Nel secolo successivo alla morte di Gioacchino da Fiore (1202) numerosi commenti profetici, vaticini e oracoli furono falsamente attribuiti all'abate calabrese. Soggetti disparati cercarono di appropriarsi della sua autorità profetica e apocalittica, per proiettare e consacrare nella prospettiva ambigua dei tempi ultimi le vicende politico-ecclesiastiche più rilevanti del '200: lo scontro fra il papato e la dinastia sveva, i conflitti fra angioini e aragonesi, le lotte al vertice della Chiesa romana e negli ordini religiosi. Il volume offre una panoramica su tradizione manoscritta, circolazione e diffusione delle opere, sui contesti storici in cui presero forma e sugli scopi polemici cui furono destinate: un patrimonio dottrinale che, nato come arsenale di propaganda, contrassegnò l'immagine e la fortuna di Gioacchino fino ai tempi moderni.
The appraisal of the political dialogue and negotiations with the communist regimes of East Central Europe commenced by the Holy See in the 1960s did not provoke only lively debates among contemporaries, but remains to the present day one of the most debated questions of the twentieth-century history: should it be assessed as a fixed path to which no alternative existed, or was it a flawed initiative which merely served the international legitimacy of the communist totalitarian system?
This volume enriches the results of earlier historiography with new perspectives and confirmes inter alia that a black-and-white reading (often based on a one-sided use of sources) of Ostpolitik is incorrect: just as the critical assessment, which frequently places local considerations at the forefront, requires revision, the at times apologetic outlook defending the Vatican’s Eastern policy is also untenable. Only a nuanced and source-focused analysis of the ambitions of the Roman and Muscovite centers, and of local politics and Churches, as well as dialogue between the various research trends, can help us to gain a more thorough knowledge of (and make us better understand) those fixed paths upon which the Roman and local ecclesiastics of the era were forced to travel and which limited the possibility of success.
L'antigiudaismo che esamina David Nirenberg in questo libro non è solo l'insieme dei pregiudizi e delle persecuzioni contro gli ebrei: è una delle modalità fondamentali con cui il pensiero occidentale ha definito se stesso e il proprio modo di interpretare il mondo in contrapposizione a una tradizione diversa. Come spiega l'autore, "L'antigiudaismo non va inteso come un anfratto arcaico e irrazionale nel vasto edificio del pensiero occidentale, ma come uno dei principali strumenti con cui tale edificio è stato costruito". Se l'antisemitismo prende di mira la concreta esistenza degli ebrei, le loro pratiche culturali e religiose, l'antigiudaismo si concentra su tratti e caratteri attribuiti all'influenza della tradizione ebraica ma rintracciabili anche al di fuori di essa, dal letteralismo religioso al materialismo. Già nel mondo antico si affaccia il motivo ricorrente di una "diversità ebraica" che anticipa, spesso con toni e caratteri simili, l'antigiudaismo cristiano e occidentale: è da qui che parte il viaggio di Nirenberg, per tracciare la storia del rapporto dell'Occidente (e del mondo islamico) con l'idea di giudaismo, in un percorso che da san Paolo arriva fino alla tormentata riflessione novecentesca sulle cause dell'antisemitismo e sul ruolo dell'ebraismo nell'Occidente contemporaneo.
Sulla sommità dell'Aventino si erge la basilica di Santa Sabina, tra i più significativi monumenti tardoantichi. Il suo ingresso principale è costituito da un ampio nartece, caratterizzato dalla presenza di opere straordinarie, quali l'antica porta lignea, la decorazione a imitazione del marmo di V secolo e l'imago altomedievale della Theotokos. Il nartece, per anni trascurato negli studi, doveva essere, in origine, uno degli ambienti di maggior fasto e importanza dell'intero edificio e, soprattutto, non un semplice spazio a servizio delle opere ma il luogo per cui queste erano state pensate. Destinato con ogni probabilità principalmente a catecumeni e penitenti, doveva essere una vera e propria zona liminare, mondo tra i mondi, zona di transito fisico e spirituale. Il presente volume indaga questo luogo a tutto tondo, con un'attenzione particolare alla sua storiografia, all'archeologia del monumento e alle sue decorazioni, rivelandone la facies tardoantica straordinariamente conservata nella sostanza. Si propone al lettore uno sguardo sinergico, volto a mostrare come la coesistenza dei diversi media permetta una più esaustiva comprensione dello scenario artistico tardoantico.
Fra il 1899 e il 1903 il canonico francese Ulysse Chevalier pubblicò diversi studi sulla storia della Sindone, per dimostrare l'origine medievale della reliquia e narrare, sulla base dei documenti, le tormentate vicende delle sue origini. Il canonico raccolse un ampio consenso tra laici, storici cattolici, biblisti ed ecclesiastici contemporanei. Ma alcuni sostenitori dell'autenticità della Sindone, impossibilitati a confutarne gli studi, si proposero di ridurlo al silenzio facendolo condannare dalla Santa Sede, e lo denunciarono. Fu aperto un processo a suo carico, ma la commissione incaricata di studiare il caso si convinse della non autenticità della Sindone. Pare che anche papa Leone XIII si fosse persuaso: non sustinetur, furono le sue parole. Essendo la famosa reliquia proprietà personale del re d'Italia, si preferì tuttavia non prendere alcuna decisione ufficiale, costringendo Chevalier a tacere. In seguito silenzio e censura calarono sul risultato del processo; anzi, si negò che esso fosse mai avvenuto. Questo saggio, che pubblica e interpreta sia la documentazione processuale della Santa Sede sia la corrispondenza personale dello studioso francese, ricostruisce nei particolari l'intera vicenda e la rilegge nel contesto in cui essa si è svolta, in un momento di profonda tensione culturale all'interno della Chiesa e alle soglie della crisi modernista.
un'antropologa e storica delle religioni entra nel mondo claustrale cattolico, per motivi di ricerca, come se fosse una postulante. Il limite di accesso, fisico e simbolico, che caratterizza di solito i monasteri, ha spesso prodotto dei lavori di riflesso, in cui l'esperienza di campo, in quanto ambiente comunicativo di incontro, è del tutto assente o deformata. Tali luoghi sono di solito conosciuti attraverso i testi scritti e i racconti dei religiosi che vivono in quel mondo ma che non permettono ad altri di entrarvi. Questo lavoro nasce da un'etnografia partecipata, in veste di attrice sociale protagonista, all'interno di due monasteri francesi di Carmelitane scalze. L'autrice sperimenta e racconta, in prima persona, quelle "minuzie della vita quotidiana" delle monache che sfuggono di solito agli occhi dello studioso, ma che danno forma a processi comunitari e, nel tempo, costruiscono la donna religiosa. L'ideale a cui tende il gruppo monastico non è dato esclusivamente dai testi, che lo definiscono e lo descrivono, ma soprattutto dalla pratica, che costruisce un proprio modello applicativo e che nasce dall'agire stesso. Questo porta la studiosa a vedere come la regola sia applicata nella pratica e quali sfasature si vengano a creare tra ortodossia e ortoprassi.
Ambrogio Sansedoni (1220-1287), appartenente per nascita alla classe dirigente del Comune di Siena, abbraccia la vita religiosa nell'Ordine dei Predicatori e diviene famoso predicatore. Odile Redon inserisce la sua figura, in vita e in morte, nel contesto della storia senese: animazione delle confraternite, al servizio dei poveri e dei malati, contrasto all'usura, liberazione dall'interdetto che aveva colpito la città ghibellina, suscitando un moto popolare e comunale di gratitudine, che si esprime nella corsa di cavalli premiata con un palio. La ricostruzione del percorso volto al riconoscimento della santità attraverso fonti documentarie e agiografiche costituisce uno degli aspetti più innovativi di questo volume, che, dall'osservatorio particolare di una famiglia e di un suo illustre esponente, getta luce sulla storia sociale, politica, religiosa di Siena.
Quale ruolo ha effettivamente svolto il servizio sociale nei vari ambiti e contesti in cui si è esplicata la sua attività? Che tipo di risposte ha saputo o potuto dare ai molteplici bisogni cui di volta in volta è stato chiamato a rispondere? E quale contributo ha fornito alla costruzione del nuovo welfare che la Repubblica, non senza difficoltà, veniva definendo dopo il secondo conflitto mondiale? Partendo dai dati emersi nel corso del VI incontro di studio Sostoss, tenutosi a Roma il 28 maggio 2013, arricchiti da ulteriori riflessioni, fonti e analisi, i testi raccolti in questo volume provano a tracciare un quadro critico della presenza e del ruolo del servizio sociale nel nostro paese. In particolare, è descritto e analizzato l'impegno della professione nei programmi sociali a carattere comunitario a favore di comunità territoriali, nelle periferie urbane e nelle aree rurali di vecchio e nuovo insediamenti, nel periodo compreso tra la fine della guerra e gli anni Settanta.
Il diavolo sale in Paradiso, deciso a riprendersi l'umanità utilizzando un nuovo formidabile strumento: il processo. Possibile? Composto nel XIV secolo, tramandato come opera giuridica falsamente attribuita a Bartolo da Sassoferrato, il "Processus Satane" è un processo simulato, in forma di dialogo, fra il diavolo, Cristo e la Madonna. Bollato come opera minore e pressoché ignorato dalla storiografia, il testo costituisce in realtà uno straordinario esempio di sincretismo culturale: il linguaggio della teologia serve al diritto come fonte di legittimazione, e di contro la costruzione escatologica e la stessa teoria della Salvezza sono impiantate su una struttura giuridica. In questa prospettiva, il "Processus Satane" viene qui riproposto come punto di osservazione ideale per cogliere le interazioni di una cultura poliedrica e complessa, insieme di teatro e di letteratura, di diritto e di teologia, di scuola e di piazza.
La Descriptio Hebreorum presentata in queste pagine è un documento di valore eccezionale per la storia della comunità ebraica romana: costituisce infatti l'unico "censimento" della popolazione ebraica residente nel ghetto di Roma fino a oggi conosciuto per il periodo che va dal 1555 (data della creazione del "claustro degli ebrei") al 1796 (anno a cui risalgono gli elenchi degli appartenenti alle singole Scole, che forniscono una cifra complessiva di 3.617 individui). Voluta dalle autorità pontificie per motivi fiscali e "scoperta" grazie all'incrocio tra i documenti conservati nell'Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma e nell'Archivio di Stato di Roma, la rilevazione venne effettuata tra il 27 luglio e il 17 agosto 1733. Compiuta strada per strada, casa per casa, essa numera e descrive tutte le famiglie e le persone di entrambi i sessi e di ogni età (per un totale di 4.059 individui e 892 nuclei familiari) che nell'estate del 1733 risiedevano nel ghetto di Roma. Si tratta di un documento di estremo rilievo anche per una valutazione complessiva della popolazione romana, all'interno della quale gli ebrei rappresentavano una presenza costante a partire dal II secolo a. C, ma che erano esclusi per motivi religiosi da quella fonte preziosa per lo studio della popolazione di età moderna costituita, per i cristiani, dai libri parrocchiali e in particolare dagli "stati delle anime", diffusamente redatti a partire dalla metà del XVII secolo.