L'opera di James L. Resseguie introduce ai metodi e alla strumentazione della critica narratologica applicata ai testi del Nuovo Testamento. Dopo un primo capitolo in cui s'illustra l'utilità e la peculiarità dell'analisi del racconto a fianco degli altri metodi in uso nella critica biblica, se ne affrontano gli elementi costitutivi che consentono di esaminare il testo neotestamentario nel suo insieme, dalla retorica all'ambientazione, dai personaggi al punto di vista, dall'intreccio alla struttura narrativa. Come un puzzle non si lascia vedere finché non sia stato completato, così anche il senso di un racconto neotestamentario non emerge fino a che le parti non siano state assemblate. La critica narratologica consente di cogliere la vividezza e la novità di racconti che potrebbero sembrare scialbi e banali, ravvivando l'immaginazione e rimuovendo lo "strato di familiarità" che appanna la nostra idea dei racconti biblici.
Questo volume di Joseph Blenkinsopp non intende essere una teologia del Pentateuco né tanto meno dell'Antico Testamento, prospettive che non potrebbero rendere giustizia alle idee non di rado conflittuali e talvolta reciprocamente esclusive dei testi biblici. Il metodo storico critico di cui l'autore si serve consente al contrario di lasciar parlare i testi in modi che possono apparire rassicuranti o al contrario inquietanti, ma sempre fecondi. I temi affrontati negli studi qui raccolti sono quanto mai interessanti, dalla memoria e la costruzione del passato nell'Israele antico alla creazione e il corpo, al sacrificio e il mantenimento dell'ordine sociale, alla funzione di Jhwh nella religione d'Israele.
Questo volume è la seconda edizione riveduta e aggiornata di un celebre saggio che ha segnato una svolta nella ricerca neotestamentaria, in particolare per lo studio dei quattro vangeli canonici. La novità e l'originalità del saggio di Richard Burridge sta nella comparazione dell'opera degli evangelisti cristiani con quella dei biografi classici di lingua greca e latina, da Isocrate e Senofonte a Tacito, Plutarco e Svetonio tra altri. Il ricco e documentato esame del genere letterario di queste biografie antiche consente all'autore di mostrare quanto fuorviante sia l'opinione diffusa dei vangeli come opere di un genere letterario che non avrebbe riscontro nell'antichità classica.
In anni in cui la repressione neroniana infieriva e in cui molti si davano il suicidio o per ordine di Nerone o per timore della sua violenza, Seneca affronta il problema della liceità della morte procurata nella prospettiva che gli è propria: quella dello stoico il cui anelito antitirannico è animato dalla convinzione che la vita deve essere vissuta nell'assoluta libertà di cui chiunque deve poter disporre perché questo è il fine della vita umana. Servendosi delle grandi e paradigmatiche figure di Socrate esempio di obbedienza alle leggi e di Catone esempio di forza morale ma ancor più di esempi umilissimi quali quelli forniti da schiavi o gladiatori, Seneca argomenta come possa accadere che l'iter mortis sia anche libertatis via. La traduzione e il commento di Giuseppe Scarpat mirano a mettere in luce il contesto culturale e la temperie in cui la lettera 70 fu scritta, così come le sue peculiarità lessicali e letterarie.
In queste pagine Robert Louis Wilken fornisce un quadro vivido di come nel primo secolo i cristiani fossero visti dai romani. Gli scritti pervenuti di Plinio il Giovane, Galeno, Gelso, Porfirio e Giuliano l'Apostata documentano come queste note figure del passato e la folla di grandi o meno importanti personaggi con cui esse erano in rapporto conoscessero bene il movimento cristiano delle origini, quale idea, ad esempio, avessero del Gesù storico e della sua divinità, come di volta in volta il cristianesimo apparisse loro come questa o quella forma di associazione o in altri casi di scuola filosofica, quale concezione si facessero dell'adorazione della croce o della risurrezione dai morti. Un libro che mostra quanto falso sia lo stereotipo d'una società romana irreligiosa e immorale.
Tra le 138 voci raccolte nel VII volume del Grande Lessico dell'Antico Testamento edito da H.-J. Fabry e H. Ringgren; edizione italiana a cura di Pier Giorgio Borbone molte sono di grande utilità per la comprensione della lingua, della storia e della religione dell'Israele antico. Alcune voci sono vere e proprie monografie, ad esempio pasah/pesah (pasqua), sadaq, ecc. (giustizia), sijjôn (Sion), qahal (assemblea), qodes, ecc. (santo), qara' (chiamare/annunciare), ecc. Di ogni parola presa in esame si approfondiscono gli impieghi secondo piani successivi, indicati nei sommari ad inizio di ciascuna voce, così da illustrare e scandagliare i diversi significati che la singola parola viene ad acquisire sia in rapporto all'ambiente semitico sia nelle diverse parti del testo biblico. Anche in questo volume, a facilitare la consultazione dell'opera parole e frasi in ebraico e in ogni altra lingua semitica sono riportate in traslitterazione e seguite dalla traduzione corrispondente.
Questo nuovo saggio sul tema dell'"unicità" di Dio è il tentativo di comprendere il testo di Deuteronomio 6,4 "Ascolta, Israele! Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo" nel quadro dei modelli mediante i quali nelle culture del Vicino Oriente antico si argomentava l'unicità di questo o quel Dio. Nel lavoro di Oswald Loretz si illustra come i precedenti di questa confessione di fede, centrale sia nella Bibbia sia nell'ebraismo di ogni tempo e luogo, possano essere rintracciati negli scritti di Ras Shamra - Ugarit dedicati a Baal. Sullo sfondo dell'Oriente antico, la peculiarità del testo biblico mostra di consistere nell'affermare l'unicità di Dio in connessione inscindibile con la storia del popolo d'Israele.