Sul palcoscenico più che moderno della Barcellona degli anni Ottanta dentro bar alla moda e per ramblas, si riuniscono alcuni intellettuali di mezza età che furono antifranchisti e vivono rannicchiati nelle pieghe dell’industria culturale e della fabbrica del consenso. Sullo sfondo, ma poi sempre più al centro, è la figura del protagonista, Rosell, un musicista la cui carriera era stata interrotta dal ripudio morale della dittatura, e della sua «ombra», il compositore Doria, che invece ha raggiunto la notorietà rifiutando ogni impegno e accettando il compromesso. È nei decenni che questo contrasto si articola, rappresentando i due personaggi antagonisti come in realtà l’uno alter ego dell’altro. Il racconto del pianista si articola in tre momenti, dalla Spagna degli anni Ottanta si ritorna indietro nel tempo, nella Barcellona anni Quaranta; Rosell è disorientato, reduce dalla galera franchista, mentre di Doria giungono dall’estero gli echi del suo successo e dei suoi contatti con il regime di Franco. I fili del racconto si chiariscono definitivamente con un nuovo salto indietro nel tempo. Siamo a Parigi nel 1936, i due amici vivono nell’ambiente delle avanguardie politiche culturali, ma le discussioni sull’arte e la musica vengono spazzate via dalla notizia della guerra civile in Spagna: è l’ora della scelta, il momento di decidere se essere tra «quelli che seppero smettere di essere franchisti in tempo e quelli che seppero essere antifranchisti in giusta misura e al tempo giusto». Il contrasto tra i due, il pianista costretto ad interrompere la propria carriera e il musicista che ha raggiunto il successo, si fa metafora di un bilancio politico e morale di un’epoca ambigua e di gravi dilemmi.
"A diciassette anni - rivela Manuel Vázquez Montalbán - avevo letto la storia di questo personaggio basco arrestato a New York, torturato e poi fatto sparire perché aveva scritto una tesi di dottorato sul dittatore Trujillo. E mi pareva terribile che queste cose potessero essere successe in piena Fifth Avenue. Per questo, molti anni dopo scrissi questo libro che tratta soprattutto dell'impunità del potere". Jesús Galíndez fu visto per l'ultima volta alle 10 del 12 marzo del 1956 a Manhattan, mentre entrava nella metropolitana della Quinta Strada. Lì scomparve, rapito - come poi risultò - torturato e ucciso dagli agenti di Rafael Trujillo, dittatore della Repubblica di Santo Domingo. A New York era giunto come rappresentante negli Usa del Partito nazionale basco in esilio, insegnava alla Columbia University, ed operava con la Lega per i diritti umani oltre che con associazioni di scrittori. Prima degli Stati Uniti, aveva insegnato a Santo Domingo. Aveva combattuto nella guerra civile spagnola dalla parte dei repubblicani, e forse collaborato con i servizi segreti americani fino alla Guerra fredda e al riconoscimento da parte americana del governo franchista. Dopo, i suoi rapporti con il governo americano erano cambiati. Vázquez Montalbán non seguì la via della ricostruzione storica, preferì ricorrere al romanzo.
"Chiamerò questo stile: rappresentazione multipla della realtà", scrive Roberto Scarpa nell'introduzione a questi testi teatrali, interrogandosi su ciò che unisce Camilleri romanziere e drammaturgo: è il teatro, con il suo raccontare "dal vivo" e "nel vivo" la complessità umana, che ha aiutato il creatore del commissario Montalbano a rappresentare simultaneamente le storie, i personaggi e le ipotesi che i personaggi stessi si formano delle proprie vicende. La teatralità, grazie alla quale ha potuto sviluppare la sua arte della rappresentazione multipla che avvince nel suo raccontare. "Perciò, insofferente davanti ai metodi che riducono la complessità dell'umano, annoiato a morte dal pessimismo, quand'ancora era giovane, Camilleri, proprio come Stevenson, 'ebbe uno scatto improvviso di impaziente desiderio di salute: come una scossa di scetticismo riguardo allo scetticismo'. Si rese conto che 'non c'è proprio niente da fare con il nulla: non ci si ricava niente...' Avvenne così che, per gran parte della sua vita, e comunque per quella parte che gli fu necessaria a costruire il proprio talento, Andrea si installò felicemente nel teatro: fu quello il luogo dove, proprio perché non c'è niente, poteva accadere tutto: 'anything goes'. Così il teatro, luogo della ricerca perenne e inesausta, della curiosità e del gioco, lo ripagò diventando la sua casa. Quella fu la sua evasione: un'evasione riuscita che, come era inevitabile, lo condusse a inoltrarsi nel territorio infinito delle storie..."
Milano o la città. Così, attraverso frammenti di esistenze eccentriche, questi racconti vogliono rappresentare che cosa vuol dire vivere insieme in una città oggi. E che cosa vuol dire vivere una città nell'epoca in cui sembra smarrita la possibilità di riconoscerne un'identità. Giorgio Fontana raffigura "la capacità di Milano di essere più reale di ogni sogno o perversione" attraverso l'estate "atlantica" di un giovane sbandato, l'estate degli sgomberi dei centri sociali. Per Helena Janeczek la metropoli emerge come un ologramma colorato dagli sprazzi di conversazione di un ragazzino che parla dentro un gioco elettronico con un partner che sta lontano, a Caltanissetta, e, a poco a poco, diventa presente e amico più dei compagni vicini. L'ingegnere slavo di Di Stefano confessa al commissario la sua assurda ribellione perché "Milano non era più il paradiso grigio che avevo conosciuto all'arrivo". L'esperienza urbana del supplente di Marco Balzano culmina nell'incontro con un alunno ricoverato in una casa alloggio per pazienti psichiatrici. Neige De Benedetti trova la città in un tram perché "l'unica cosa di cui si parla a Milano è partire". E "dove voi siete io sono già stato, dove vado io è dove voi non arriverete" conclude il suo racconto il fuggitivo di Francesco M. Cataluccio: una specie di eterno viandante, profugo siriano mezzo ebreo che nelle architetture pretenziose della stazione rivive luoghi percorsi da generazioni passate.
Ascesa e caduta della "Grande Palermo". Questa biografia culturale della città segue le idee e le persone, e i momenti cruciali della vita delle istituzioni che ne derivavano, dalla fine dei Cinquanta agli Ottanta del secolo scorso. Ma una storia non vuol essere, perché Piero Violante si pone come narratore di ciò che ha vissuto da protagonista e di ciò che lo ha colpito da testimone diretto; si pone come spettatore tipico e quindi racconta insieme la formazione e la maturazione sentimentale e culturale che poté avere l'intellettuale della sua età, nato nell'immediato dopoguerra. Più o meno tutto quello che di memorabile accadeva tra il Teatro Massimo e le cantine dell'avanguardia, tra le università e gli incontri in libreria, tra le riviste di semiotica e il quotidiano "L'Ora", tra le Settimane di Nuova Musica e i concerti degli Amici della Musica, tra i tè pomeridiani dell'aristocrazia e i circoli della contestazione studentesca, tra Leonardo Sciascia e la Scuola di Palermo. Con una attenzione affettuosa per quel gruppo di persone che l'autore denomina "classe dirigente d'opposizione", ossia i grandi eccentrici maestri del sapere critico e dell'impegno ironico. Eppure, questo libro si può anche assumere come una storia, forse la prima, dell'opinione pubblica del dopoguerra, dal momento che quella cultura critica, d'avanguardia, ironica, pienamente cosmopolita nelle forti radici locali, fu a Palermo l'unica opinione consapevole e intelligente.
"... Si sa del resto come era nato 'Il Piccolo Principe'. Nel 1942, Saint-Ex disegnava sulla tovaglia bianca, in un ristorante di New York, sorvegliato severamente dal cameriere. 'Cos'è?' aveva chiesto l'editore. 'Un bambino che porto nel cuore' rispose Antoine. 'Facciamone un libro per l'infanzia' propose l'editore, più che altro 'per svagare quel gigante triste'. 'The Little Prince' e 'Le Petit Prince'uscirono contemporaneamente in America il 6 aprile 1943. In Francia fu pubblicato solo nel '46, postumo: perché Saint-Exupéry il 31 luglio 1944 era stato abbattuto da un caccia tedesco. Per questo i grandi dicono che 'Il Piccolo Principe' è anche un testamento. Ai bambini e a tutti resta da ricordare che se i rapporti umani sono così difficili è anche perché l'essere amato, una volta addomesticato con prolungati legami, deve anche essere, un po', perduto". Nella Nota che chiude il volume, Daria Galateria raccoglie in un "abbecedario" i temi principali del "Piccolo Principe"; e, tra le pieghe della vita e le combinazioni di pagine e disegni inediti di Saint-Exupéry, indaga su figure e simboli ricorrenti. Sul mistero della "favola più bella del Novecento".
C'è un'azione parallela, in questa inchiesta del vicequestore Rocco Schiavone, che affianca la storia principale. È perché il passato dell'ispido poliziotto è segnato da una zona oscura e si ripresenta a ogni richiamo. Come un debito non riscattato. Come una ferita condannata a riaprirsi. E anche quando un'indagine che lo accora gli fa sentire il palpito di una vita salvata, da quel fondo mai scandagliato c'è uno spettro che spunta a ricordargli che a Rocco Schiavone la vita non può sorridere. I Berguet, ricca famiglia di industriali valdostani, hanno un segreto, Rocco Schiavone lo intuisce per caso. Gli sembra di avvertire nei precordi un grido disperato. È scomparsa Chiara Berguet, figlia di famiglia, studentessa molto popolare tra i coetanei. Inizia così per il vicequestore una partita giocata su più tavoli: scoprire cosa si cela dietro la facciata irreprensibile di un ambiente privilegiato, sfidare il tempo in una corsa per la vita, illuminare l'area grigia dove il racket e gli affari si incontrano. Intanto cade la neve ad Aosta, ed è maggio: un fuori stagione che nutre il malumore di Rocco. E come venuta da quell'umor nero, un'ombra lo insegue per colpirlo dove è più doloroso.
"Almanacco Sellerio" raccoglie scritti inediti o irreperibili di autori della casa editrice. Diversi per argomento, e per occasione ispiratrice, li accomuna inevitabilmente una sensibilità letteraria condivisa che è poi quella che costituisce l'identità della casa editrice. In questo senso, prima di tutto l'almanacco risponde al desiderio di presentare questa identità. Gli autori si impegnano prevalentemente a narrare. E ogni brano è in realtà un racconto anche quando tratta di guerra (l'anno prima dello scoppio della prima guerra mondiale; il rumore della catastrofe nella musica di Mahler e di Berg; un pianoforte in mezzo alle trincee; il destino di un soldato tedesco in quel di Caltagirone), di viaggi (sulle tracce della napoleonica ritirata di Russia; l'esperienza spirituale di un pendolare), quando ricorda (un altro terremoto dell'Aquila; un'infanzia a cavallo della frontiera Mexico-Usa; le gare di "oratoria agonistica" a scuola; i cani amici di una vita), quando tramanda (un valoroso medico del ghetto; Marguerite Yourcenar che legge Tomasi di Lampedusa e viceversa; un grande artista di acqueforti; un pittore ottocentesco perduto in Paraguay), o quando infine gli scrittori giocano con la loro stessa scrittura (le favole in versi per i bambini cattivi, le recensioni surreali dell'arte del paracarro; un maestro di umorismo vernacolare).
L'autunno è scuola e quando le lezioni ricominciano basta sollevare un lembo del tessuto della normalità, per mezzo della finzione letteraria, per scoprire il mistero che nelle aule si nasconde. È quello che fanno gli autori di questi racconti gialli che amplificano appena appena in senso criminale quello che tutti i giorni vivono studenti e insegnanti. Esmahan Aykol mostra una sorta di delitto passivo del fondamentalismo che si diffonde in una scuola di quartiere povero a Istanbul. In una Palermo odorosa e putrescente Gian Mauro Costa inscena un racket di ladri di biciclette che racchiude come in un bocciolo un amore di adolescenti di un'epoca lontana. Alicia Giménez-Bartlett immagina il femminicidio anomalo di una quindicenne. Il pensionato Consonni della Casa di Ringhiera dello scrittore Recami dimostra che, quando si mettono di mezzo le famiglie, ne può uccidere più la psicosi della stessa pedofilia. Nella Napoli splendida e disperata di Maurizio de Giovanni un giovane è conteso tra la scuola e la camorra. La coppia Fantini e Pariani racconta di due insegnanti sessantenni alle prese con il tragico segreto di una setta cyberfantasy di bulli. Nel vetusto college inglese di Alan Bradley, la piccola Flavia de Luce indaga su un cadavere nel laboratorio di chimica fisica. A rappresentarla in giallo la scuola appare un teatro naturale del realismo narrativo: lotta di classe, il disagio sociale, le offese del bigottismo e dell'ipocrisia.
"Ne ammazza più la penna" è la storia dei giornalisti italiani dai tempi della caduta di Napoleone - e precisamente dal primo possibile scoop, il misero fallimento dell'impresa di Gioacchino Murat fermato dalla plebe calabrese nel 1814 mentre tentava di tornare sul trono di Napoli - fino agli anni Sessanta del Novecento. Storia di giornalisti, più che del giornalismo, da Ugo Foscolo (messo a libro paga dagli austriaci) alla rivoluzione editoriale di Enrico Mattei. Giornalisti avventurieri, giornalisti scandalosi, giornalisti venduti e comprati, giornalisti eroici, disvelatori di luminose verità o occultatori di vergogne nazionali: dai grandi ai meno noti, ognuno con la precisa cifra della propria personalità. Mentre le loro carriere si adeguano alle innovazioni tecnologiche, politiche, culturali, sociali e finanziarie del mondo che cambia, sullo sfondo della vita in redazione scorre la storia d'Italia nei suoi momenti cruciali, colti nella realtà quotidiana. Così il rapporto tra i due versanti del racconto - i giornalisti e la storia d'Italia - è tessuto in modo tale che i giornalisti sembrano quello che in realtà furono: l'ombra della storia d'Italia, il suo lato meno noto, ma parte integrante, e a volte determinante, dell'intero. Patriottismi e scandali, ideali e corruzione, coraggio innovativo e conflitti d'interesse, servitù culturale e ardimento d'avanguardia, fanno da refrain a un racconto che diventa, pagina dopo pagina, una storia culturale minuziosissima di notizie...