L'altra faccia della tragedia israelo-palestinese è a poca distanza: è la rapida evoluzione in atto in Arabia saudita, che allarga su scala più vasta gli esperimenti già avviati a Dubai o nel Qatar. Quell'area compresa tra il Golfo Persico e il Mar Rosso è un gigantesco cantiere di sviluppo, attira un boom di investimenti e di imprese straniere, anche italiane. E accoglie nuovi flussi di imprenditori, turisti, studenti e ricercatori (il nostro Paese si è accorto della svolta con qualche ritardo quando Roberto Mancini ha abbandonato la guida della nazionale di calcio per quella saudita e Riad ha soffiato a Roma la sede dell'Expo). Ma cosa c'è dietro? Una delle chiavi è la laicizzazione in corso, che riduce i poteri del clero islamico, liberalizza i costumi e migliora i diritti delle donne. In questo reportage ispirato dai suoi viaggi più recenti Federico Rampini racconta il «nuovo impero arabo» che resta un regime autoritario (su cui la guardia deve restare alta) ma vuole rilanciare il proprio ruolo mondiale, memore di quella che fu l'epoca d'oro della sua civiltà. E che sembra uscire dal vittimismo antisraeliano spezzando la catena dell'odio nei confronti dell'Occidente (e il suo finanziamento) che ha portato alla diffusione della Jihad e della violenza fanatica. È un'area in forte crescita, segnata da progetti grandiosi di modernizzazione con ricadute nella geopolitica, nell'energia, nell'economia, nella finanza, nella tecnologia e nel campo della lotta al cambiamento climatico. Ma l'Arabia e i suoi vicini più piccoli sono sotto la minaccia permanente di un avversario come l'Iran e del focolaio minaccioso del Golfo di Suez; e il conflitto israelo-palestinese condiziona leader e popoli di tutta la zona. Dal successo nei piani avveniristici di questa parte del mondo dipenderanno anche lo sviluppo dell'Africa, la stabilità del Mediterraneo, la sicurezza mondiale, la transizione verso un'economia meno condizionata dal petrolio. «Bisogna trattenersi, prima di abbracciare visioni del mondo manichee, crociate che oppongono le forze del Bene e del Male. L'Arabia merita di essere studiata più che esorcizzata.»
In passato era il Ministero della Guerra. Poi il Ministero della Difesa. Oggi questo non basta più. Nessuna guerra è solo di difesa, ogni conflitto estende la "guerra mondiale a pezzi" di cui parla Papa Francesco: si ammazza e si distrugge anziché concentrare le risorse sulle vere emergenze dell'umanità, e il rischio di un conflitto irreversibile è sempre più vicino. «L'uomo ha sempre organizzato la guerra, è arrivata l'ora di organizzare la pace» diceva don Oreste Benzi. Attorno a questa idea è nata una Campagna che promuove un nuovo Ministero, quello della Pace, per dare strumenti e una architettura politica ad una parola, pace, che va messa al centro delle scelte di governo. Molti enti e personalità, tra cui 30 premi Nobel, hanno già aderito e ne hanno sostenuto l'istituzione. Questo libro propone una analisi e raccoglie contributi che dimostrano come questa scelta sia davvero possibile e necessaria per assicurare un futuro all'umanità.
Le teorie politiche ragionano sui grandi scenari, discorsi affascinanti ma che spesso restano solo parole. C'è poi un pensiero politico che si occupa di quello che ciascun cittadino può fare dal luogo in cui è, agendo innanzitutto sul proprio modo di stare nel mondo. C'è necessità di cittadini e politici che siano consapevoli del valore della politica e agiscano mossi dall'intenzione di dedicare il giusto tempo alla cura della comunità. Così intesa la sapienza politica costituisce una necessità ineludibile. Si può dire che proprio dell'umano è l'esigenza della politica, di una politica capace di visione, di progetto, di forza di attuazione.
La disobbedienza civile e la non-violenza hanno una storia lunga e gloriosa: pensiamo a chi si è opposto con coraggio al nazifascismo o a figure come quelle di Gandhi e di Martin Luther King. Negli ultimi anni si sono aggiunte nuove pratiche di disobbedienza: quella climatica, l'animalismo radicale, i passeurs che fanno attraversare i confini ai migranti, l'abbattimento o l'imbrattamento di statue di personaggi controversi, e tante altre. L'opinione pubblica ha spesso faticato a comprendere le ragioni e la specificità di queste iniziative, riducendole a un generico bisogno di visibilità. Certo, gli stati liberali e democratici, seppur imperfetti, meritano il rispetto delle leggi. Ma è innegabile che ci sono leggi e pratiche ingiuste, e da questa constatazione è necessario partire per capire le ragioni di chi decide di andare contro gli ordinamenti per reclamare la necessità di un cambiamento. Lungi dall'esprimersi in un bisogno di radicalismo fine a sé stesso, il senso morale della disobbedienza va inteso come un modo, a volte estremo, di fare politica in una democrazia. Quando le normali forme di rivendicazione democratica non funzionano, la disobbedienza può essere moralmente giustificabile.
Da oltre trent'anni l'Italia vede attuarsi periodicamente soluzioni 'irregolari' delle crisi politiche. Ciampi, Monti, Draghi. Da tempo i presidenti della Repubblica si regolano come se fosse in vigore da noi la Costituzione della Quinta Repubblica francese, o forse pensano che sia ritornato lo Statuto Albertino: convocano 'qualcuno' che metta le cose a posto. Non possiamo non chiederci se, tra le cause immediate di questa deriva, non ci sia il disinvolto e reiterato ricorso alla cosiddetta 'unità nazionale' e al conseguente assembramento di formazioni politiche ritenute antitetiche ma destinate a perdere, nel corso di tali esperienze, larga parte dei loro connotati. È probabile che tutto questo si sia verificato sotto la pressione incalzante di costringenti strutture extranazionali in grado di imprimere una accelerazione. Ma il problema ineludibile che abbiamo di fronte è: a quale prezzo e con quale riassetto del nostro ruolo internazionale si sia prodotta una tale mutazione, e se essa sia irreversibile.
Qual è il progetto politico di FdI? Implica e prefigura una riduzione degli spazi della dialettica politica o è invece, come pretende, la restituzione della democrazia agli italiani, dopo una stagione di governi tecnici e di maggioranze contraddittorie? Per cogliere la natura di FdI è necessario comprenderne la genesi concreta e soprattutto le dinamiche della società contemporanea, dell'economia neoliberale, e le trasformazioni post-democratiche della nostra democrazia. Bisogna chiarire se la destra è una minaccia per il mondo liberaldemocratico in crisi o una promessa di rivitalizzazione, sia pure in chiave conservatrice, o un assecondamento di derive già in atto; bisogna collocare FdI rispetto alla destra europea, ma anche rispetto al fascismo (al neo-fascismo e al post-fascismo), al populismo, al sovranismo e al conservatorismo, analizzandone la politica istituzionale, quella economica, quella culturale e la proiezione internazionale.
L'autore, alla luce delle scienze umane e sociali, partendo dai drammatici scenari socio-ambientali e di «guerra mondiale a pezzi», pone l'attenzione su una serie di interrogativi di senso e prospettive di lettura. Termini come guerra, conflitto, pace e speranza sollecitano lo sguardo sulla necessità di creare paradigmi diversi per una vera rivoluzione della speranza che abbia come fondamento un'idea di ecologia integrale. Il tema del linguaggio consente all'autore di allargare le maglie della riflessione verso la politica, nella speranza di rifondare una comunità umana che nella solidarietà tra singoli riscopra la solidarietà con l'ambiente, con la natura con la casa comune - la nostra Terra - secondo l'interpretazione di papa Francesco che, geograficamente ed esistenzialmente, incita l'attenzione e la visione di un Mediterraneo come via di pace. La speranza diviene un cammino «nonostante» tutto, non facile ottimismo ma responsabilità di ciascuno e di tutti.
Che cos'è la giustizia sociale? Per Friedrich von Hayek era un miraggio, un cliché senza senso, ideologico, incoerente e vacuo. Credeva che il termine dovesse essere evitato, abbandonato e lasciato morire di morte naturale. Per i suoi sostenitori, giustizia sociale è un termine generico che può essere usato per giustificare qualsiasi programma governativo di stampo progressista. In questo volume Michael Novak e Paul Adams cercano di chiarire il vero significato della giustizia sociale e di salvarla dai tanti che se ne vogliono appropriare in termini ideologici. Esaminando figure che vanno da Antonio Rosmini, Abraham Lincoln e von Hayek, ai papi Leone XII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, gli autori rivelano che la giustizia sociale non è un sinonimo di "governo progressista", come siamo soliti credere. È piuttosto una virtù radicata nell'insegnamento sociale cattolico e sviluppata come alternativa al potere incontrollato dello Stato. Quasi tutti gli operatori sociali si considerano progressisti, eppure molte delle loro "buone pratiche" mirano a dare potere alle famiglie e alle comunità locali. Non pongono l'accento sull'individuo o sullo Stato, ma sul vasto spazio civile che li separa. In questa sorprendente riconsiderazione del suo intento originario, la giustizia sociale rappresenta una virtù immensamente potente per coltivare la responsabilità personale e costruire le comunità umane che possono contrastare la diffusa resa a uno Stato in continua crescita. Prefazione di Flavio Felice.
Il confronto violento che caratterizza lo scenario politico è ormai dilagante anche sul piano comunicativo. Stampa, televisione e social network riflettono questa aggressività in un crescendo che è diventato un modo abituale di esprimersi. All'interno del quadro politico italiano si sente spesso parlare di democrazia incompiuta, in gran parte attribuita proprio a una conflittualità permanente tra le parti: chiunque sia al governo o all'opposizione, la nota dominante è sempre la violenza sistematica del confronto. Per recuperare credibilità e consenso nell'opinione pubblica, occorre quindi riscoprire le virtù politiche essenziali che garantiscano un dialogo efficace e un confronto costruttivo. Serve una rivoluzione per tornare a vivere valori come l'affidabilità, la moderazione, la sobrietà. Perché se la politica è la forma più alta di carità, allora è dalla carità che la politica deve ricominciare. La buona politica ha bisogno di speranza e di fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore della gente, malgrado tutto.
Come comunica la politica? Quanto è stata contaminata dal marketing? Politici leader o politici follower? Sono queste le domande a cui il libro cerca di dare una risposta tramite la voce dei protagonisti degli ultimi trent'anni. Come nasce il primo manifesto di Silvio Berlusconi, l'arrivo di Renzi, la rivoluzione digitale di Grillo e Casaleggio, lo scontro tra Trump e Nike sono solo alcune delle storie raccontate attraverso la testimonianza di chi le ha vissute in prima persona. Un libro di riflessioni, dialoghi e narrazioni di donne e di uomini, di brand e di politica che spesso si sovrappongono. Un capitolo speciale è dedicato alla comunicazione politica in tempo di guerra. Dialogo con Mykhailo Podolyak, consigliere del Presidente Zelensky. Prefazione di Tommaso Labate. Postfazione di Paolo Iabichino.
E' merito del cristianesimo aver ripreso e integrato l'idea antica di città, concepita da Aristotele e poi da Cicerone, non come cerchia di mura ma come abitazione di uomini. Grazie al pensiero di alcuni grandi scrittori cristiani, in particolare di Agostino, si svilupperà una visione antropologica della vita urbana, da cui prenderanno forma anche una teologia e una spiritualità della città. La spiritualità politica tende a confezionare l'abito virtuoso della città, formando i cittadini alle virtù naturali della giustizia, della prudenza, della fortezza e della temperanza e rilevando la valenza politica della fede, della speranza e della carità, che i cristiani sono chiamati a esercitare per dono di grazia, come virtù soprannaturali. Una spiritualità politica che sia memoria dello spirito, come la teologia politica è memoria di Dio, nella città dell’uomo. (dall'introduzione dell'autore)
Ci serve davvero l'Europa? Non staremo perdendo tempo ed energie dietro a un'idea ormai superata? Quella di oggi è la terra dei diritti immaginata a Ventotene? Mentre l'Unione è sotto attacco da più parti, accusata di essere una matrigna distante dai problemi reali dei cittadini, Emma Bonino e Pier Virgilio Dastoli, protagonisti indiscussi del progetto europeista, scelgono di intraprendere un viaggio nella memoria personale e collettiva che ci riguarda tutti da vicino. Ripercorrono lotte e progressi, sconfitte e conquiste, recuperano le tracce delle esistenze e delle aspirazioni di tante donne e tanti uomini che si sono battuti per costruire e difendere questo ideale. Invitano a prendere coscienza di quanto ancora resta da fare, senza però commettere l'errore di dimenticare, o peggio di gettare via, l'enorme lavoro svolto finora. Il risultato è un dialogo serrato e coinvolgente, stimolato dalle ricostruzioni di Luca Cambi, in cui si dà conto delle innumerevoli tappe di questo processo, si ravviva il dibattito sulle nuove sfide che ci attendono, e si offre il ritratto appassionato e avvincente di Altiero Spinelli, vero padre fondatore capace di intuire e ispirare con lungimiranza, in un continente lacerato dalla guerra, quei principi di fratellanza, pace e libertà a cui ancora oggi dobbiamo tendere. Prefazione di Corrado Augias. Postfazione di Romano Prodi.