli slanci, i desideri e le ambizioni di una giovane donna nella metropoli americana pronta a tuffarsi nella grande avventura del Novecento.
La seconda guerra mondiale sta per finire, e con essa anche il folle sogno nazista di dominio germanico e affermazione, col ferro e il fuoco, della pura razza ariana. Manca poco alla caduta di Berlino e al tragico epilogo del regime, col suicidio del Fuehrer e di Goebbels. In un luogo segreto, tuttavia, la vita sembra seguire il suo corso normale per Elie Schachten. Figlia di cattolici polacchi, Elie ha tratti perfettamente conformi agli standard ariani e un accento tedesco impeccabile. Si trova lì perché fa parte del selezionato gruppo della Briefaktion. Ogni giorno lei e i suoi compagni ricevono montagne di lettere provenienti dalla Iranische Strasse 65 di Berlino, dove Goebbels ha deciso di convogliare tutta la “posta giudea”, lettere che vengono da Auschwitz, Buchenwald e altri lager, missive indirizzate ai parenti in cui i prigionieri mentono pietosamente magnificando le condizioni dei campi, o lettere spedite da parenti e conoscenti lontani in attesa di risposta. Elie e i suoi compagni ritoccano, riscrivono le lettere magnificando ancor più la vita nei campi e la “tranquillità” del “soggiorno”, o inventano le risposte. Elie e i suoi compagni, infatti, sono scrivani del nazismo, impiegati nell'opera di occultamento della verità da parte del regime. Un giorno però un imprevisto sconvolge la vita del gruppo della Briefaktion. Dalla Iranische Strasse 65 viene recapitata una lettera scritta dall'illustre filosofo Martin Heidegger al suo ottico ebreo, al quale il filosofo chiede un paio di occhiali nuovi perché i suoi si sono rotti. La lettera è dettagliata, piena di riferimenti a trascorsi comuni e contiene una serie di domande e numerose osservazioni. L'ottico è ad Auschwitz e il problema della Briefaktion è come rispondere al celebre filosofo senza farsi scoprire e mettere a repentaglio la vita di tutto il gruppo. Magnifico e commovente romanzo, “Gli occhiali di Heidegger” getta luce su un aspetto drammatico dell'Olocausto: le lettere dei prigionieri dei campi.
Nella Vienna fin de siècle, abbandonato da Lou Salomé, giovane donna dal fascino incantevole con cui ha condiviso un esaltante ménage à trois, Friedrich Nietzsche, schivo, solitario, asociale, è in preda a una disperazione estrema che gli ha fatto tentare più volte il suicidio. Uno stato che si manifesta con una moltitudine impressionante di sintomi: emicrania, parziale cecità, nausea, insonnia, febbri, anoressia. Gli è accanto Joseph Breuer, stimato medico ebreo, futuro padre fondatore della psicanalisi, che sottopone il filosofo alle sue cure, basate sulla convinzione che la guarigione del corpo passi attraverso quella dell'anima. Reduce dal difficile rapporto con un'altra paziente, Anna O., su cui ha sperimentato un trattamento psicologico rivoluzionario, anche Breuer è in preda a una depressione profonda dovuta alla forte attrazione che prova per la donna, a dissapori matrimoniali, al senso di soffocante prigionia causata dai legami e dalle convenzioni della vita borghese. Tra Breuer e Nietzsche, nel corso di numerose sedute successive, si instaura un dialogo serrato e coinvolgente nel corso del quale il primo cerca invano di arrivare alle radici del male oscuro del filosofo e di indurlo ad aprirgli il cuore. Alla fine, il medico ha l'idea risolutiva: vestiti i panni del paziente e confessando tormenti, pene e preoccupazioni a Nietzsche, riesce a infrangerne l'impenetrabile isolamento e a provocare in lui una liberatoria catarsi emotiva.
Giorgio Agamben ha raccolto in questo volume un'ampia scelta dei suoi saggi inediti o sparsi in riviste oggi introvabili, dal 1980 a oggi. Ordinati in tre sezioni distinte (Linguaggio, Storia, Potenza), i diversi motivi del suo pensiero ruotano ostinatamente intorno a un unico centro, che il titolo compendia nella formula: la potenza del pensiero. In ognuno di questi testi è, infatti, in corso un esperimento, in cui la posta in gioco è ogni...
«Tutte le volte che andava via, la donna felicemente sposata si chiedeva che effetto doveva fare dormire con un altro uomo. Quel fine settimana aveva intenzione di scoprirlo»: così comincia questa raccolta di racconti. Con una frase che ne illumina subito il senso: l'irrompere dell'istante in cui la vita quotidiana fa improvvisamente naufragio e schiude l'oscurità che l'avvolge, l'abisso su cui è sospeso il suo ordine apparente.
Nel racconto che l'apre, Antartide, la «donna felicemente sposata» una sera prepara un piatto di pasta al forno per i bambini, va a riprendere i completi di suo marito in lavanderia e poi se ne va in città. In un bar si lascia approcciare da un tizio con una giacca di pelle, la carnagione rossastra, una catena d'oro che gli penzola dentro la camicia hawaiana, i capelli color fango. Un incontro che le rivela un'unica disarmante verità: che l'eternità e l'inferno sono la stessa cosa.
In Amore nell'erba alta, Cordelia ha quarant'anni, ma ha fatto ormai tutti i capelli bianchi in attesa che il suo amante dottore lasciasse la moglie. Un giorno fatidico si incontrano tutti e tre, il dottore, Cordelia e la moglie, ma siccome non sanno cosa fare o cosa dire, non fanno niente e non dicono niente. Se ne stanno semplicemente ad aspettare, tutti e tre: Cordelia, il dottore e sua moglie, tre mortali in attesa che qualcuno se ne vada.
In Dove l'acqua è più profonda, il racconto che dà il titolo alla raccolta, una ragazza alla pari fa sempre lo stesso sogno: è in cortile con il bambino, verso sera. La terra trema e, come una grande foglia di metallo, si apre in due inghiottendo il piccolo nelle sue viscere.
L'esito inaspettato è il procedimento tipico di questi racconti, ambientati parte in Irlanda e parte nel profondo sud dell'America. Svelano vite in cui sogni, ricordi e mutamenti possono comportare conseguenze devastanti; mondi dove ossessioni e oscure tensioni affiorano improvvisamente. Come Raymond Carver, Claire Keegan scava, con la sua innocente e ammaliante scrittura, nel lato oscuro della nostra esistenza.
«Una delle più grandi biografie del Novecento»: così il Times Literary Supplement ha definito questo libro. Un'opera che ha attratto nel tempo milioni di lettori e lettrici, tra le quali la regista Jane Campion che le ha dedicato uno dei suoi film più riusciti. Si potrebbero spiegare le ragioni di questa attrazione con la fascinazione che il tema Genio e follia - così nel 1922 Jaspers intitolò un suo celebre saggio - esercita da tempo immemorabile. La stessa Jane Campion, del resto, ha dichiarato di essersi accostata a Janet Frame e di aver concepito l'idea di un film sulla scrittrice famosa per aver trascorso otto anni in un ospedale psichiatrico e per aver subito più di duecento elettroshock, perché leggeva da bambina le sue opere ed era rimasta colpita dai passaggi poetici «che erano molto tristi ed evocavano il mondo della follia».
Quando, tuttavia, ha realizzato il suo film, la Campion si è limitata a raccontare la storia quotidiana di una donna dalla prima infanzia alla piena maturità, tenendosi ben lontana dal binomio genio-follia, arte-sregolatezza.
Di che cosa parla, infatti, Un angelo alla mia tavola?
Si potrebbe dire che parla di schizo-frenia, ma solo nel senso originario del termine su cui pure ha richiamato l'attenzione Jaspers: la mente scissa in due mondi, in questo caso il mondo della vita e quello dell'arte e dell'espressione.
Il mondo della vita è descritto in queste pagine nei suoi capitoli salienti: l'infanzia trascorsa a Dunedin, in Nuova Zelanda, nella povertà degli anni della Depressione; il trasferimento al sud, al seguito del padre ferroviere; i primi colpi che lasciano il segno: l'obesità infantile, la sgraziata adolescenza, la fatalità della morte con la prematura scomparsa della sorella Myrtle, l'orrore dell'ospedale psichiatrico; e poi la fuga, il tentativo di suicidio, il ritorno alla casa paterna.
Il mondo dell'arte e dell'espressione vive nella compagnia dei poeti - Shakespeare, Shelley, Keats, Dylan Thomas, T.S. Eliot, Auden - che come un teatro dell'immaginario subentra spesso alla triste scena del mondo reale e restituisce la felicità perduta.
Vive, infine, nella prosa stessa di Janet Frame, nella sua mobilità nervosa, nella imprevedibilità delle immagini e dello stile che ne fa una delle più grandi scrittrici del Novecento.
Con la presente edizione, che offre una traduzione aggiornata e rivista, l'opera appare per la prima volta nella Biblioteca Neri Pozza.
«Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»: è il celebre incipit dell'Anna Karenina di Tolstoj. Nella loro bella casa di Ann Arbor, in Michigan, dove un tempo erano una coppia felice di respirare ogni giorno «la stessa aria domestica», Frank e Ellie Benton sembrano perfettamente confermare la verità racchiusa in queste parole.
Dopo la morte di Benny, il loro bambino stroncato da una malattia improvvisa, ciascuno di loro ha coltivato l'infelicità a modo suo. Ellie si è ostinatamente rifugiata nel suo lavoro di psicoterapeuta; Frank, del tutto incapace di colmare l'assenza del figlio, ha via via nutrito un sentimento di aperta ostilità nei confronti di Ellie, come se la moglie fosse in qualche modo responsabile della sciagura abbattutasi sulla loro vita.
La memoria di quel che resta del tempo gioioso trascorso con Benny, i libri di Harry Potter, le foto di scuola, rappresentano una frattura insanabile, oltre che un ricordo straziante. La stessa Ann Arbor sembra un vuoto scenario, dove è impossibile strappare un motivo per alzarsi la mattina.
Accade così che Ellie decida un giorno di infrangere la regola che da sempre ripete ai suoi pazienti: non prendere nessuna decisione importante dopo un evento traumatico. Convince Frank ad accettare la proposta di andare a dirigere uno stabilimento a Girbaug, un villaggio sperduto nell'India rurale.
Sotto un cielo nuovo potrebbero forse ritrovarsi.
E una volta laggiù, in effetti, la solitudine personale sembra lenita dalla solitudine stessa del mondo. Tra incantatori di serpenti, mucche sacre e bisogni e abitudini semplici, Ellie ritorna alla vita. Presta assistenza volontaria in una clinica locale, dove riesce a instaurare autentici rapporti d'amicizia e ad aprirsi a sconosciuti e affascinanti saperi.
Lo stesso Frank si scopre capace di allontanare in qualche modo da sé il dolore quando fa il suo ingresso nella loro casa Ramesh, il figlio dei domestici. Su di lui riversa generosità e aspirazioni che al bambino sembrano essere sempre mancate.
Ma anche dove governa l'esistenza semplice, «con umanissimi e insopprimibili bisogni, desideri e aspirazioni», anche là si mostra la faccia oscura della vita.
Romanzo che esplora la fatica tutta umana di guarire dal dolore, e offre un ritratto vibrante dell'India e delle sue trasformazioni, Il prezzo del paradiso è una splendida conferma del talento di Thrity Umrigar, una scrittrice capace come poche di mostrarci gli odierni conflitti del cuore e della mente.