Sin dal suo inizio storico la filosofia è stata la volontà di incarnare il sapere assolutamente innegabile. Ma come è possibile «la stabile conoscenza della verità», si chiede Emanuele Severino, «in un clima come quello del nostro tempo, dove non solo la scienza, ma la filosofia stessa ha quasi ovunque voltato le spalle a ciò che essa ritiene il "sogno" di un sapere siffatto». In realtà, già nel modo in cui la «scienza della verità» compie i primi passi è presente l'errare più radicale in cui l'uomo possa trovarsi, quello che per Severino è la Follia estrema: «la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono ... affermando che l'evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano». Tutta l'opera di Severino, sin dal suo primo libro ("La struttura originaria", 1958), è volta dichiaratamente allo «smascheramento della Follia di questa fede», per «consentire al linguaggio di testimoniare l'assoluta innegabilità del destino della verità». E in queste pagine l'intero percorso viene ripresentato nell'insieme dei suoi tratti fondativi, con l'approfondimento di alcuni temi centrali quali l'interpretazione, il rapporto tra destino e scienza, l'essenza linguistica del sapere originario, il senso ultimo dell'esser uomo e la storia infinita dell'uomo, il senso della salvezza. Un percorso, dunque, attraverso l'intero 'terreno' di Severino, da cui il lettore potrà spaziare con lo sguardo: «Non basta possedere un campo: bisogna coltivarlo. Il campo di cui qui si tratta è l'insieme dei 'miei scritti'. Un linguaggio, dunque. E anche questo libro intende indicare l'autentica "pianura della verità"».
Machiavelli, Pascal: un accostamento inatteso, per più versi sorprendente. Machiavelli, frugando nella biblioteca di suo padre, scopre la casistica medievale e mette il rapporto tra la norma e l'eccezione al centro di un mondo inventato (la "Mandragola") e di quello in cui vive e agisce ("Il Principe"). Pascal, feroce avversario della casistica (soprattutto quella dei gesuiti), legge Machiavelli attraverso la lente di Galileo, e la realtà del potere attraverso Machiavelli. Un viaggio negli intrichi della lettura, sulle tracce di due lettori straordinari - e dei loro interlocutori, avversari, seguaci. Vi si affacciano personaggi famosi (Campanella, Galileo) visti dal loro censore, il domenicano Niccolò Riccardi, detto «Padre Mostro»; e personaggi meno noti, come Johann Ludwig Fabricius, al quale una lettura obliqua delle "Provinciali" di Pascal consente di proporre un'immagine inedita del «religiosissimo» Machiavelli. Un invito a leggere tra le righe, lentamente, testi cifrati, spesso criptici. Per anni Carlo Ginzburg ha lavorato su casi molto diversi tra loro, tutti però fortemente anomali. L'incontro con la casistica - ossia la tradizione, all'incrocio tra teologia e diritto, che riflette sulla tensione tra norma e anomalia, a partire da casi specifici - era forse inevitabile. Un tema insieme lontanissimo e vicino: ferita a morte da Pascal e resuscitata dalla bioetica, la casistica non smette di interrogarci, nei suoi risvolti tragici o grotteschi.
Benché mammiferi e uccelli siano unanimemente considerati le creature più intelligenti, si va imponendo una diversa, sorprendente, evidenza: da un ramo dell'albero della vita assai distante dal nostro è nata una forma di intelligenza superiore, i cefalopodi - ossia calamari, seppie e soprattutto polpi. In cattività, i polpi sono in grado di distinguere l'uno dall'altro i loro guardiani, di compiere scorrerie notturne nelle vasche vicine per procurarsi del cibo, di spegnere le luci lanciando getti d'acqua sulle lampadine, di mettere in atto ardite evasioni. Com'è possibile che una creatura tanto dotata abbia seguito una linea evolutiva così radicalmente lontana dalla nostra? Il fatto è - ci rivela Peter Godfrey-Smith, indiscussa autorità in materia e appassionato osservatore sul campo - che i cefalopodi sono un'isola di complessità mentale nel mare degli invertebrati, un esperimento indipendente nell'evoluzione di grandi cervelli e comportamenti complessi. E probabile, insomma, che il contatto con i polpi sia quanto di più vicino all'incontro con un alieno intelligente ci possa mai capitare. Ma Godfrey-Smith tocca in questo libro un altro punto capitale: nel momento in cui siamo costretti ad attribuire un'attività mentale e una qualche forma di coscienza ad animali ben distanti da noi nell'albero della vita, dobbiamo anche ammettere di non avere certezze su che cosa sia la nostra coscienza di umani. E forse questa via è una delle migliori per arrivare a capirlo.
«Come Nietzsche aveva riconosciuto in Wagner il suo unico antagonista esistente e con ciò gli aveva tributato il più grande onore, così Heidegger ha dedicato a Nietzsche il suo scritto più articolato che tratti di un pensatore moderno, anche se in questo caso cronicamente inattuale, dandogli il supremo onore di definirlo “l'ultimo metafisico dell'Occidente”. E come Nietzsche si distacca in tutto dagli oppositori di Wagner, così Heidegger non ha molto a che fare con tutte le generazioni di critici e biasimatori di Nietzsche – è molto di più, è l'unico che risponda a Nietzsche».
«Così, dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie, nel febbraio o marzo del 1893, meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria ... che fu come una rivelazione di me a me stesso» scrive Croce in "Contributo alla critica di me stesso". In effetti, a partire da questa «memoria» fervidamente antipositivistica ? volta a confutare le tesi di storici come Droysen e Bernheim ? Croce si libera dal suo passato, dalla «scrittura di erudizione» come lui stesso la definiva, e, nell'affrontare le complesse relazioni fra arte, scienza e storia, scopre la sua vera vocazione: l'interesse, prepotente, per le questioni teoriche e le indagini storiche di più ampio respiro. Leggendola, ritroveremo non solo «la facilità e il calore» con cui Croce la compose, ma tutta la forza dimostrativa di uno stile ineguagliabile.
L'interesse di Heidegger per Aristotele, testimoniato da questo corso universitario che il filosofo tenne nel 1924, si colloca nel periodo cruciale dell'elaborazione dell'analitica ontologico-esistenziale di Essere e tempo. In particolare, nell'analisi della Retorica aristotelica compaiono già, in nuce, alcuni 'concetti fondamentali della filosofia heideggeriana' - come "Dasein" (esserci) , "In-der-Welt-sein" (essere nel mondo) e "Befindlichkeit" (il sentirsi situato, la situatività, e anche la situazione emotiva) - destinati a lasciare un segno indelebile nella filosofia del Novecento. Ma, soprattutto, Heidegger si impegna qui - come raramente in seguito - in una brillante fenomenologia dei "pàthe", delle «passioni», e del ruolo determinante che esse svolgono nella vita e nell'esistenza dell'uomo. La messa in questione del tradizionale privilegio accordato agli atti intellettivi superiori che questo implica suggerisce l'idea che siano costitutivi dell'uomo, allo stesso titolo della ragione, anche gli elementi 'inferiori', quali la sensibilità, le affezioni e le passioni.
Sussiste nell'Islam una corrente esoterica - il Sufismo - in cui si manifesta quella philosophia perennis che contraddistingue tutte le grandi civiltà orientali, e che mostra un'intima sintonia anche con il patrimonio spirituale del Medioevo cristiano. Questo libro esplora sinteticamente i cardini di quel pensiero, e mette in luce, attraverso un'ampia scelta di testi e ricorrenti paralleli con altre culture, la fondamentale affinità di dottrine metafisiche assai distanti tra loro, ma che riguardo a verità universali si esprimono in termini affini.
Gli scritti di Severino indicano un senso della "storia" profondamente diverso da quello presente nelle varie forme di cultura: nel suo significato più radicale la storia è l'infinito e sempre più ampio apparire degli eterni in ognuno dei "cerchi dell'apparire del destino della verità". Ogni cerchio è l'essenza di ciò che chiamiamo "un uomo". Gli eterni, quindi, non sono res gestae. Che esistano res gestae - cose che son fatte esistere e che escono poi dall'esistenza - è la "follia estrema". Solo gli eterni hanno Storia, solo essi possono "morire" e rimanere eterni: la loro Storia prosegue all'infinito anche dopo la loro morte. La totalità infinita degli eterni è la Gioia, la Pianura che dà spazio all'infinito, e sempre più ampio, apparire degli eterni nella "costellazione" dei cerchi.
Molto tempo prima che venisse coniato il semplicistico termine di «globalizzazione», Carl Schmitt aveva visto, con lucidità profetica, come «l'universalismo dell'egemonia anglo-americana» fosse destinato a cancellare ogni distinzione e pluralità spaziale in un «mondo unitario» totalmente amministrato dalla tecnica e dalle strategie economiche transnazionali, e soggetto a una sorta di «polizia internazionale». Un mondo spazialmente neutro, senza partizioni e senza contrasti – dunque senza politica. Per Schmitt non il migliore, ma il peggiore dei mondi possibili, sradicato dai suoi fondamenti tellurici. Fedele alla justissima tellus, Schmitt persegue invece l'idea che non possa esservi Ordnung (ordinamento) mondiale senza Ortung (localizzazione), cioè senza un'adeguata, differenziata suddivisione dello spazio terrestre. Una suddivisione che superi però l'angustia territoriale dei vecchi Stati nazionali chiusi, per approdare al «principio dei grandi spazi»: l'unico in grado di creare un nuovo jus gentium, al cui centro ideale dovrebbe tornare a porsi l'antica terra d'Europa, autentico katechon di fronte all'Anticristo dell'uniformazione planetaria nel segno di un unico «signore del mondo». Certo è che la prospettiva di Schmitt, già delineata ottant'anni fa, appare oggi più attuale che mai, e il suo pensiero si conferma come essenziale per la lettura della nostra epoca. Lo testimonia eloquentemente questa ampia raccolta di saggi, che, scritti nell'arco di un cinquantennio – da Il concetto del politico (1927) a La rivoluzione legale mondiale (1978) –, compongono una vera e propria summa della sua speculazione sulla politica e il diritto internazionale.
La parola dike, comunemente tradotta con "giustizia", nasce in un contesto religioso e poi giuridico, ma ha in realtà un significato più profondo, che compare per la prima volta nella più antica testimonianza del pensiero filosofico: il frammento di Anassimandro. Si può dire che l'avvento della filosofia coincida con l'avvento di tale significato - quello che Aristotele chiama "il principio più stabile". Dike designa l'incondizionata stabilità del sapere. E richiede la stabilità incondizionata dell'essere. Riguarda tutto ciò che l'uomo può pensare e può fare. In rapporto con essa si svolge l'intera storia dell'Occidente. Se nel "Giogo" Severino aveva puntato l'attenzione sulla conseguenza decisiva per l'uomo della tradizione occidentale, resa esplicita da Eschilo, ovvero che l'incondizionata stabilità del sapere e dell'essere è il "vero" rimedio contro il dolore e la morte, e sul rapporto tra Eschilo e Anassimandro, in questa sua nuova opera si volge invece verso le radici di quel significato. Soprattutto perché dike e l'Occidente, che ne è dominato, sfigurano il volto della stabilità autentica: il volto del destino della verità. Affrontando il rapporto tra il puro volto del destino e il suo volto sfigurato da dike, questo libro compie alcuni passi avanti rispetto agli scritti precedenti, da cui pure trae origine.
All'origine dei diversi discorsi, molti dei quali "alla moda", sulla "fine della filosofia" che, almeno da Nietzsche, caratterizzano tanto pensiero dell'Occidente, sta la "sentenza" hegeliana: che la philosophia cessi di chiamarsi "amante" e si affermi finalmente come puro sapere, Sophia ovvero Scienza. Amore e Sapere debbono dirsi addio. Che il "sophós" dismetta il suo abito di eterno pellegrino e fissi la sua dimora. E questo il destino della nostra epoca? O ancora vi è "ciò" che non possiamo esprimere, rappresentare, indicare se non amandolo? Il discorso filosofico-metafisico porta in sé la traccia di questa tensione, e proprio là dove affronta il suo problema, la sua aporia costitutiva: che l'ente è, che nella sua singolare identità mai coincide con le determinazioni che il lògos ne predica, che la sua sostanza non può disvelarsi nella finitezza del suo apparire. Ogni ontologia deve basarsi su questa differenza - non differenza tra essere ed essente, ma differenza immanente alla realtà dello stesso essente, e in particolare proprio di quello straordinario essente che ha corpo e mente. Oltre l'esercizio sempre più vacuo delle decostruzioni, oltre gli astratti specialismi, oltre le accademie e le scuole, sarà a tale problema, eterno "aporoúmenon", e al "timore e tremore" che suscita, che questo libro intende fare ritorno, ascoltando alcuni grandi classici della tradizione metafisica, per svilupparlo ancora una volta.
In un indimenticato film di fantascienza degli anni Sessanta, Viaggio allucinante, un manipolo di scienziati-eroi, sottoposto a un processo di miniaturizzazione che lo riduce a dimensioni microscopiche, intraprende un periglioso viaggio, a bordo di un sottomarino, all'interno di un corpo umano vivente. Qualcosa di simile ci offre questo libro di González-Crussí. E non sarà solo un percorso attraverso i mondi strabilianti della nostra anatomia, ma anche un itinerario, fitto di sorprese, nella storia della cultura - tra medicina e filosofia, letteratura e psicologia -, accompagnati da un autore capace di regalarci a ogni passo aneddoti irresistibili (Spallanzani che per dimostrare la validità delle proprie teorie sui succhi gastrici ricorre all'empirismo più radicale: ficcandosi due dita in gola), racconti ai limiti dell'incredibile (il rude trapper che, quasi sventrato da un colpo di fucile, diventa una preziosissima cavia per l'indagine diretta del processo digestivo), osservazioni sul filo dell'ironia (per almeno cinque secoli i teologi si arrovellarono intorno a questo dilemma: quando il Cristo incarnato assunse la natura umana, proprio tutte le funzioni corporali divennero attributo della divina persona?).