Giulio Busi guida alla conoscenza dei concetti fondamentali della Qabbalah, i cui testi sono ricchi di immagini difficilmente comprensibili, di giochi di parole in lingua ebraica e di concetti espressi in modo da preservarne la segretezza. Oltre a penetrare nel linguaggio simbolico cabalistico, il lettore potrà così familiarizzarsi con la gimatreya, il criterio di permutazione linguistica basato sulle corrispondenze tra lettere e numeri, e con le altre tecniche di interpretazione.
La storia del Ghetto di Venezia, la sua crescita, la sua architettura, la vita materiale dei suoi abitanti e le loro relazioni con l'intera città sono l'argomento di questo volume. La ricostruzione del Ghetto nelle sue diverse fasi storiche permetterà di seguire lo sviluppo del quartiere; saranno analizzati gli usi e costumi religiosi ebraici, la straordinaria importanza della stampa ebraica veneziana - la prima in Europa - il contesto culturale, artistico e artigianale, linguistico, familiare, economico. In sintesi, un microcosmo completo e affascinante che si sviluppò e prosperò per oltre quattro secoli all'interno della Serenissima Repubblica.
La tradizione, fin dai tempi più antichi, ha sempre sottolineato il legame fra le sette braccia e le sette luci della menorah - il candelabro d'oro che anticamente ardeva presso il Tempio di Gerusalemme - in rapporto alla creazione del mondo e dell'umanità, articolata in sette giorni (riposo divino incluso). Per comprendere meglio tale legame, guidata dal midrash rabbinico l'approccio ermeneutico tradizionale al testo rivelato - e dai grandi maestri della tradizione, l'autrice prende in considerazione le testimonianze bibliche relative alle indicazioni che Dio dà a Mosè in riferimento agli arredi del Tempio, e in particolare in rapporto alla menorah, che secondo studi recenti avrebbe una forma riconducibile a una pianta aromatica che cresce solo in Medio Oriente a ridosso della macchia mediterranea.
Che senso ha ammonire i peccatori in una società come la nostra, dove vale "la regola dell'individualismo per cui ognuno, per rispetto apparente, lascia da solo l'altro di fronte ai propri errori"? Di contro alla pretesa autosufficienza di chi si illude di bastare a se stesso, Meluzzi spiega, con il supporto delle sacre scritture, di sant'Agostino e dell'autorevole lezione di papa Benedetto, che ammonire l'altro "non significa giudicarlo al fine di allontanarlo ma vuol dire legarsi a lui per aiutarlo" e che la correzione "ha come motivazione principale la fraternità".
Il testo si sofferma sul significato del perdono nella religione ebraica: la richiesta di "perdono" non avviene per delega, ma può partire solo dai responsabili viventi, esige il loro pentimento, e va rivolta a quanti sono stati da loro offesi, comportando la riparazione delle conseguenze arrecate sul piano morale, penale, civile ed economico. Nel dialogo col cristianesimo emergono interessanti punti di convergenza: il Dio della Bibbia ebraica, dice il rabbino Di Segni, "è giustizia e amore [...]. Nulla avrebbe senso nell'ebraismo senza il perdono. E l'esortazione 'ama il tuo prossimo come te stesso' è anche evangelica ma viene dalla legge mosaica".
Per chi è nato a Roma nel primo dopoguerra il Ghetto riassume nei suoi slarghi e nei suoi vicoli un periodo doloroso della storia di questa città, quello che va dal luglio 1943 al giugno 1944. Un omaggio ad uno dei principali protagonisti di quei tragici eventi, Mimma Spizzichino, con la testimonianza di un rapporto, che seppur breve ed episodico, conserva memoria d'una persona eccezionale. La proposta di un itinerario per scoprire, andando a piedi tra le strade del Ghetto, l'intreccio fra l'aspetto attuale e quello che ha avuto in passato quando recintato da un muro era il luogo in cui la “comunità ebraica romana” doveva risiedervi obbligatoriamente. I muri dei vecchi palazzi documentano ancor oggi la storia d'una convivenza tra due comunità di religione diversa.
Le parashot di Vaiqrà (Levitico): in questo volume sono contenute e spiegate nei minimi particolari, le norme legate al Santuario appena edificato e quelle che devono osservare i Kohanim. Perciò questo libro è chiamato anche Toràt Kohanim. Sono illustrati le offerte e i sacrifici da fare in segno di riconoscenza, pentimento, devozione, omaggio e ringraziamento al Creatore del Cielo e della Terra, sostituiti oggi, che il Bet ha Miqdàsh non c'è più, dalle preghiere. Accanto alla figura di Moshè, infaticabile conduttore del popolo e portavoce delle norme (mitzvòt) da osservare riguardo alla kasherut, allo shabbat, alle feste e a tutte le altre occasioni, vedremo delinearsi la figura del kohen gadol e degli altri kohanim, i sacerdoti. Ad essi il compito di accompagnare il popolo con la loro saggezza, il loro esempio ed il loro impegno; valuteranno i comportamenti di ognuno cercando sempre di creare un'atmosfera di armonia nella comunità in cammino; faranno da giudici e da guide per indirizzare i figli d'Israele verso abitudini e azioni corrette perché divengano un popolo Santo come Santo è l'Eterno. Età di lettura: da 9 anni.
Il grande Rabbi Yehudah soffrì per tredici anni poiché non aveva avuto compassione di un vitello portato al mattatoio. Ma poi fu risanato perché, citando un salmo sulla misericordia, salvò delle piccole donnole.Perché la compassione si dispieghi occorre che trovi almeno tre compagni di cammino. Ci deve essere sommovimento di viscere, vera vicinanza e la presenza di un positivo senso di colpa. Se siamo impassibili e guardiamo con distacco la sofferenza altrui, il cuore non è mosso a compassione e restiamo freddi, non compassionevoli, perché nessuno può essere coinvolto se resta distante.Una riflessione su tre radici verbali della lingua ebraica consente di approfondire il tema. La prima è connessa alle viscere o più specificatamente all'utero, la seconda all'abitare e la terza è legata a un'ambivalenza profonda poiché significa tanto pentirsi quanto consolare. Se non si avverte come sperequazione inaccettabile e ingiustificata il confronto tra la propria salute e la malattia altrui, tra la propria pienezza e la mancanza inscritta nella vita del nostro prossimo, tra la propria gioia e la tristezza dell'altro, tra la propria fiducia e l'altrui disperazione non si è mossi ad autentica compassione.
In questo studio, Thomas Kaufmann analizza l'antisemitismo di Lutero nell'ottica di una solida storicizzazione che ne mette in luce tanto la trasversalità tra i cattolici e gli umanisti del suo tempo quanto l'articolata ricezione e le ripercussioni nei successivi cinque secoli, con particolare riferimento al periodo nazionalsocialista. Poco affrontato in Italia, l'antigiudaismo di Lutero, che negli anni prese tratti via via più estremi e toni più polemici, resta un tema su cui - anche visto l'utilizzo forzato dei nazisti di parte dei testi del Riformatore per avallare l'antisemitismo eliminatorio della Shoah - è imprescindibile confrontarsi. In questo saggio, Thomas Kaufmann sceglie di affrontare il tema attraverso la chiave di una fondata storicizzazione, inserendolo nel contesto in cui Lutero visse, nonché la chiave dell'influenza e della ricezione, perlopiù selettivamente mirata, dei testi del Riformatore nel corso dei secoli. Una storicizzazione non certo per giustificare, ma per comprendere e rapportarsi all'eredità di Lutero 500 anni dopo. "La storicizzazione del Riformatore di Wittenberg è l'unica forma adeguata di critica." (Thomas Kaufmann) Prefazione di Daniele Garrone.
Tutti sanno chi era Paolo di Tarso, pochi invece conoscono il suo contemporaneo Yohanan ben Zakkai. Eppure entrambi, a modo loro, hanno dato l'avvio a una nuova religione, e entrambe queste religioni (cristianesimo e ebraismo moderno) sopravvivono ancora oggi. Nel I secolo d.C. Yohanan era nella Gerusalemme assediata dalle armate di Tito. Poco prima dell'attacco romano riuscì a scappare dalla città e a farsi ricevere dall'imperatore, al quale chiese il permesso di istituire una scuola nel "vigneto di Yavneh". Tito glielo concesse, e fu così che iniziò a svilupparsi l'ebraismo dei rabbini, il quale, modificato nei secoli, è di fatto quello di oggi. Il nucleo di questa dottrina è una quasi infinita serie di discussioni tra saggi, durata cinque secoli, nella quale quasi sempre contano più le domande e le argomentazioni che le risposte. Quando questa immensa tradizione orale venne messa per iscritto, divenne il Talmud: 37 volumi di dispute serrate tra saggi rabbini praticamente su ogni cosa. Scritto in due lingue (ebraico e aramaico), con uno stile tutto meno che lineare, il Talmud (nelle sue due versioni, babilonese e palestinese) è oggi considerato una delle opere più complesse che esistano e il fondamento stesso dell'ebraismo. La sua storia è un tutt'uno con la storia degli ebrei.
Dalla cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell'Eden al paese dei tonti, dagli angeli caduti per la loro presunzione alle peregrinazioni delle dieci tribú perdute, dalla saggezza di Salomone e del giovane Abramo al gigantesco Golem di Praga. Il concetto di mito sembra non avere nulla a che fare con l'ebraismo e con l'idea di un unico Dio creatore. Eppure la tradizione d'Israele è ricca di racconti che ne hanno il sapore. Il mito ebraico forse sta proprio nell'insieme di questi infiniti racconti, attraverso i quali ha preso e prende ancora forma l'immaginario di un popolo. Elena Loewenthal ci accompagna alla scoperta di quell'oceano profondissimo che è la parola d'Israele, alla ricerca di quanto in essa c'è di mitologico. Storia dopo storia, leggenda dopo leggenda veniamo condotti nell'universo della tradizione ebraica, tra luoghi fantastici, personaggi affascinanti e sogni misteriosi.
«Abramo abbassa il braccio. Isacco sgrana gli occhi che, vogliamo pensare, ha tenuto chiusi fino a quel momento, perché come si fa a chiedere a un bambino di tenere gli occhi aperti mentre suo padre lo sta per uccidere sopra un altare? Tutto tace intorno a loro e non solo lassú: in quel momento il mondo intero ammutolisce, incredulo e disperato. Un istante dopo quella eternità brevissima nel tempo ma interminabile nel cuore si ode un belato provenire da dietro la solita ginestra spoglia. È il capro che Dio ha creato alla fine del sesto giorno, al crepuscolo della creazione, apposta per questa occasione. È il capro espiatorio che Abramo sacrificherà al posto del figlio. Da allora, nel giorno di Kippur la melodia lenta e penetrante dello shofar - strumento musicale ricavato dal corno di un capro - risuonerà in tutte le sinagoghe del mondo per ricordare agli uomini, ma soprattutto a Dio, il merito d'obbedienza che Abramo ha dimostrato, e che va a credito di tutti coloro che sono venuti dopo di lui nella catena delle generazioni».
Questo saggio offre un’originale sintesi del percorso di riflessione che, come non-ebreo ai piedi del Sinai, l’autore ha maturato mettendosi alla scuola di Israele e dei suoi maestri. Una riflessione che lascia trasparire la formazione filosofica dalla quale proviene, senza tuttavia mai tradire l’argomentare rabbinico che rimane per lui lo strumento di indagine privilegiato, in grado di cogliere nei testi della tradizione particolari talvolta quasi impercettibili ma capaci di dare nuova luce – spesso inaspettata – a personaggi e narrazioni.
L’obiettivo è rimettere a tema il rapporto tra parole e cose, tra parole e realtà. Si tratta di una esplorazione libera, alla ricerca della parola che “manca” per poter parlare di ciò che “precede” qualsiasi tentativo di definizione, nella continua ricerca di approfondimento di tematiche di MATERIA ebraica che da molti anni lo appassionano.