Molteplici e differenti sono i temi di questo libro. Tutti però trovano unità in una radice comune suggerita dalle allusioni bibliche a cui il titolo rimanda. Si dice in un passo molto noto del libro di Isaia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e averla fatta germogliare perché dia il seme al seminatore e il pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e aver compiuto ciò per cui l’ho mandata». L’immagine mostra l’efficacia della Parola di Dio nella storia: è creatrice, forza di vita, costruttrice di futuro. È anche Parola che viene dall’alto, non dall’uomo. Sta proprio qui il motivo della sua efficacia e della sua capacità di trovare vie da noi ritenute impraticabili o addirittura sbagliate. La Parola di Dio proviene da un mistero, ne rende consapevole l’uomo, senza dissiparlo: le sue vie non sono le nostre vie. Fra la Parola di Dio e i progetti degli uomini resta una tensione insuperabile. L’efficacia della Parola è libera, tutta nelle mani di Dio, da accogliere, non da progettare e pretendere. Questa caratteristica ha preso forma compiuta nel Vangelo di Gesù, definito da Paolo «potenza di Dio»: anch’essa ben diversa da come l’immaginano gli uomini. Non è infatti esplicita, dirompente e manifesta come il potere esercitato dall’uomo. Ha piuttosto la figura ‘debole’ e inerme della Croce, dove si è rivelato per sempre l’amore di Dio. Esso solo, paradossalmente, è la forza che crea, rinnova e trasforma il mondo. Alla fede si può essere generati solo così, non affidandosi alla potenza dei miracoli né alla scaltrezza della sapienza umana. Questo la predicazione della Chiesa deve costantemente tenere presente. È la condizione essenziale perché la fede cristiana possa avere un futuro: quello di Dio.
Bruno Maggioni è nato nel 1932 a Rovellasca (Como) e dal 1955 è sacerdote della diocesi di Como. Ha studiato teologia e scienze bibliche all’Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Biblico di Roma. È docente di Esegesi del Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale di Milano e di Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui: Il vangelo di Giovanni (Assisi 1985); Il racconto di Marco (Assisi 1985); Il racconto di Matteo (Assisi 1986); Uomo e società nella Bibbia (Milano 1991); La vita nelle prime comunità cristiane (Roma 1991); Le parabole evangeliche (Vita e Pensiero, Milano 1992); I racconti evangelici della Passione (Assisi 1994); Padre nostro (Vita e Pensiero, Milano 1995); La pazienza del contadino (Vita e Pensiero, Milano 1996); La brocca dimenticata (Vita e Pensiero, Milano 1999); Davanti a Dio. I salmi 1-75 (Vita e Pensiero, Milano 2001); Davanti a Dio. I salmi 76-150 (Vita e Pensiero, Milano 2002); Il seme e la terra (Vita e Pensiero, Milano 2003); Un tesoro in vasi di coccio (Vita e Pensiero, Milano 2005).
Nella nostra cultura il ‘timore’ non gode di buona fama: è visto come sintomo di disagio o come segno di inferiorità da superare. Anche il linguaggio della spiritualità cristiana tende a fare a meno di questa parola antica, che sembra collegata a un’immagine di Dio ‘fredda’, segnata da una trascendenza arcigna, distante dal Dio d’amore che ci salva in Gesù Cristo.
In questo libro, Benoît Standaert non solo restituisce al timore il posto che la tradizione sapienziale gli ha assegnato, ma va ancor più in profondità. Il timore, sottolinea, è una realtà preziosissima: come recita il titolo, che riprende un versetto del libro di Isaia, «il timore di Dio è il suo tesoro», esperienza di rara ricchezza per il credente.
Lontano da quella paura che non appartiene alla fede cristiana, il timore è la disposizione dello spirito che non si ritiene il principio ordinatore di ogni cosa, ma riconosce nell’Alterità di Dio la fonte inesauribile di una vita sempre nuova, diversa dagli schemi in cui fatalmente si tende a rinchiuderla. Il timore è lo spazio rispettoso tra i due termini dell’Alleanza: l’uomo e Dio. È la caratteristica di uno spirito sveglio, teso alla sapienza del vivere mai completamente posseduta.
Questo tema possente e ‘inattuale’ è affrontato da Standaert nella forma di una raccolta epistolare. Ventuno lettere, di diversa lunghezza, indirizzate a una giovane interlocutrice, l’adolescente Nathalie, che nel suo cammino di preparazione alla cresima diventa icona e simbolo di tutti coloro che si accostano all’iniziazione cristiana. Il tono colloquiale, sostenuto dalla forza di una scrittura appassionata, rende pienamente godibile questa «passeggiata attraverso trenta secoli di letteratura». Ogni lettera è l’occasione per un incontro nuovo sul tema del timore di Dio, non solo nel solco della Scrittura (dai Salmi a Isaia, dal Siracide al Deuteronomio, dal vangelo di Marco alla prima lettera di Giovanni), ma anche nell’esperienza di uomini e donne che hanno «distillato l’altissima qualità» del timore (da san Benedetto ai padri del deserto, dagli eremiti di Gaza alla mistica Giuliana di Norwich, da san Francesco ai dodici patriarchi), senza tralasciare gli stimoli che provengono dalla tradizione giudaica, dalla pratica musulmana, e perfino dalla dottrina zen.
Ogni pagina di questo libro è concepita come un ‘esercizio’, e l’opera intera come un‘allenamento’ da praticare su quel «cammino di felicità che si apre per colui che si applica al timore di Dio».
Benoît Standaert (1945), monaco benedettino dell’abbazia belga di Zevenkerken (Brugge), è uno tra i più innovativi e pensosi esperti di spiritualità biblica. È autore di diversi volumi tradotti in italiano, tra cui: Il Vangelo di Marco (Roma 1984); Pregare il padre nostro (con O. Clement, Magnano Vercellese 1988); Le tre colonne del mondo. Vademecum per il pellegrino del XXI secolo (Magnano Vercellese 1999); Lo spirito dell’apostolo. Quando il mistero ha un’anima (con C.M. Martini e G. Danneels, Milano 2002); Come si fa a pregare? Alla scuola dei salmi, con parole e oltre ogni parola (Vita e Pensiero, Milano 2002).
L’amicizia come «dono» va offerta e ricevuta, come «tesoro» è da ricercare e da custodire. Implica una comunione spirituale, che ha le sue sorgenti nelle ricchezze razionali, affettive, spirituali della persona. È una virtù indispensabile per la vita e la sua felicità; un bene prezioso, che però sembra condiviso da pochi, essendo paghi i più delle conoscenze e delle varie compagnie che non attingono mai l’intimità o la profondità dell’anima. L’amicizia è la «forma etica» dell’amore, da non confondere con la sua «forma erotica»: due sentimenti attigui, ma tali da esigere una formazione distinta. È un fenomeno complesso, appartenente alla ricchezza insondabile del soggetto; per questo sfugge in parte alla sua intelligibilità. Nasce e si struttura nella libertà ed eticità, presenta aspetti singolari collegati agli stadi evolutivi, al genere, alla formazione individuale, al contesto culturale in cui si sviluppa.
Le caratteristiche dell’amicizia sono note: è un vincolo tra persone animate da spirito di mutua dedizione; è una comunità di vita, fondata sulla benevolenza; esige la reciprocità, l’incontro, la frequentazione. Allo stesso modo sono conosciute le sue funzioni: sollecita i bisogni cognitivi e spirituali; sviluppa capacità di rapporti intimi; appaga bisogni di sicurezza e di felicità; favorisce l’equilibrio psicologico. Specifici sono anche i beneficii arrecati: agevola la conoscenza di sé e dell’altro; avvia al dialogo; affina l’ascolto; infonde gioia e serenità; educa il carattere ed il senso morale. L’amicizia pone altresì doveri, come la franchezza e la fiducia, l’integrità e l’ascesa alla perfezione; l’apertura all’ambiente e alle sue necessità sociali e civili.
Come possibile «stato ideale dell’esistenza» è da avvalorare in tutti i suoi aspetti, affinché diventi aiuto e consolazione in tutte le fasi della vita: per questo è necessaria la mediazione educativa.
Norberto Galli, già ordinario di Pedagogia generale dell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, è direttore della rivista bimestrale Pedagogia e Vita pubblicata dall’Editrice La Scuola di Brescia.
È possibile essere ancor oggi contemporanei di Gesù? Come comprendere il Signore nella sua figura viva e non quale ricordo muto e sbiadito? Queste domande interrogano la coscienza credente che, soprattutto nell’epoca attuale, rifugge da mediazioni troppo astratte e generali. In una fase culturale in cui credere sembra essere particolarmente difficile, la fede si pone alla ricerca di un solido contatto con il proprio fondamento vivente; e la possibilità di ‘divenire contemporanei a Gesù’ viene percepita con acutezza quale condizione del realizzarsi di una fede convincente. In tale contesto risuona con immutata attualità l’intuizione di S. Kierkegaard: «Fin quando esiste un credente, bisogna ch’egli sia contemporaneo della Sua presenza». Essa costituisce la provocazione che origina gli Esercizi di cristianesimo qui raccolti. Il termine ‘esercizi’ allude al fatto che diventare contemporanei di Gesù non è impresa facile, ma esige un lungo tirocinio, un allenamento tenacemente ripetuto. Si tratta però di un esercizio ‘sul campo’ o, meglio, ‘nel corpo’ vivo del lettore, che è invitato a seguire le vicende dei discepoli, riscoprendo come il testo evangelico sia scritto per i lettori futuri e quindi anche per sé. Mediante la partecipazione alla trama narrativa dei vangeli, il lettore è gradualmente coinvolto nelle vicende del discepolato: questo vuole ottenere il testo evangelico, e questo si propone anche il libro di Franco Giulio Brambilla. Esso vuol motivare la convinzione che oggi, come accadde per Kierkegaard e per l’ininterrotta catena di testimoni che ci legano alle origini della salvezza, non c’è altro modo per divenire credenti che ricercare la contemporaneità di Gesù, sperimentando il cammino del discepolo.
Franco Giulio Brambilla, nato a Missaglia (Lc) nel 1949, è sacerdote della diocesi di Milano. Ha perfezionato i suoi studi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, con un lavoro su La cristologia di Schillebeeckx (1989). Attualmente insegna Cristologia e Antropologia teologica alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e nella Sezione Parallela del Seminario di Venegono Inf. (Va), della quale è anche direttore. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Cristo Pasqua del cristiano (1991); Il Crocifisso Risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli (19992) e diversi saggi apparsi su «La Scuola Cattolica», «Teologia» e «Rivista del Clero Italiano», a proposito di temi di cristologia, antropologia e pastorale.
L’immagine che dà titolo al libro è tratta dal vangelo di Luca, là dove Gesù afferma: «Nessuno che abbia messo mano all’aratro e poi si volga indietro è adatto per il regno di Dio». Il monito oggi suona attuale non solo per il lamentoso cristianesimo della nostalgia (ormai in regresso), ma soprattutto per un certo irresoluto cristianesimo che sempre attende le condizioni per decidersi e finalmente dedicarsi alla causa di Gesù. Esso è tipico di un tempo di transizione come il nostro, tempo di identità flebili e incapaci di nominare cose che possano valere un’intera vita e non soltanto provvisori esperimenti del ‘bene’. In che modo la fede cristiana può richiamare a una verità che giustifica la nostra destinazione alla vita? Gli umani, infatti, desiderano una vita buona e felice. Così sono stati creati da Dio. La convinzione radicale di Gesù è che questo desiderio coincide esattamente con quello di Dio stesso. È questa la buona notizia: Dio non è come alcuni se lo immaginano. Non è il Dio del risentimento o della rappresaglia. Non è un Dio distante. La verità di Dio e del suo desiderio è quella che l’evangelo di Gesù rivela una volta per sempre: che i ciechi vedano, gli zoppi camminino, i peccatori vengano perdonati, i poveri contino. Questi protagonisti che popolano la scena evangelica rendono evidente per tutti che cosa significa poter di nuovo respirare sotto lo sguardo di Dio. Ciò che consente loro di essere riconosciuti e di trovare un senso alla vita è che su di essi si posa l’ombra unilaterale della tenerezza di Dio e della sua passione che nulla può arrestare. Le meditazioni qui proposte da Sequeri per questi tempi forti di transizione collocano al centro delle molte questioni che oggi più o meno propriamente occupano la Chiesa il tema più semplice e radicale: Dio e il suo vero volto. Su di esso si deve concentrare la cura dei discepoli. Per alzare lo sguardo verso il futuro della promessa che non delude, alla quale vale la pena di dedicare i propri giorni, senza mai volgersi indietro. Il resto verrà da sé.
PierAngelo Sequeri, nato a Milano nel 1944, è docente di Teologia fondamentale alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. È anche direttore del Laboratorio di Musicologia Applicata di Milano. Nell’ambito della sua ricerca e delle sue pubblicazioni in opere e riviste specializzate è prevalente l’interesse per le questioni di confine tra filosofia e teologia, psicologia e teologia, estetica e teologia. Fra gli scritti più recenti: L’oro e la paglia, Milano 1990; (con A. Torno) Divertimenti per Dio. Mozart e i teologi, Casale Monferrato 1992; L’indicibile emozione del sacro: R. Otto, A. Schönberg, M. Heidegger, Milano 1993; Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993; Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Brescia 1996; L’estro di Dio. Saggi di estetica, Milano 2000.
I temi qui trattati riguardano l'influsso che il linguaggio religioso esercita sulla comunicazione umana. La questione viene esaminata nei tre ambiti della preghiera, orale o a stampa, in dialetto o in lingua; dell'oratoria sacra, dal Cinquecento all'Ottocento; e delle relazioni estatiche, sotto le forme dell'autobiografia, del diario e della trascrizione in diretta dalla dizione orale. Il confronto tra preghiera, predicazione e dettame mistico chiarifica le caratteristiche del discorso religioso cristiano. Esso trova fondamento e norma nell'incarnazione del Verbo di Dio dentro la caducità e molteplicità delle lingue umane; perciò, ogni enunciato che abbia Dio quale termine od oggetto deve conformarsi al discorso che Dio ha usato per comunicare se stesso all'uomo. In particolare, i saggi di Giovanni Pozzi scandagliano il singolare rapporto dialettico tra oralità e scrittura che connota i diversi modi in cui la lingua cristiana si esprime. Tale dinamismo pertiene alla natura stessa della nostra tradizione religiosa, a partire dal suo documento d'origine, la Bibbia, che è scrittura generata da parole e insieme generatrice di parole.
Nei Vangeli l'immagine del contadino evoca con efficacia alcune fondamentali qualità del cristiano e della sua testimonianza nella storia. Attraverso di esse si realizza la fedeltà dei credenti alla logica singolare di Dio e del suo Regno. La metafora del contadino esprime anzitutto la fiducia insita nel gesto di chi semina con generosità e senza calcolo: dalla piccolezza del seme verrà in futuro la copiosità del raccolto. Così è della parola di Dio, il cui annuncio, inerme e povero, a suo tempo darà infallibilmente frutto. Ma questo prodigio avviene nel segreto della terra, durante il tempo invernale, quando al contadino, forzatamente inoperoso, è chiesta la confidente pazienza dell'attesa: il seme del Regno cresce nella storia grazie alla potenza di Dio, che resta nascosta. Questa consapevolezza libera il cristiano dalla presunzione, e dall'affanno, di far dipendere il destino del Vangelo dalle proprie capacità. Tale visione di fondo, non del tutto ovvia, ispira questo libro di Bruno Maggioni, offrendo sagge "note di cristianesimo per questo tempo di cristiani frettolosi e ansiosi di vedere, tesi a molti progetti e impazienti verifiche, ma poco capaci di attesa". Il discepolo invece si fida di Dio.
I territori della mistica si presentano talmente ampi e indeterminati da apparire a prima vista refrattari a qualunque tentativo di ricostruzione sistematica. Con la storia della mistica occidentale Kurt Ruh offre la prima sintesi complessiva di questo ambito di conoscenza del divino, strettamente correlato alla teologia e alla spiritualità. L'esperienza di Dio propria dei mistici avviene nel rapimento, nella visione, nell'estasi d'amore; posto in tal modo dinanzi ai "misteri che - afferma san Paolo - non è dato all'uomo di proferire", il mistico avverte tuttavia l'urgenza di comunicare ciò che ha provato, consegnandolo a un testo scritto. Nasce così una tradizione di straordinaria ricchezza, anche letteraria: "Ci sono lingue della mistica cristiana occidentale, c'è la lingua dei mistici, e c'è il linguaggio mistico". A questo riguardo la svolta decisiva si compie nel Medioevo centrale, quando, grazie soprattutto alla mistica femminile, avviene il passaggio dal latino ai volgari. La lingua e il linguaggio si forgiano invece nei secoli precedenti: sforzandosi di dire l'indicibile, i grandi "fondatori" creano categorie, una terminologia e uno stile destinati a durare nella storia religiosa dell'Occidente cristiano. In questo primo volume viene appunto ricostruito il percorso che da Dionigi Aeropagita a Agostino giunge, attraverso Gregorio Magno e Giovanni Eriugena, sino alle grandi scuole del XII secolo: i certosini; i cistercensi, con Bernardo di Clairvaux...