Arnoldo Foà appartiene alla stagione dei grandi protagonisti del teatro italiano: gli attori memorabili che con la loro personalità, acquistata a prezzo di sacrificio di sé ma portata con apparente facilità, occupavano l’intero ambito dello spettacolo nazionale, dal palcoscenico allo schermo alla camera di doppiaggio e, a partire dagli anni del miracolo economico, anche alla televisione. Una versatilità difficile da ritrovare oggi. Di quelle figure e di quelle professionalità, ne circolano non poche in questo libro, i tanti incontri che popolano la memoria di un grande attore. Ma in questa autobiografia – che meglio sarebbe definire, smorzando l’ironia, «ricordi»: eccentrici, lampi di vissuto, con un piacere particolare nel ricreare l’intensità di un rapporto umano, l’importanza di un incontro minore, il sarcasmo o la sgarbo inferto a qualcuno che lo meritava anche se pericolosamente potente –, in questo testo dal tono diretto di chi sa intrattenere si parla di più, in effetti, di quello che c’era dietro quelle grandezze, della materia dura che ha permesso di forgiare quella versatilità, cioè la vita. Molto avanti con gli anni, difatti, Foà ricorda se stesso molto più come un artista dell’esistenza che come un artista dello spettacolo. Molto più come un uomo burbero con se stesso e con gli altri, ma appassionato e vitalmente egoista come tutti gli artisti (lui dice), che ha dovuto molto lottare e molto sfidare, per non soccombere mai ai giorni mediocri. E certo le pagine più intense di questa autobiografia sono quelle dedicate ai tempi in cui da ebreo doveva nascondersi dietro agli pseudonimi e agli entusiasmi affamati del dopoguerra, e le pagine più piene di gratitudine quelle destinate ai tanti affetti, fedeli e infedeli, vero propellente di un burbero artista, che è stato attore scrittore scultore pittore e poeta e che può dichiarare infine: «ho fatto l’attore per vedere il mondo ». Una memoria di se stesso e per se stesso, che è un atto di vita, un’invettiva contro il tempo e una dichiarazione d’amore.
Arnoldo Foà (Ferrara, 1916), famoso attore teatrale, di cinema e televisione, è anche regista, pittore e scultore. Al lavoro di artista, ha sempre affiancato la scrittura: di commedie e drammi suoi («Signori buonasera», «La corda a tre capi», «Il testimone, «Amphitryon toujours», «Oggi»), di opere narrative e di poesia, tra cui La costituzione di Prinz, Le pompe di Satana, La formica, Joanna. Luzmarina.
«Nel 188* il Console americano a Venezia abitava al secondo piano di un antico palazzo sul Canal Grande. Era il piano che gli italiani chiamano nobile. Al di sotto di questo piano nobile c’era un ampio piano terreno, o, piuttosto, acquatico, il cui pavimento, solo leggermente al di sopra del livello del canale, era sempre umido e, spesso, bagnato. Al tempo in cui risiedeva là il Console, questo piano acquatico era occupato da un altro inquilino, un commerciante di oggetti antichi, che aveva delimitato una piccola zona interna alla grande facciata principale come spazio espositivo. Siccome occupava il piano terreno, questo commerciante disponeva, ovviamente, anche dell’entrata principale del palazzo, con la sua ampia scalinata che scendeva verso le piccole onde increspate della splendida strada azzurra là fuori e gli alti, sottili pali de casada, piantati irregolarmente nell’acqua come testimonianza della nobiltà dei venerabili pilastri sui quali vegliavano. Qualcuno avrebbe potuto dire che questi bastoni turchini, ornati di disegni araldici, erano simili alle lance dei cavalieri; questo era quello che sosteneva Miss Senter. Qualcun altro avrebbe potuto notare la loro forte rassomiglianza con quei pali a spirali bianche e rosse usati in America come insegna dai barbieri; e questo era quello che insinuava sempre Peter Senter».
Constance Fenimore Woolson (1840-1894) nata in New Hampshire fu scrittrice di racconti, apprezzati dall’amico Henry James, ispirati da situazioni di luoghi vissuti, da cui traeva soggetti non ordinari, anticonvenzionali. Una scrittura limpida, quieta, suadente, assunta spesso a modello di prosa, ma sotto la cui superficie circolavano passioni nascoste e inquietanti misteri. Non sorprende che alcuni di questi sfiorassero il poliziesco appena nato, o il genere gotico più tradizionale. Tale è Vigilia di Natale ambientato a Venezia (dove Constance morì quasi certamente suicida): in un vasto palazzo sul Canal Grande, il console americano Peter Senter e la sorella Barbara, «la consolessa», tengono la tradizionale festa di Natale, nel corso della quale avviene un omicidio e una serie di strane aggressioni.
Di lei questa casa editrice ha pubblicato Via del Giacinto (2002), Per il Maggiore (2005) e Il giardino davanti casa (2007).
«Il cibo, i misteri della sua fattura, li ho affrontati molto presto. Il mio interesse era puramente speculativo: non godevo di grandi fami e l’obiettivo impartitomi insieme a ogni pasto, secondo il quale più si ingurgita materia e prima si accede a stadi progrediti di responsabilità, mi sembrava difficile da conseguire, e neanche tanto allettante. Mi detti da fare allora per svincolare i processi nutritivi dai poteri ignoti dell’apparato digerente e cercai di appropriarmene altrove, nelle luci salvifiche dei miei giochi. Più o meno come Gian Burrasca, e forse ispirata dal suo giornalino, mi ero procurata una piccola borsa in cui a tavola, con operazioni di prestidigitazione, facevo scivolare il meglio delle mie razioni quotidiane; lo riponevo con cura in un nascondiglio che avevo in comune con i miei amici ripromettendomi di elaborarlo poi insieme nei nostri ritrovi».
Antonella Ottai insegna spettacolo e multimedia all’università di Roma La Sapienza, ha scritto saggi e volumi dedicati al teatro ed è una cuoca sopraffina. Di famiglia ebreaungherese per parte di padre e abruzzese per parte di madre, la sua vita si è sempre confusa e circonfusa con l’arte del cucinare per cui questo libretto, scandito in sei momenti cruciali, può essere definito come il racconto di una vita (e di una famiglia di eterogenea geografia e di diverse tradizioni) attraverso le ricette, o – meglio – un libro di ricette che raccontano una vita.
Grand Hotel, della austriaca Vicki Baum, è stato uno dei primi best seller internazionali. Pubblicato in Germania nel 1929, presto tradotto in tutta Europa, già nel 1932 era diventato quel film da Oscar (con Greta Garbo e John Barrymore) che oggi ricordiamo meglio del romanzo che ne era all’origine: con la battuta finale – «Grand Hotel, gente che va, gente che viene» – che volgarizzava la fine del libro: «Si entra, si esce... si entra, si esce... si entra, si esce... Del resto è così che è la vita». Difatti è l’ambientazione – il Grand Hotel, appunto, in quegli anni simbolo popolare di vita privilegiata e moderna, sogno di massa –, il principale fattore, forse, del grande successo di lettori. «Gli hotel offrono opportunità infinite – asserisce la scrittrice Monica Ali –. Ogni ospite potenzialmente ha una storia. Altre storie nascono quando gli ospiti interagiscono. Basta il ruotare di una porta girevole. Grand Hotel, di Vicki Baum, dimostra questo principio alla perfezione. Sei persone si fermano in un albergo e nei successivi cinque giorni le loro vite si intrecciano. Il romanzo si muove tra personaggi storie e luoghi diversi e solo il Grand Hotel fa da collante a tutti questi frammenti». Un movimento frenetico, che trascina il tragico passato di ciascun personaggio in un’apparente pausa del presente in cui al contrario i destini si compiono; e questo è reso dall’autrice con una strategia narrativa, con un «montaggio» visivo significativamente attuale: l’affaccendato cicaleccio della hall dell’albergo, l’aprirsi e il richiudersi della bussola rotante, scandiscono i diversi quadri della trama, come se i sei personaggi ogni volta fossero zoom che inquadrano e lanciano in primo piano i volti isolati, presi da una moltitudine indifferenziata. E come se le mura dell’albergo racchiudenti i personaggi, rappresentassero al contrario la città che escludono, metafora della sterminata e modernissima metropoli berlinese. Sicché Grand Hotel, best seller senza apparenti pretese simboliche, mostra oggi la forza di figurare la moderna folla solitaria al suo nascere, la massa anonima, dentro cui s’ammucchiano innumerevoli tragedie silenziose, l’una affiancata all’altra ma prive perfino dell’energia esistenziale di accorgersi l’una dell’altra.
Hedwig (Vicki) Baum (1888-1960) nata a Vienna da famiglia ebrea e morta a Hollywood dove s’era trasferita, è considerata tra i primi creatori di bestseller. Scrisse una cinquantina di romanzi di cui almeno dieci trasformati in pellicole.
Il secondo volume delle inchieste di Montalbano. Il metodo del commissario più celebre d’Italia si affina: annusare, raccogliere, intuire, collegare, simpatizzare e antipatizzare.
La voce del violino
Una giovane che vive in periferia, un artista appartato, un assassinio. A collegarli, un prezioso violino, scopre Montalbano, la cui vita privata si complica e la cui tranquillità vacilla perché c’è una decisione da prendere.
La gita a Tindari
Un triplice omicidio è avvenuto: un dongiovanni che vive al di sopra dei suoi mezzi e due anziani. Montalbano indaga tra i vecchietti. Indimenticabile e leggendaria la galleria dei pensionati in gita al santuario.
L’odore della notte
«Sì, a seconda dell’ora la notte cangia odore». Un caso anomalo, in cui il cadavere spunta in un secondo tempo e Montalbano si intrufola non essendo titolare dell’inchiesta: la scomparsa di un finanziere truffatore che sembra uscito dalle cronache. Mentre Augello si sposa e il commissario si sente vecchio.
Oltre ai polizieschi con il commissario Montalbano protagonista, Camilleri ha pubblicato un gran numero di romanzi e opere varie, tra cui con questa casa editrice: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009) e La rizzagliata (2009).
L’aderenza alla realtà vissuta, pur nell’iperbole di ogni delitto e nella minuziosa originalità di ogni personaggio; i dialoghi tra Petra e il suo vice Garzón, miscela audace di umori tra Cervantes e Almodóvar; la complicità del lettore con tutte le complicazioni private dei due eroi; una comicità mai ovvia; un persistente disincanto; l’autentico, non ricercato, umorismo della battuta capace di arricchire di senso le situazioni narrative: sono gli elementi riconosciuti del successo dei polizieschi alla Petra Delicado.
Morti di carta
La vittima è un giornalista televisivo: uno di quei mezzi ricattatori che grufolano negli scandali. Petra e Fermín brancolano verso una soluzione che gli sfugge come in un labirinto di specchi che riflettono volti noti e deformati, mentre i cadaveri si moltiplicano.
Serpenti nel Paradiso
Al Paradís vive il jet set. Il borgo è insolito per un’inchiesta di Petra e il vice Fermín, abituati a delitti in contesti più andanti. Devono trovare l’assassino del giovane avvocato «primo in tutto», padre di una famiglia felice e senza ombra; cercano in quel paradiso il nido del serpente.
Un bastimento carico di riso
È morto un barbone, ucciso con ai piedi un paio di scarpe inspiegabilmente eleganti. Chi se ne incaricherebbe, se non Petra e Garzón? Lei si sente attirata da quel mondo parallelo di diseredati, «un territorio che esisteva anche dentro di lei»; Garzón la segue: e trovano altri mondi criminali.
Alicia Giménez-Bartlett (Almansa, 1951) vive a Barcellona. È la creatrice della serie dell’ispettrice Petra Delicado: un grande successo di lettori e considerata dai critici un’originale invenzione di poliziesco latino. Questo è il secondo volume della raccolta completa dei suoi gialli. Sellerio ha pubblicato gli altri suoi romanzi: Una stanza tutta per gli altri (2003, 2009), Vita sentimentale di un camionista (2004), Segreta Penelope (2006) e Giorni d’amore e inganno (2008). Nel 2006 ha vinto il Premio Piemonte Grinzane Noir e il Premio La Baccante nato nell’ambito del Women’s Fiction Festival di Matera. Nel 2008 il Raymond Chandler Award del Courmayeur Noir in Festival.
Maj Sjöwall e Per Wahlöö, compagni nella vita oltre che romanzieri a quattro mani, con la serie di Martin Beck hanno probabilmente inventato il poliziesco procedurale; e certamente sono i caposcuola del giallo alla scandinava. Ma la squadra del commissario, da dietro le cui spalle vediamo svolgersi l’inchiesta, gonfiarsi i casi, risolversi gli intrighi, inscena anche una specie di commedia umana dei vividi anni Sessanta.
Roseanna
Roseanna, la tipica ragazza anni Sessanta, colorata, vivace, piena di attese. Il bel cadavere nudo viene trovato in una diga. A distanza di mesi, Martin Beck, malinconico e sentimentalmente frustrato detective, metodico e lento, non può dimenticare; un brandello di indizio gli permette di risalire il filo della traccia. Non senza un groppo in gola.
L’uomo che andò in fumo
Un uomo è andato in fumo, è sparito. Un giornalista. Svanito a Budapest e c’è il rischio dell’incidente diplomatico. A Martin Beck è affidata un’indagine discreta; che completa in coppia con un insperato alter ego ungherese. Nulla è quel che sembrava, solo una certa infelicità.
L’uomo al balcone
Gelidi omicidi di bambine adescate nei parchi. Pochi testimoni hanno notato, talvolta, che parlavano con un uomo capace di carpirne la fiducia. Su questo lavora, quasi rumina, con i suoi uomini, Martin Beck, il commissario che «non pensa mai». Mentre le loro difficili esistenze riflettono l’opaca inquietudine della società del benessere.
Maj Sjöwall (1935) e Per Wahlöö (1926-1975), compagni nella vita, hanno scritto la serie dei dieci romanzi di Martin Beck: tradotta in una trentina di lingue e soggetto di film e telefilm. Una collaborazione con un fine anche politico: la denuncia della società neocapitalistica svedese. Questa casa editrice, che ha già pubblicato nella collana «La memoria» Roseanna (2005), Un assassino di troppo (2005), L’uomo al balcone (2006), Il poliziotto che ride (2007), L’autopompa fantasma (2008), Omicidio al Savoy (2008) e L’uomo che andò in fumo (2009), riproporrà tutta la serie.
Questo «libro scritto dalle cose e da tutti», al suo apparire, nel 1955, fu un caso capace di infiammare il momento civile e politico. Perfino celebri personalità dell’intelligenza europea restarono subito colpite dall’azione di stimolo e denuncia di Danilo Dolci: Sartre, per esempio, o Bertrand Russel e l’Abbée Pierre. Dell’attività del «maestro della non violenza», Banditi a Partinico è insieme testimonianza e risultato. Il testo – qui ripubblicato nella veste ideata in origine, con le foto di Enzo Sellerio, poi espunte nella prima edizione per difficoltà tecnico-editoriali – si articola fondamentalmente in due parti. Le prima trenta pagine (la Relazione su Partinico) presentano i dati sociologici di una città della Sicilia anni Cinquanta del Novecento, Partinico – ma potrebbe essere un qualunque grosso centro agricolo isolano o meridionale. La seconda parte contiene le storie umane che popolavano la città raccolte dalla voce dei protagonisti, in prima persona, con le loro precise parole. E tra le due parti gioca una dinamica tale che i numeri paurosi della statistica vivono, si muovono in una loro danza macabra, nelle storie di fame, di follia e di ignoranza in una specie di coro drammatico alla storia d’Italia. Un mescolarsi di denuncia, di proposta e di azione concreta che offre l’immagine perfetta di cosa il maestro della nonviolenza intendesse con l’espressione «rivoluzione dal di dentro». Dolci avrebbe voluto che il titolo del volume fosse «Banditi» a Partinico per enfatizzare che con la parola intendeva non tanto i fuorilegge, che allora imperversavano nella zona, quanto un popolo intero messo al bando dallo stato e dalla legge: che insomma, in certe condizioni come quelle della cittadina siciliana, il passo tra essere poveri ed essere criminali era talmente breve e obbligato che solo uno stato colpevole poteva trattare la questione sociale come fosse una questione criminale. Bobbio scriveva nella prefazione: «Dopo aver letto queste pagine, ascoltate la risonanza sinistra o ironica che acquistano nel vostro animo parole come democrazia, giustizia, diritto, legge... Vorrei che si leggessero queste pagine come un commento, amaro e talora crudele, sempre spietatamente smascheratore delle belle frasi di cui la classe dirigente, politica e sacerdotale, riempie e decora i propri discorsi».
Danilo Dolci (Sesana, 1924-Trappeto, 1997), dopo l’esperienza di Nomadelfia, «la città dove la fraternità è legge», venne a Trappeto vicino a Trapani, iniziando un’instancabile attività di animazione sociale. Tra le sue opere: Inchiesta a Palermo (1957), Spreco (1960), La struttura maieutica e l’evolverci (1996). Con questa casa editrice, Racconti siciliani (2008).
Jacques Bonnet, scrittore ed editore, rievoca la genesi lontana di questa variazione sul tema dell’incantesimo dei libri su certi individui. Fu un incontro con Giuseppe Pontiggia. Entrambi condividevano «la stessa felicità e maledizione che ci era toccata in sorte»: un’enorme biblioteca con molte migliaia di volumi, non da bibliofili o da collezionisti, ma una normale biblioteca generalista, in cui ammucchiare libri letti o da leggere o solo da annusare. Conversando tra loro, era venuta l’idea di fondare un’associazione per i proprietari di biblioteche oltre le ventimila opere, una specie di mutuo soccorso e consiglio. Naturalmente non se ne era fatto niente. Ma col tempo l’esame divertito dei problemi, di chi di non può fare a meno di comprare ogni libro che contiene anche una sola promessa, è germinato nei capitoli di questo che si presenta come un trattatello sull’arte di convivere con troppe librerie (ma mai sopra la spalliera del letto: per non imitare la fine leggendaria di un grande compositore parigino). Che è ben di più che un trattatello su un piccolo tema curioso. È una piacevolissima danza tra gli scaffali di una sterminata libreria a parlare di tutti i rebus di spazio (come quel personaggio che, non avendo più stanze per contenere i libri, li usò per costruire la casa che poi distrusse per ritrovare un singolo volume) o di tempo (le più diverse e capricciose catalogazioni: come quella di Warburg così precisa di affinità tra i testi che se ne perse il senso, morto l’autore), discutendo le più fantasiose e bizzarre soluzioni, i ricordi, gli aneddoti, gli incidenti e gli enigmi: rievocando le vie della passione per la lettura di quei tanti personaggi memorabili (di uno Sciascia, per esempio, che nel suo appartamento siciliano conservava il Journal dei Goncourt ignorato dall’autore stesso) convinti, o illusi, che un lettore intelligente trova almeno una cosa degna in ogni libro. Una danza con i fantasmi delle biblioteche, cioè con quelle strane presenze (primi i sostituiti, detti «fantasmi» appunto, inseriti negli spazi di un libro prestato, e perduto) che occupano la mente dei proprietari e a volte fanno sembrare, all’imperfetta memoria, una grande biblioteca dotarsi con il tempo di vita propria.
Jacques Bonnet, editore, traduttore e scrittore, ha pubblicato tra l’altro una monografia su Lorenzo Lotto (1996) e il romanzo La questione del metodo (2003).
Marek Edelman
C'era l'amore nel ghetto
Si respirava la morte ma si continuava a vivere, si pativa la fame ma nasceva l’amore tra quei ragazzi e quelle ragazze che lottavano per la vita nel ghetto di Varsavia.
Lì vissero tra gli stenti mezzo milione di persone dal ’40 al ’43, quando scoppiò una rivolta e i nazisti lo rasero al suolo. Edelman a quell’epoca ha poco più di 20 anni. È uno dei protagonisti dell’insurrezione e fra i pochi sopravissuti.
A cura di Wlodek Goldkorn, Ludmila Ryba e Adriano Sofri
Traduzione di Ludmila Ryba
Prefazione di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri
188 pagine 11.00 Euro ISBN 88-389-2380-9
«C’è uno spreco e un cattivo uso delle parole e delle analogie, quando si parla della Shoah: un impiego della retorica che privilegia la metafora a scapito della vita e delle vite. Si dimentica, o si ignora, che anche nel ghetto ci si innamorava, si litigava, si faceva politica, si sognava. Si sperava in un avvenire, addirittura. Si dimentica quello che Marek Edelman, un uomo che ha visto andare verso la morte quasi 500.000 persone, ama ripetere: la vita viene prima di ogni altra cosa. Ecco: il ghetto che cos’era? L’anticamera della morte? Certo, anche. Ma era, in condizioni davvero disumane, anche una vita supplementare, una prosecuzione della vita che gli ebrei conducevano prima della guerra, in Polonia.
«Tra le due guerre mondiali, in Polonia esistevano e fiorivano teatri yiddish; si producevano – assieme agli studios di Hollywood – film sonori in yiddish; c’erano reti di biblioteche, case editrici, associazioni sportive, sindacati, partiti politici. C’era una nazione di tre milioni di persone che parlava, pensava, scriveva, sognava, faceva politica e progettava il futuro in yiddish. Qui Marek Edelman racconta che cosa successe a questo mondo, a un pezzo di questa nazione, una volta finito nel ghetto. Non aspettarono passivamente di morire; non si avviarono alle camere a gas “come le pecore al macello”. Cercarono invece in ogni modo, ciascuno a suo modo, di continuare il filo della vita di prima. I medici cercarono di lavorare negli ospedali del ghetto; gli scrittori di scrivere i loro libri; gli storici di registrare le cronache perché le future generazioni potessero fare la storia; gli insegnanti di fare scuola in clandestinità con i ragazzi. E i militanti dei partiti organizzarono la resistenza: che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti. E tutto questo può e deve essere descritto e raccontato. Ecco perché dove c’era la vita c’era anche l’amore».
(Dalla Prefazione di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri)
Marek Edelman guidò, poco più che ventenne, la rivolta del ghetto di Varsavia, che, «armata» di una decina di pistole e qualche chilo di esplosivo, tenne in scacco la strapotenza nazista dal 19 aprile al 10 maggio 1943. Fra i pochi superstiti, Edelman combatté l’anno dopo nell’insurrezione della città. Cresciuto alla scuola del Bund, il partito socialista dei lavoratori ebrei, ai suoi ideali è rimasto fedele. Dopo la guerra, cardiologo all’ospedale di Lodz, è stato più volte licenziato e arrestato dal regime stalinista, fino alla vittoria di Solidarnosc. Ha sempre rifiutato di lasciare il paese che considerava suo e dei suoi morti, delle cui tombe si era dichiarato il guardiano. È morto, novantenne, il 2 ottobre del 2009.