In un mappa universale del genio artistico, è facile immaginare il nome di Leonardo da Vinci in un luogo assai vicino al centro. Eppure, i dipinti attribuiti con certezza alla sua mano non arrivano a venti: un numero davvero esiguo anche per un maestro antico. Non è strano allora che da decenni studiosi e mercanti in tutto il mondo vadano alla ricerca dei suoi capolavori perduti. C’è solo un’opera, però, che sembra condensare tutte le loro ossessioni.
È il Salvator Mundi, ieratica immagine di Cristo dipinta per Luigi XII quando il re di Francia, insieme al ducato di Milano, strappa a Ludovico il Moro anche i servigi di Leonardo, pittore e ingegnere di corte. Se questa piccola tavola – solo 65 centimetri per 45 – fosse rimasta nelle collezioni reali francesi, forse sarebbe da secoli esposta al Louvre; il suo destino, invece, è molto più avventuroso. Portato in Inghilterra come dono per le nozze fra Henrietta Maria di Borbone e Carlo I Stuart, il Salvator Mundi sopravvive ai tumulti delle Rivoluzioni inglesi; viene donato da Giacomo II a una sua spregiudicata amante; viene ereditato, venduto, restaurato, ridipinto al punto da scomparire, lasciando dietro di sé solo la lunga scia di copie dei pittori leonardeschi, e una riproduzione seicentesca dell’incisore boemo Wenceslaus Hollar.
Fino al 2005, quando un dipinto comprato in Louisiana per poche migliaia di dollari viene sottoposto a una radicale pulitura che lascia sbalorditi: quella che emerge sotto la crosta di vernici e ridipinture sembra proprio la mano di Leonardo. Per alcuni esperti è questo l’originale, il primo Salvator Mundi. Di certo, è questa l’opera che il 15 novembre 2017, nella sede newyorkese della casa d’aste Christie’s, viene aggiudicata per 450 milioni di dollari. Petrodollari, per la precisione: Cristo passa dalle mani di un oligarca russo proprietario della squadra di calcio del Monaco a quelle degli Emiri. A ospitarlo sarà il nuovissimo Louvre di Abu Dhabi.
Con il rigore dello storico d’arte e la sensibilità del romanziere, Pierluigi Panza ricostruisce la storia, gli intrighi e i segreti del quadro più costoso del mondo, dipanando i fili di un mistero che lega in modo imprevedibile due mondi: quello del glorioso passato europeo popolato di nobili, artisti e cortigiani, e quello attuale, dominato da capitali finanziari e nuovi ricchi sedotti dall’ambiguo potere delle immagini.
L’idea di procedere all’edizione di un nuovo catalogo scientifico delle sculture dei Musei Capitolini è nata nel contesto dei profondi cambiamenti che hanno interessato il Campidoglio negli anni a cavallo del Giubileo del 2000 e ha risposto all’esigenza di dare avvio a un necessario e sistematico aggiornamento dei due volumi curati da Henry Stuart Jones e dedicati al Museo Capitolino del Palazzo Nuovo (1912) e al Palazzo dei Conservatori (1926). Il nuovo catalogo, edito in più volumi a cura di Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce, si ispira all’edizione novecentesca nella ripresa dello schema della descrizione secondo l’odierna collocazione delle sculture e parte dalla trattazione degli allestimenti del Palazzo Nuovo in Campidoglio. Il primo volume della serie, pubblicato nel 2010, è stato dedicato alle statue del piano terra, dello scalone e della Sala del Galata. Il secondo raccoglie le opere conservate nella Sala del Fauno e nel Salone, tra cui si segnalano alcune delle sculture più celebri delle collezioni capitoline, quali il Fauno in rosso antico, i due Centauri Furietti e l’Amazzone ferita opera di Sosikles. Approfondite schede scientifiche, destinate a diventare punti di riferimento indispensabili per le future ricerche sulle sculture capitoline, sono accompagnate da un ricco apparato di eleganti fotografie in bianco e nero. Ciascuna sezione del catalogo, inoltre, è aperta da inedite foto di sala capaci di restituire a pieno il fascino degli allestimenti storici del Museo.
I saggi raccolti in questo volume sono firmati da un gruppo di studiosi e specialisti della Roma medievale che analizzano il percorso della figuratività romana quale storia di lunga durata, in costante dialettica fra tradizione e innovazione. La trasformazione di Roma dall'era antica a quella cristiana viene colta nel passaggio dal «ritratto» - genere caratteristico dell'antichità e della tarda antichità - alle «icone» che hanno popolato i luoghi di culto romani, svolgendo un'importante funzione pubblica e politica. Il volume si sofferma su alcuni fra i temi portanti della cultura pittorica romana: la decorazione absidale quale nucleo caratterizzante dell'assetto figurativo delle basiliche cristiane; la pittura narrativa nelle navate e nei portici delle chiese, specie in relazione al «mestiere» del pittore e ai suoi repertori tradizionali; infine l'iconografia del ritratto pontificio. Il saggio conclusivo sugli anni di Cola di Rienzo diventa l'occasione per far luce sulla storia dell'immagine allegorica di Roma, anch'essa di lunga durata, dall'antichità a tutto il Trecento.
Oggi Michelangelo Merisi detto Caravaggio non solo è considerato uno dei pittori più grandi del suo tempo, fondamentale premessa dell'arte moderna ed emblema dell'artista maledetto: è una vera e propria superstar della pittura. Ma non è stato sempre così. Solo pochi anni dopo la sua tragica morte, il repentino successo che ne aveva accompagnato la parabola artistica ed esistenziale era svanito nel nulla. Nonostante la sua lezione sia stata accolta fin da subito e divulgata da una numerosa cerchia di seguaci in Italia e in Europa, ben presto molti cominciarono a evocare il nome di Caravaggio non per lodarlo ma per denigrarlo. Destinato per più di due secoli a una sorta di damnatio memoriae, nei primissimi anni del Novecento attirò l'attenzione di un giovane studente che di lì a pochi anni divenne il più autorevole storico dell'arte italiano: è il 1911, il suo nome è Roberto Longhi ed è lui l'artefice del ritorno di Caravaggio, della sua "invenzione" moderna. Roberto Cotroneo ce la racconta con la precisione del connoisseur e la piacevolezza del romanziere, in questo libro che omaggia il genio artistico e la forza creatrice della passione e della conoscenza.
Bellezza e Bruttezza sono concetti che sembrano implicarsi l'uno con l'altro, e di solito s'intende la bruttezza come l'opposto della bellezza tanto che basterebbe definire la prima per sapere cosa sia l'altra. Ma le varie manifestazioni del brutto attraverso i secoli sono più ricche e imprevedibili di quanto comunemente si pensi. Ed ecco che i brani antologici e le straordinarie illustrazioni di questo libro ci fanno percorrere un itinerario sorprendente tra incubi, terrori e amori di quasi tremila anni, dove gli atti di ripulsa vanno di pari passo con toccanti moti di compassione, e al rifiuto della deformità si accompagnano estasi decadenti per le più seducenti violazioni di ogni canone classico.
“Costruisciti un Paradiso tuo altrove!”. Questo il consiglio con cui nel 1513 san Pietro avrebbe accolto alle porte del Paradiso papa Giulio II, appena defunto, stando almeno a quanto racconta un libello satirico dell’epoca. Al di là del sarcasmo sulla dispotica natura e sui progetti megalomani del pontefice, il riferimento al Paradiso coglie di fatto un aspetto centrale dell’intenzione perseguita da Giulio II nel commissionare a Michelangelo gli affreschi sulla volta della Cappella Sistina. Questo libro ricostruisce le diverse fasi decorative dell’edificio, dal 1481 al 1541, evidenziando le peculiarità di ciascuna nel dare forma a un’idea: quella di rappresentare la “prima cappella del mondo” come anticamera del Paradiso; suoi guardiani, san Pietro e i pontefici a lui succeduti. Ne emerge con particolare risalto l’importanza decisiva che ebbe la prima fase di edificazione e decorazione della Cappella, fra il 1481 e il 1483, con l’apporto determinante di Perugino, Botticelli, Ghirlandaio, Rosselli, Signorelli e Piermatteo d’Amelia, di cui si propone una nuova cronologia. I contributi più tardi di Michelangelo e Raffaello, infatti, si possono comprendere appieno solo mediante il confronto con gli affreschi già eseguiti nella Cappella dagli artisti che li avevano preceduti. Anche la straordinaria realizzazione del Giudizio Universale appare allora l’esito naturale delle idee e degli intenti che ispirarono la creazione di questa anticamera del Paradiso.
I disegni del Bernini offrono una prospettiva privilegiata, un’opportunità di affrontare l’arte del cavaliere nella sua universalità come scultore, pittore e architetto, ma anche come inventore per le arti decorative, e ci permettono uno sguardo intimo nel laboratorio del genio, capace di adattare le sue invenzioni a circostanze in continua evoluzione e alle domande pressanti dei suoi committenti. Mentre l’esecuzione dei grandi progetti era delegata sempre più a una schiera di collaboratori altamente specializzati, il tratto personalissimo dei disegni ci riporta alla mano e al pensiero del Bernini. Sono disegni preparatori che fanno trasparire l’iter concettuale di occasioni grandi e piccole, ma anche studi di struggente naturalismo, ritratti parlanti di straordinaria vivacità e quei grandi disegni autonomi dell’ultimo Bernini, ormai non più semplice segno grafico ma strumento di contemplazione mistica.
Dalla preistoria alla contemporaneità, da oriente a occidente, un viaggio nel tempo e nello spazio alla scoperta dei simboli che hanno accompagnato la storia dell’uomo e contrassegnato l’espressione delle sue civiltà.
Storia ed espressione dalla Rus' di Kiev al grande impero
Ad aprire le celebrazioni per il bicentenario della nascita di John Ruskin, che si terranno nel 2019, questo volume racconta la storia d'amore, lunga e fruttuosa, tra il famoso critico inglese e la città di Venezia. Durante la sua vita, Ruskin visitò Venezia numerosissime volte a partire dal 1835 e, in seguito ai lunghi soggiorni in città, pubblicò l'opera in tre volumi intitolata «Le pietre di Venezia», un inno alla bellezza, all'unicità e alla fragilità di questa città, destinata a diventare un caposaldo della cultura anglosassone e l'inizio del revival gotico d'epoca romantica. Tra i metodi d'indagine di cui Ruskin si serviva spiccano i numerosi taccuini, schizzi con rilievi architettonici, acquerelli, albumine, planotipi e dagherrotipi (il critico possedeva una primitiva macchina fotografica già nel 1849!). Queste testimonianze iconografiche sono l'oggetto di questo volume, e ci consentono di affrontare Ruskin da un nuovo, certamente meno conosciuto, punto di vista: come artista a tutto tondo e non solamente come scrittore. Catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 10 marzo-10 giugno 2018).
“Venezia giace ancora davanti ai nostri sguardi come era nel periodo finale della decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza, che qualche volta quando ammiriamo il languido riflesso nella laguna, ci chiediamo quasi fosse un miraggio quale sia la città, quale l’ombra. Vorrei tentare di tracciare le linee di questa immagine prima che vada perduta per sempre, e di raccogliere, per quanto mi sia possibile, il monito che proviene da ognuna delle onde che battono inesorabili, simili ai rintocchi della campana a morto, contro le pietre di Venezia”
- John Ruskin, The Stones of Venice