
Descrizione
L'impero Ottomano. Un impero immenso, bellicoso e dispotico, un regime tirannico; eppure una straordinaria invenzione di governo multietnico e multinazionale a cui alcuni in Occidente guardarono addirittura come a una desiderabile alternativa.
Nota di Sergio Valzania
Un ambasciatore dell’Impero Ottomano giunge in una capitale europea. Gli ospiti cristiani lo accompagnano alla biblioteca e gli mostrano alcuni rari manoscritti del Corano, pensando di compiacerlo, ma il Turco rimane scandalizzato e cerca di comprare quelle copie per riportarle in patria: ha la sensazione che il Libro sia in esilio, non ha alcun desiderio che la conoscenza di esso si diffonda. Questa mancanza di interesse per l’altro è probabilmente la più grande differenza tra l’Impero Ottomano e l’Europa cristiana. Per il resto, le due metà del mondo mediterraneo per secoli si sono confrontate e completate, interfaccia l’una dell’altra. Questa storia dell’Impero Ottomano, straordinaria invenzione di governo multietnico e multinazionale a cui alcuni in Occidente guardarono addirittura come a una desiderabile alternativa, così ce lo raffigura: una metà largamente incomprensibile se non la si completa guardandola anche nello specchio dell’altra.
L'Autore
Alessandro Barbero, nato a Torino nel 1959, è professore ordinario presso l’Università del Piemonte Orientale a Vercelli. Studioso di storia medievale e di storia militare, ha pubblicato fra l’altro libri su Carlo Magno, sulle invasioni barbariche, sulla battaglia di Waterloo, fino al recente Lepanto. La battaglia dei tre imperi (2010). È autore di diversi romanzi storici, tra cui: Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo (Premio Strega 1996) e Gli occhi di Venezia (2011). In questa stessa collana ha pubblicato Federico il Grande (2007).
Memoria familiare, nostalgia dell’infanzia, romanzo autobiografico. “Un filo d’olio” è tutto questo. E anche un ritratto della Sicilia anni Cinquanta in una famiglia dell’aristocrazia terriera. Simonetta Agnello Hornby ha raccontato la Sicilia con storie forti e personaggi leggendari, dalla Mennulara, alla zia marchesa, alla monaca Agata, attraversando l’Otto e il Novecento. Ora è il ricordo autobiografico che si fa protagonista in uno scenario, quello della casa di campagna, dove l’autrice ha trascorso le estati della sua infanzia e giovinezza. Si chiama Mosè il luogo dell’anima di Simonetta Agnello, nome biblico derivante dal primo proprietario - un’opera pia - della antica masseria che ha resistito alla guerra. A pochi chilometri dai templi dorici dell’antica Akragas Mosè accoglie da maggio a ottobre la famiglia Agnello. Simonetta rivive e racconta quelle estati, i riti del viaggio, l’arrivo - ogni volta una emozione rivedere l’enorme gelso, le aie assolate, gli ulivi argentati, le stanze fresche, cercare i nidi tra le persiane, attendere gli ospiti, le visite, i cugini. I giochi, gli svaghi che si ripetono sempre uguali. E nel racconto affiora il lessico familiare, i parenti e le loro mille storie, i contadini, la servitù, figure che si sono impresse nella memoria dell’autrice e da cui ha tratto spunto per i romanzi in cui storia e tradizione si combinano con una intensità evocativa tale da far pensare ad alcuni classici della letteratura siciliana. Fra i ricordi più vivi quelli legati ai riti del cibo e della sua preparazione, piatti legati alla tradizione familiare, agli aromi pungenti della campagna, alle verdure spontanee e ai segreti mai svelati. E sono le ricette della sorella Chiara - inseparabile compagna al Mosè - che incorniciano ogni capitolo di questo affresco, dal caffè dal profumo speziato, riservato alle occasioni speciali, alla tuma tiepida e croccante.
"Spesso la pittura ha mosso la mia penna. Se in un lontano pomeriggio del 1970 non fossi entrato al Prado e non fossi rimasto "prigioniero" davanti a Las Meninas di Velazquez, incapace di uscire dalla sala fino alla chiusura del museo, non avrei mai scritto 'II gioco del rovescio'. Lo stesso vale per l'enorme suggestione provata da bambino davanti agli affreschi del convento di San Marco, rivisitati spesso da adulto, che un bel giorno ritornò con prepotenza sbucando nelle pagine de 'I volatili del Beato Angelico'". Dalla suggestione di un'immagine, soprattutto dalla pittura, nascono questi racconti di Tabucchi. Ma a sua volta il racconto sembra catturare in un'altra dimensione le figure che lo provocarono: è quella contea fantastica dove, come scrisse Leopardi, "l'anima immagina quello che non vede". Così le figure sembrano risvegliarsi dalla loro immobilità, acquistano vita, da immagini diventano personaggi e interpreti delle loro storie. Suddiviso come un ideale spartito musicale (l'Adagio dove prevale la chiave della malinconia, l'Andante con brio per un'atmosfera più giocosa, le Ariette laddove il motivo è solo accennato e non eseguito) questo libro polifonico è anche il puro piacere del testo, un fuoco d'artificio narrativo, lo stupefacente cromatismo di un maestro riconosciuto del racconto.
Per i più, Chernobyl è solo la centrale atomica luminescente per il suo bulbo di uranio infuocato e le storie da day after seguite all'incidente del 1986, il più grave di tutti i tempi. Ma quell'evento faustiano, che segnò la vera data finale del comunismo, fu in realtà l'estremo anello di una lunga catena di evacuazioni e massacri di genti, di luciferini stermini di culture: quasi che quell'angolo di terra ucraina fosse luogo eletto di un progetto per la cancellazione del diritto degli uomini di narrare la propria storia. E in tale progetto di cancellazione della memoria, questo libro si immerge e mira a rifarne la storia, quasi in forma di romanzo dalle forti venature autobiografiche. Chernobyl è un luogo antico, di numerosissima popolazione ebraica, benché scarse tracce siano rimaste di quel mondo per provare a immaginarlo. Fu il centro incontrastato del Hassidismo, che divenne l'anima di quei luoghi. Ma a Chernobyl e dintorni presero forma le più livide crudeltà delle guerre tra ucraini, russi e polacchi. Alle vendette staliniane si alternarono le stragi naziste: l"Holomodor" (la morte inflitta attraverso la fame) distese il suo mantello su quei campi, durante le carestie della collettivizzazione forzata, e cancellò un terzo degli ucraini e il loro universo contadino; furono annientati gli ebrei e la loro cultura.
Ritorna la Romagna di Flamigni con la sua variegata e allegra galleria di personaggi che hanno conquistato i lettori di “Un tranquillo paese di Romagna” e di “Circostanze casuali”: Primo Casadei e la sua famiglia, gli amici Proverbio e Pavolone, alle prese l’uno con un ricovero in terapia intensiva, l’altro con il desiderio di mettere al mondo un figlio con l’amata Maite. E sono problemi che li pongono di fronte a questioni di morale - la fine della vita e il suo inizio - non facili da risolvere soprattutto perché oscurate da leggi mal scritte e mal interpretate. Gli affanni dei due amici si intrecciano con la trama principale del romanzo. Giuseppe, figlio di una delle tante cugine di Primo, giornalista in una emittente televisiva, arriva in Romagna per una inchiesta sul «Presidente», uno di quei potenti che si muovono con disinvoltura tra politica danaro e malaffare senza però sporcarsi le mani. La sua vita è all’insegna della discrezione per non dire della segretezza. Giuseppe ha colto al volo l’occasione dell’inchiesta anche perché la sua fidanzata ha deciso di presentarsi al concorso Belle e Brave che si svolge in Romagna proprio in quei giorni. Accompagnata dalla mamma insieme hanno capito quali sono le mosse giuste per avere successo. Giuseppe si muove con eccessiva disinvoltura, a tratti con ingenuità, alla ricerca di verità sul Presidente, e Primo, che ben conosce il mondo al confine tra lecito e illecito (nel suo passato c’è anche la prigione), lo mette in guardia e lo avverte di fermarsi.
San Carlo, Maremma Toscana. Il conte Alinaro Bonaiuti ha invitato nel suo maniero degli ospiti per la battuta di caccia del fine settimana; tra questi, c’è il noto gourmet Pellegrino Artusi. La prima sera del week-end, a cena, il padrone di casa è di umore allegro. Accenna ad una grossa vincita ai cavalli, quindi invita gli ospiti nella sala da fumo dove brinderanno alla vincita. Poi, scusandosi, spiega di non poter bere champagne per i suoi problemi di stomaco, e ripiega sul suo solito Porto. Durante la notte si sente male. Questa volta Malvaldi si cimenta con un giallo di impianto classico - l’ambientazione ottocentesca, il castello, i delitti, la nobiltà decaduta, il maggiordomo - illuminato però dalla presenza di Artusi, il grande gastronomo che con la sua “Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” dette dignità alle pietanze di tutti i giorni. Sarà proprio Pellegrino - studioso di storia naturale oltre che letterato - a trovare con il suo acume e la sua curiosità la chiave per arrivare alla verità, mentre Malvaldi - lasciati per il momento i quattro vecchietti del BarLume - ci consegna il magnifico ritratto di un italiano memorabile che si muove a suo agio in mezzo a personaggi di invenzione.
Otto storie, tanto perfette e compiute da costituire ciascuna un breve romanzo. Ci sono i personaggi della Vigàta di ogni tempo, l’inventario di una Sicilia dalle inesauribili sfaccettature: avvocati brillanti, chiromanti improvvisate, contadini e studentesse, preti e federali, comunisti sfegatati, donne risolute, un repertorio che suscita il sorriso o la pietà, e sempre un forte coinvolgimento. Ma in queste storie c’è anche un elemento fiabesco, mitico, un improvviso scarto dalla narrazione che ritorna insistente. È una traccia sotterranea che si mescola con il momento storico che è sempre ben definito, al punto che sin dalle prime righe di ogni storia la narrazione viene incastonata in una data precisa, la fine dell’Ottocento, l’alba del 1900, ma più spesso gli anni del fascismo, dello sbarco, del dopoguerra. Quasi sempre è l’ironia, la burla a dominare, o il gallismo brancatiano, oppure l’umanità solidale che non manca mai nelle storie di Camilleri che in quella «piazza della memoria» che è Vigàta, attinge a storie vere o verosimili depositate fra i suoi ricordi, per reinventarle e raccontarle con la sua capacità affabulatoria, tutte spruzzate da una polvere di simpatia.
Lorenzo, romano, è studente a Medicina e si trova nel pieno di una di quelle crisi di identità ben note agli universitari del post-sessantotto. A un passo dalla laurea, si sente ormai del tutto fuori dal mondo studentesco, che gli brulica intorno svagato e pieno di conformismi inconsapevoli; però sa che la vita professionale adulta che l’aspetta è un appuntamento inevitabile con un sé sconosciuto e inquietante. Ad aggravare malinconie, ansie e straniazione, c’è il momento storico in cui Lorenzo si trova del tutto immerso: la metà degli anni Settanta, quando il movimento studentesco inizia a risentire di sfinimento e delusioni, mentre intorno scoppiano i primi fuochi del terrorismo e continuano nelle piazze le stragi dai mandanti occulti. Tra lezioni, visite in corsia col codazzo di assistenti e allievi, e un dibattito del Collettivo studentesco che sta per occupare la facoltà, Lorenzo con un suo amico fa una scoperta raccapricciante. Il professor Mori, luminare di ematologia, è trovato ucciso in un modo rituale: lui, medico del sangue, morto dissanguato. E non sarà quella l’unica cerimonia nera con simboliche liturgie e vittime altrettanto illustri. La forza delle circostanze coinvolgerà Lorenzo nella sequela di vendette in camice bianco. La sua esistenza, amicizie studi amori, ne sarà sconvolta fino a quando la verità non emergerà dalla sequenza di sangue. È un giallo misterioso e crudele. Ma per tutto il contorno del racconto, il suo sfondo e la sua ambientazione, Viale del Policlinico è il ritratto mobile di una generazione fortunata ma anche travagliata da complessità incipienti. Un sapiente quadro d’ambiente, sui cattedratici di un tempo simile eppure molto diverso, sui fremiti degli studenti di allora, e sulle atmosfere del loro sacro tempio di una volta, la facoltà di Medicina.
Claudio Coletta (Roma, 1952) lavora come medico presso un ospedale di Roma. È stato membro della giuria internazionale del Roma Film Festival 2007. Oltre a numerosissime pubblicazioni in campo scientifico, questa è la sua prima opera di narrativa.
«Deve essere difficile per il vero colpevole sfuggire alle vostre investigazioni. Può non aver lasciato alcuna traccia materiale, ma voi cercate invece quelle morali e finite per trovarlo». Di Scerbanenco colpisce, soprattutto nei cinque gialli della serie con Arthur Jelling, il miscuglio di realismo e fantastico, di logica investigativa e psicologia. Un insieme che, ben amalgamato, dà ai suoi polizieschi una vaga atmosfera da cruda fiaba. L’effetto fiabesco è marcato dalla singolarità del timidissimo investigatore, dotato di una profondità psicologica da veggente; dall’ambientazione in una Boston più mitica che reale; dal voluto esotismo dei personaggi, ciascuno ogni volta stilizzato nella sua tipicità sociale; e, inoltre, da una serie di intrusioni che sembrano immanenti e terreni incantesimi. Qui il ruolo dell’incantesimo è retto dalle capacità di due cani prodigiosi che si riveleranno decisivi nella meccanica dell’intreccio. In questa inchiesta, scritta nel 1942, Arthur Jelling, archivista capo della polizia di Boston prestato per le sue capacità alle investigazioni sul campo e sempre desideroso di ritornare al più presto alla tranquillità familiare, deve affrontare un assassinio sul treno. Situazione classica, questa, della letteratura poliziesca deduttiva, con i possibili sospetti tutti raccolti in un unico ambiente. La complicazione però nel caso del Cane che parla è costituita da due misteri: non è chiaro se la vittima sia stata uccisa con un colpo partito dall’esterno o, con un misterioso artificio, dall’interno; e nessuno dei passeggeri sembra aver potuto provocare l’arresto del treno necessario all’assassino per colpire. I sospetti e i testimoni, provengono tutti dal mondo dell’editoria: poeti, giornalisti, scrittori, editori, critici letterari, uniti da stili di vita comuni e divisi da invidie e competizioni. Jelling risolve tutti i misteri ma non riesce ad evitare un triste prezzo da pagare alla verità.
Giorgio Scerbanenco (1911-1969), nato a Kiev, vissuto in Italia, scrisse un numero immenso di romanzi di tutti i generi fantastici, tutti con una personale inimitabile cifra narrativa. I romanzi con protagonista Duca Lamberti lo incoronarono maestro del noir italiano. Questa casa editrice ha pubblicato Uccidere per amore (2002), La mia ragazza di Magdalena (2004), Rossa (2004), Uomini ragno (2006), Annalisa e il passaggio a livello (2007), Sei giorni di preavviso (2008), La bambola cieca (2008), Nessuno è colpevole (2009) e L'antro dei filosofi (2010).
Altri titoli in catalogo.
Berlino, 1940. Jablonskistrasse numero 55: la postina Kluge consegna ai Quangel, modesta famiglia operaia, la lettera che comunica la fine del loro unico figlio, “morto da eroe per il suo Führer e per il suo popolo”, mentre la Francia capitola. Oltre al dolore indicibile, la notizia scatena nel cuore di Otto e Anna Quangel, mai iscritti al partito ma che con il nazismo convivono come tanti, un sussulto di ribellione e il desiderio di fare qualcosa. Nasce l’idea di un’azione di controinformazione: scriveranno cartoline postali con appelli contro il Führer e il partito, da lasciare dove capita, per diffondere almeno il germe del dubbio. In due anni scrivono quasi 300 cartoline, che finiscono però quasi tutte nelle mani della polizia. La gente è spaventata, ci vuol poco per essere arrestati dalla Gestapo e finire nei guai. Mentre i Quangel agiscono in solitudine, seguiamo le vicende degli altri abitanti del condominio: i Persicke, fedelissimi del partito nazionalsocialista, la vecchia ebrea Rosenthal, la spia Borkhausen, il giudice Fromm, l’ispettore Escherich che indaga sulle cartoline. È il nazismo, il protagonista del romanzo, non quello dei gerarchi e delle grandi decisioni, ma il sottile strisciante nazismo di tutti i giorni, nelle fabbriche e per le strade, nelle prigioni e nei manicomi. Ognuno può essere il nemico, il delatore. Un romanzo di straordinaria forza, una storia che tiene con il fiato sospeso anche se già sappiamo che finirà male per tutti. La vicenda trae origine da una storia vera. Alla fine della guerra nella Berlino liberata dai sovietici, viene affidato a Fallada - sopravvissuto al nazismo e alla guerra - un dossier della Gestapo su due sconosciuti, Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1942 per avere diffuso materiale anti-nazista per trarne un racconto. Fallada lo scrive in 24 giorni. In appendice al volume viene riproposto il dossier della Gestapo e alcune cartoline postali dei coniugi Hampel.