"Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio" avverte Belli nell'Introduzione ai suoi Sonetti. E non si tratta di un eccesso di cautela: nei testi qui riuniti l'oltraggiosa, icastica violenza del romanesco belliano esplode, ad esempio, sino a ribattezzare con decine di sinonimi la "madre de le Sante", che non è affatto, come nell'inno manzoniano, la santa Chiesa, ma l'organo sessuale femminile. E di questi triviali, e insieme lietamente giocosi, sinonimi - quelli che affiorano alle labbra di "nnoantri fijjacci de miggnotta" - l'ultimo è, sarà un caso?, "ssepportura". Nel "Commedione" il motivo erotico, dell'impulso passionale, della gioia vitale, è infatti strettamente connesso a quello della cupa malinconia, della consapevolezza dell'effimero, sicché radunare e leggere insieme i versi amorosi e lugubri, sensuali e pensosi significa addestrarsi a una diversa percezione dell'intero corpus, rendersi conto, come nota Gibellini, che "sotto la tinta brillante dell'erotismo scanzonato o l'oscenità sguaiata sta il fondo scuro della meditazione, così come sul drappo buio della morte appressante, et ultra, ancora giunge, per memoria del passato o immaginazione dell'eterno futuro, il cono di luce della mondanità". Eros e Thanatos, Carnevale e Quaresima, sesso e fede convivono, dunque, sono facce della stessa abbagliante medaglia: come nel sorprendente "La bbella Ggiuditta"
Tra l'inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czeslaw Milosz dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e propria sfida letteraria: un poema che, eludendo le cornici di genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed enunciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra mondiale e gli orrori dell'occupazione nazista, con la rivendicazione di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare l'ambiente degli Stati Uniti, in cui Milosz, dopo aver contemplato l'abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la dimensione ideale per trovare serenità ed equilibrio, senza peraltro sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni cruciali del XX secolo. Il "Trattato poetico" ha la forza espressiva di un romanzo storico, l'intonazione nostalgica di un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte di un'epoca, l'accento pacato di una meditazione sulla storia, sull'arte, sulla coscienza individuale.
Appartenente a una famiglia dell'aristocrazia moscovita, Fèdor Ivanovic Tjutcev (1803-1873) fu diplomatico oltre che eminente poeta, e dopo aver iniziato la carriera nel Collegio degli Affari esteri di Pietroburgo operò come incaricato speciale a Monaco di Baviera - dove frequentò Heine, Schelling e gli ambienti del Romanticismo tedesco - e a Torino, dove visse dal 1837 al 1839. Nel 1836 alcune sue liriche furono pubblicate dalla rivista di Puskin "Il contemporaneo", suscitando i primi, ampi consensi. Nel 1844 tornò definitivamente in Russia, mentre la sua fama di poeta cresceva dopo i riconoscimenti tributatigli da Turgenev, Fet, Dobroljubov. Il suo universo poetico è un coacervo di visioni cosmogoniche e di rappresentazioni metafisiche che rispecchiano un dualismo di tipo manicheo: vi sono due mondi, il Caos e il Cosmo, e il secondo altro non è se non l'organismo vivente della natura, un'essenza viva e pulsante ma secondaria rispetto al Caos, l'unica vera realtà, di cui il Cosmo rappresenta un'effimera scintilla. La cosmogonia di Tjutcev si nutre di contrasti tra inaccessibili vertici di perfezione e desolate lande nordiche o spaventosi abissi dominati dal disordine notturno e dall'instabilità spettrale del fato. A questo mondo che non conosce la gioia del possesso, ma solo la perdita, la caduta, il rimpianto, e insieme la vertigine del solitario destino umano, dà voce la versione di Tommaso Landolfi, scrittore affine a Tjutcev per sensibilità e magistero poetico.
In questa ultima raccolta di Auden, scritta nel 1972 e uscita postuma due anni più tardi, il poeta creatore della poesia degli anni Trenta, passato per la Germania agli albori del nazismo, la Spagna della guerra civile e la Cina in fermento, quasi fuggito oltreoceano alla vigilia della seconda guerra mondiale, diventato cittadino americano e convertitosi al cristianesimo, pendolare poi per tante stagioni fra Ischia e gli Stati Uniti, residente a lungo in Austria -, torna a quella Oxford da dove era partito. E qui il vecchio Narciso, "finalmente libero dalla brama di altri corpi", con le sue carni ormai "quasi femminili", ringrazia anzitutto la Nebbia - "Sorella immacolata" dello Smog (conosciuto fin troppo bene a New York), "acerrima nemica della fretta" -, che dal suo cottage del Christ Church College ha avuto modo di riscoprire, apprezzandone di nuovo l'ovattata bellezza; scrive albate e notturni per gli amici, un discorso agli animali e un'ode al diencefalo, usa con disinvoltura sovrana metri, rime, misure, strofe e schemi d'ogni forma e sorta, parole desuete e tecnicismi, toni, registri e accenti i più disparati. Poi torna a ringraziare i poeti suoi maestri nell'arco di una vita: Hardy, Frost, Yeats, Graves, Brecht, per terminare con Grazio e Goethe.
Un certo Lord Petre ebbe l’ardire di tagliare surrettiziamente un ricciolo di Lady Arabella Fermor – e il gelo calò fra le due famiglie. Finché un giovane e già celebre poeta ricevette il delicato incarico di scrivere un testo che contribuisse a rasserenare gli animi. Futile occasione, si direbbe: se non che l’artista interpellato era il beffardo e geniale Alexander Pope, «piccolo usignolo» della Chiesa cattolica nell’Inghilterra settecentesca. Così solleticato, Pope compose un poemetto che per inventiva, passionalità ed estro poetico tocca punte di epicità omerica: non per niente lavorava a quel tempo a una memorabile traduzione dell’Iliade. La sua, però, è una guerra in miniatura, incentrata sull’eterna, risibile guerra dei sessi, dove l’infinitesimale, come in un reame gulliveriano – lo ha notato Peter Ackroyd –, giganteggia: «houppettes, nèi, ciprie, bibbie, billets-doux» recita un verso.
Inutile dire che Il ratto del ricciolo riscosse un immediato, immenso successo di pubblico e suscitò inviperite reazioni nella buona società. Ma Pope non era tipo da subire passivamente le rampogne. E per ribattere trovò la soluzione ideale: si sobbarcò alla – per così dire – pars deconstruens, e scrisse un commento che è una chiave di lettura ultratendenziosa della sua stessa opera nonché la satira di ogni pretesa interpretativa. Utilizzando argomenti «coerenti e inconfutabili», stigmatizzò la fobia papista che avvelenava il clima inglese, fustigò pedanti e petulanti – e inventò una nuova forma di autopromozione.
Un paio di decenni fa Iosif Brodskij ebbe a scrivere di Walcott: «Per quasi quarant’anni, senza sosta, i suoi versi pulsanti e inesorabili sono arrivati nella lingua inglese come onde di marea, coagulandosi in un arcipelago di poesie senza il quale la mappa della letteratura moderna assomiglierebbe, di fatto, a una carta da parati». Un arcipelago al quale, da allora, non hanno mai smesso di aggiungersi nuove isole, ma le cui coordinate sono rimaste immutate: dalle promesse giovanili di In una notte verde – imparare «a soffrire in giambici accurati», «lodare finché amore duri, i vivi e i morti bruni» – alle riflessioni sull’arte e sulla vecchiaia del Prodigo. Una dedizione totale alla poesia e una preoccupazione per la condizione umana nate dalla volontà di rimanere fedele a un’epifania precoce – magistralmente narrata nel poema autobiografico Un’altra vita – che, alla maniera di Dante, ha segnato e continua a segnare il corso di un’intera esistenza. Ripercorrere l’avventura letteraria di Walcott significa assistere al dispiegarsi di un dono poetico capace, come forse nessun altro ai nostri giorni, di coniugare il lampo lirico dell’istante «in cui ogni sfaccettatura» è «còlta in un cristallo di ambiguità» con il gesto aperto e impersonale dell’epica. Il risultato, sulla pagina, è un’opera di straordinaria versatilità formale, magnificenza linguistica e precisione metaforica, costantemente illuminata da una compassione ampia, come nei grandi poeti di ogni tempo.
Nell'arco di poco più di un decennio - da quel non troppo lontano 1996 in cui fu insignita del Premio Nobel per la letteratura - Wislawa Szymborska è diventata un autore di culto anche in Italia. Né questo vasto successo deve meravigliare. Grazie a un'impavida sicurezza di tocco, la Szymborska sa infatti affrontare temi proibiti perché troppo battuti - l'amore, la morte e la vita in genere, anche e soprattutto nelle sue manifestazioni più irrilevanti - e trasformarli in versi di colloquiale naturalezza e (ingannevole) semplicità. Il volume raduna l'intera produzione poetica della Szymborska, inclusa la recentissima raccolta "Qui", apparsa in Polonia nel 2009.
Nato nel cuore della Bielorussia e suddito dell'Impero russo, Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz non cessò mai di rivendicare l'antico lignaggio lituano; la sua lingua madre era il polacco, ma questo non gli impedì di diventare un grande poeta cosmopolita di lingua francese. Benché annoverato fra i simbolisti francesi tardivi, Milosz (così scelse di firmare i suoi libri) si sottrae a qualsiasi classificazione. E mentre ovunque si imponevano le Avanguardie e trionfavano gli esperimenti più bizzarri e le innovazioni più disperate, egli scelse di allontanarsi da quella che definiva una "pericolosa deviazione", destinata a suscitare tra il poeta e la "grande famiglia umana" una "scissione" e un "malinteso". Scissione e malinteso che hanno invece, troppo a lungo, oscurato la sua solitaria ricerca, così refrattaria alle curiose ricerche dell'io e così "appassionata del Reale", e oggi più che mai meritevole di uscire dalla ristretta cerchia degli iniziati.
Apparsa per la prima volta nel 2005, "Due punti" è l'ultima raccolta in versi della poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura nel 1996. La singolarità di queste poesie risiede nella densità e nello spessore della riflessione sulla vita e sulla morte. Una riflessione che contrassegna tutto il volume e che prende corpo in liriche di straordinaria concretezza ed efficacia.
La vita di Lermontov, breve, intensa, influenzata dal modello byroniano, si riflette in componimenti dominati da eroi solitari, da esclusi e proscritti alla costante ricerca di un riscatto. I poemi e le liriche qui raccolti delineano un panorama della sua opera dal 1828 al 1841, l'anno della morte, privilegiando i vertici della sua produzione poetica.
Nata nel 1911 e scomparsa nel 1979, Elizabeth Bishop è considerata una delle grandi figure della poesia del Novecento. Questo volume comprende quasi tutta la sua produzione poetica (sono escluse soltanto alcune prove giovanili). Il suo mondo poetico, composto di parole familiari, domestiche, spoglie, illuminanti, crea un gioco di iridescenze, un prisma di lacrime, di squame, di chiazze di benzina, miracolo che si schiude dalla finestra della pagina, una delle tante "gabbie per l'infinità".
Nel brevissimo spazio di quattro anni, fra il 1928 e il 1932, il gruppo che si stringe attorno ai ventenni Daumal e Gilbert-Lecomte, uniti da "mille affinità mistiche", intraprende una ricerca che, partendo da una lettura della Bhagavadgita e dei maestri vedantici, li condurrà a prendere le distanze dal surrealismo e dalle sue facili ricette e a perseguire, attraverso il superamento del limite e la liberazione dalle costrizioni dei sensi, una "caccia alla visione interiore". Il volume, curato da Claudio Rugafiori, raccoglie i testi dei due fondatori della rivista Le gran jeu, tra le più dirompenti ed esoteriche che il secolo delle avanguardie storiche abbia prodotto.