Spirito religioso, politico a tratti spietato, ma tutt'altro che privo di ispirazioni ideali, Richelieu fu il protagonista della fase storica in cui si affermarono gli Stati assoluti e il moderno sistema delle relazioni internazionali, divenendo rapidamente una figura quasi mitica, che ancora affascina la cultura europea. Cadetto di una famiglia di piccola nobiltà, divenne poco più che ventenne l'attivo vescovo riformatore della piccola diocesi di Luçon. Legatosi alla regina madre Maria de' Medici, iniziò una carriera politica che fu bruscamente interrotta, nel 1617, dalla disgrazia della sua protettrice, allontanata dal potere dal figlio, Luigi XIII. Richelieu tornò al potere solo nel 1624, insieme a Maria de' Medici, e divenne l'uomo di punta di un vasto progetto di rafforzamento del potere monarchico e di affermazione della Francia sul piano internazionale. I successi conseguiti con la sconfitta dei protestanti francesi e l'intervento militare in Italia nella guerra di successione di Mantova gli portarono la completa fiducia di Luigi XIII, ma il suo crescente potere e le sue scelte di politica estera determinarono una rottura insanabile con il partito cattolico e con Maria de' Medici, che nel 1631 fu costretta a fuggire dalla Francia. Da questo momento e fino alla morte, Richelieu fu un primo ministro quasi onnipotente, il centro di una estesissima rete di potere e il bersaglio di una serie infinita di congiure. Lontano da ogni forma di machiavellismo, Richelieu espresse una concezione del potere come una forma di razionalità, ispirata da Dio, chiamata a imporsi su una società conflittuale e lacerata. Da questa ispirazione derivarono una politica fortemente assolutista e l'intervento nella guerra dei Trent'anni (1635), che avviò la costruzione di una nuova struttura delle relazioni internazionali in Europa.
Tra il settimo e il sedicesimo secolo i musulmani conquistarono vaste aree delle regioni mediterranee e dell'Europa centro-orientale abitate prevalentemente da cristiani. Alcuni di quei territori, la cui popolazione nel frattempo era divenuta in maggioranza musulmana, furono riconquistati dai cristiani tra l'undicesimo e il quindicesimo secolo. Sovrani e sudditi si sono dunque trovati spesso a professare fedi diverse, ma quali sono state le strategie elaborate dalle élite nel corso dei secoli per governare questo avvicendamento di fedi e popoli? E cosa avvenne quando cambiarono gli equilibri e le genti "infedeli" divennero minoranza? Questo libro esamina i complessi rapporti tra dominatori e sudditi di religioni diverse, osservandone l'evoluzione nell'ampio arco cronologico che va dalle prime conquiste degli Arabi nel Vicino Oriente nel settimo secolo, allo scambio nel 1923 tra Turchia e Grecia dei cristiani e musulmani residenti nei loro territori. Quanto emerge da uno sguardo così ampio, gettato sulla storia di un intreccio di culture tanto prossime, smonta molti pregiudizi ponendo domande che ci riguardano ancora.
Artemisia, signora di Alicarnasso, fu a capo della flotta caria che affrontò gli Ateniesi a Salamina; di lei Erodoto narra le gesta compiute sotto le insegne di Serse, il Re dei Re. Condusse le navi piú veloci che la flotta persiana potesse vantare dopo quelle dei Sidoni. Fu al fianco del re achemenide quale preziosa e scaltra alleata. I suoi consigli furono spesso decisivi: convinse Serse a desistere dall'intento di proseguire nella disperata conquista dell'Ellade. Secondo una leggenda, morí, per un amore non corrisposto, gettandosi dalla rupe di Leucade. Madre, sovrana, pirata, moglie e capitana di mare, Artemisia passerà alla storia come traditrice delle idealità greche per avere messo le proprie indiscutibili capacità navali al servizio dell'impero persiano. Questa è la prima biografia di Artemisia, che dal Re dei Persiani Dario ebbe in dono la potestà sull'isola di Cos e sull'arcipelago limitrofo, donde muoveva la propria implacabile attività corsara. Assistendo alla disfatta della sua flotta, ma ammirando il coraggio e la destrezza della sua condottiera in battaglia, Serse affermerà, con somma, quanto trita sprezzatura maschilista: « gli uomini mi son diventati donne e le donne uomini».
Guglielmo II Hohenzollern fu imperatore di Germania e re di Prussia dal 1888 al 1918, quando di fronte alla sconfitta militare e ai sussulti rivoluzionari fu costretto ad abdicare. Durante il suo lungo regno cercò di esercitare un potere assoluto: nominava e sfiduciava cancellieri (ben sette), imponeva l'agenda politica, era il protagonista indiscusso della politica estera del Reich. L'imperatore agiva facendosi forte di una legittimazione divina del suo potere, e aveva in spregio il parlamento e i partiti politici. Durante il suo regno fu osannato e celebrato come un sovrano moderno, perfino "socialista", capace di risolvere i grandi problemi del Reich: l'industrializzazione accelerata e i conseguenti radicali mutamenti sociali. Fu abile nel servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, in particolare la stampa e la fotografia. Ma fu anche vituperato e messo in caricatura, soprattutto all'estero. Nel corso della guerra fu oggetto di durissime critiche da parte dell'Intesa, che lo considerava l'incarnazione del militarismo e autoritarismo prussiano. Critiche che si accentuarono nel dopoguerra, quando gli fu attribuita la responsabilità dello scatenamento del conflitto. Visse per quasi ventitré anni in un grigio esilio nei Paesi Bassi, messo ai margini della storia, incapace di fare i conti con le proprie responsabilità, tenacemente abbarbicato al sogno di sovvertire le istituzioni repubblicane e di essere riportato sul trono da Hitler. Il libro ripercorre tutte le fasi della sua vita, parallela a uno dei momenti più critici della civiltà occidentale: dai trionfi del colonialismo e dell'industria, all'abisso della Grande guerra. Dall'infanzia, contrassegnata da problemi fisici e da un conflitto mai risolto con i genitori, al lungo e scintillante regno, alla repentina scomparsa dalla scena proprio negli anni di guerra, al lungo e malinconico tramonto nell'esilio. Le vicende private e individuali dell'uomo, segnato da un carattere scostante e arrogante, all'apparenza brillante ma umanamente arido, sono analizzati in stretto intreccio con i contesti in cui si snoda la sua lunga vita: l'ascesa della Prussia, l'unificazione del Reich, la guerra mondiale, la svolta repubblicana e infine l'irresistibile trionfo del nazionalsocialismo.
Il saggio offre una sintetica ma rigorosa ricostruzione delle vicende del Mezzogiorno in Età moderna, dal periodo spagnolo all'unificazione politica della penisola. Per la prima volta viene qui presentata una storia del Meridione d'Italia comprensiva di Sicilia e Sardegna, che con i loro caratteri specifici ne sono parte ineliminabile. La piena integrazione nella storia italiana ed europea e, al tempo stesso, l'originalità della via mediterranea allo Stato e alla società moderna costituiscono il filo conduttore del racconto. Dall'eredità medievale all'ingresso nelle sfere d'influenza catalano- aragonese, spagnola, asburgica, napoleonica, borbonica e sabauda, dalla fine del Regno delle Due Sicilie all'unità d'Italia, le vicende del Mezzogiorno si snodano seguendo una nuova interpretazione complessiva. Isole e continente non contraddicono ma rivelano l'unità del Mezzogiorno moderno quale comunità economica, sociale, politica e culturale, distinta rispetto alle altre regioni del paese e la cui storia definisce una via mediterranea alla modernità.
Il tribunato della plebe è probabilmente l'istituzione politica più originale dell'antica Roma. Nel mondo antico non esiste nulla di simile, così come non esisterà nei millenni successivi: ma come nacque, che sorte ebbe e che funzioni ricoprì questa figura unica, che costituisce l'elemento distintivo della vita politica romana? Nati dalla secessione della plebe all'alba della Repubblica (494 a.C.), i tribuni detenevano un potere straordinario, che permetteva loro di paralizzare e condizionare le sorti di Roma. Dalla sua comparsa alla fine della Repubblica, il tribunus plebis fu al centro dei cambiamenti e degli sconvolgimenti di un'intera civiltà, quella romana, divenendo oggetto di ricostruzioni storiografiche spesso ostili e tendenziose. Questo libro intende offrire al lettore uno sguardo complessivo sulla storia di una magistratura tanto importante quanto trascurata: dalla sua nascita, a ridosso della fondazione della Repubblica, all'assunzione dei poteri tribunizi da parte dell'imperatore, Augusto, fino alla riflessione moderna sul concetto di "tribuno" nel pensiero politico occidentale. L'intera storia di Roma si rivela, così, sotto una nuova luce attraverso le vicende di coloro che in nome del popolo romano acquisirono un immenso potere.
Il nome di Marco Giunio Bruto riecheggia nella storia quale sinonimo di tradimento e irriconoscenza, oppure di fedeltà ai propri ideali. Osannato e al contempo dispregiato dai posteri, che videro in lui talvolta l'assassino, talaltra il paladino della Repubblica, legò la sua vita a uno degli eventi più noti della storia universale: la congiura che portò alla morte di Giulio Cesare. Nato nel bel mezzo delle guerre civili fra Silla e i seguaci di Mario, Bruto si formò sotto l'influsso dello zio Catone. Per l'elevata considerazione di cui godeva venne attratto nella trama del cesaricidio dal cognato Cassio, destinato a formare con lui, nella memoria collettiva, una specie di binomio; al disegno tirannicida, Bruto impresse realismo, con lo scopo di riaprire la competizione politica dopo che un singolo uomo si era librato ad un'altezza inusitata, non più compatibile con quell'ascesa verso una porzione di potere autentico che i maggiorenti dell'epoca chiamavano «libertà». L'orologio della storia scandiva inesorabilmente il percorso di Roma verso una forma di potere accentrata che avrebbe preso il nome di principato, e il tentativo di Bruto e di Cassio di fermare il tempo si infranse in Macedonia, a Filippi: entrambi sarebbero morti sconfitti e suicidi nella guerra contro Antonio e Ottaviano, a distanza di qualche settimana. Secondo la leggenda, il demone di colui che avevano ucciso avrebbe inquietantemente spinto le loro vite verso il crepuscolo, che era anche quello della repubblica.
'Il Vecchio', il 'Padre della Patria', ma soprattutto il nonno di Lorenzo il Magnifico: Cosimo de' Medici (1389-1464) è un personaggio molto noto, soprattutto per la storia della sua famiglia. Si tratta invece di una figura che come poche altre incarna la supremazia politica e culturale della Firenze del primo Quattrocento. Cosimo fu innanzitutto uno straordinario uomo d'affari, il più grande banchiere dell'Europa del suo tempo: da questa esperienza e dalle relazioni finanziarie maturò anche le sue eccezionali doti politiche, che gli permisero di reggere le sorti della sua città e del suo Stato con uno stile originalissimo, grazie al quale giocò insieme il ruolo di leader e quello di tutore dei valori repubblicani. Banchiere e uomo politico, Cosimo coltivò una rete di amicizie e frequentazioni nell'ambito della cultura umanistica e investì risorse imponenti nell'arte, nella raccolta di libri e oggetti preziosi, nella promozione delle imprese assistenziali e delle comunità religiose. Questo libro affronta i tanti aspetti della poliedrica personalità di Cosimo, attingendo alla voce delle fonti del tempo e alle sue stesse parole, per restituire alla sua figura la freschezza e la vitalità con cui lo conobbero i contemporanei.
Dionisio rappresenta il tiranno per antonomasia: crudele e pauroso, circondato da adulatori e incapace di mantenere relazioni positive con familiari, amici e collaboratori. Il cosiddetto Orecchio di Dionisio - l'ingresso alla celebre cava di pietre di Siracusa - deve il suo nome alla paranoica volontà di controllo attribuita al signore di Siracusa. L'aneddoto più celebre che lo riguarda è quello della spada di Damocle, che ci fa intuire i mortali pericoli insiti nel potere che gestiva. Ma questa rappresentazione negativa del sovrano è viziata dalla tradizione a lui ostile, che prevalse sulla storiografia più favorevole, pervenutaci solo in parte: grazie a quest'ultima possiamo intravedere capacità politiche e militari fuori dall'ordinario. La gestione della continua conflittualità contro i Cartaginesi gli spianò la strada per il controllo di Si-racusa. La città divenne un punto di riferimento per grandezza e bellezza, e soprattutto per le grandiose opere di fortificazione. Il modo in cui Dionisio prese il potere e lo gestì rimase decisamente paradigmatico, e il suo carisma politico non sfuggì neppure ad Alessandro Magno e a Scipione l'Africano che videro in lui modello. Le guerre contro i Greci d'Italia e le pericolose alleanze con i barbari logorarono via via la sua immagine, specialmente presso gli Ateniesi. Ma la sua corte divenne un polo di attrazione per letterati e filosofi, anche perché lo stesso Dionisio amava comporre versi tragici, con una certa sopravvalutazione delle proprie capacità. Drammi familiari e difficili relazioni personali condizionarono in parte il suo agire, ma Dionisio resse il potere a lungo e in sicurezza fino alla morte, che lo colse nel suo letto.
Il destino dei tiranni è quello di doversi guardare dall'ombra che il potere proietta alle loro spalle: il tirannicidio. Non c'è tiranno che non sia stato esposto alla possibilità di essere rimosso con la forza, come se la tirannide implichi la possibilità dell'omicidio non solo di fatto, ma anche di diritto. Per questo la tradizione politico-giuridica occidentale si è interrogata sin dalle sue origini, in Grecia, se, quando e in quali termini fosse lecito uccidere il tyrannus. Da allora ogni epoca ha affrontato la questione con appassionati dibattiti, accese polemiche, esplosive (in senso figurato e non) dimostrazioni, lungo un fil rouge che questo saggio segue fino ai giorni nostri, ripercorrendo colpi di Stato, attentati e brutali linciaggi. Perché, se la tirannia è una costante dell'esperienza politica - pur con modalità e forme diverse, da Cesare a Gheddafi, da Ipparco a Luigi XVI - lo sarà sempre anche la necessità di rovesciarla, e come recita il motto dei tirannicidi: Sic semper tyrannis!