In questa biografia elegante, rigorosa nelle fonti ma anche poetica e ironica, la straordinaria vita di Lorenzo de' Medici trova finalmente un racconto all'altezza dei suoi fasti e delle sue contraddizioni.
Lorenzo de' Medici, detto il Magnifico (1449-92), è uno dei personaggi più rappresentativi della storia italiana. Nessun intellettuale, infatti, ebbe nelle proprie mani altrettanto potere e nessun uomo di governo fu così consapevole della propria cultura. Buon politico e mediocre banchiere, ottimo poeta e scadente stratega, Lorenzo diede prova in più occasioni di coraggio fisico e destrezza, ma ebbe anche un raffinato gusto per l'arte, e fu padrone di Firenze senza mai mostrarlo apertamente. Ricco, elegante, colto, sciupafemmine e ambiguo, capace di slanci generosi e, se necessario, di una buona dose di crudeltà, egli impersona pregi e difetti di un'età irripetibile, oltre che il culmine dell'epopea dei Medici, la famiglia che più di ogni altra ha promosso lo splendore del Rinascimento. Con lo sguardo complice e il passo sicuro di chi conosce a fondo epoca e luoghi, Giulio Busi segue Lorenzo nella sfera privata, negli amori e nelle amicizie, e lo accompagna nella sua ascesa alla ribalta della politica italiana e internazionale: la Firenze di Leonardo e del giovane Michelangelo, la Milano opulenta degli Sforza, la Roma degli intrighi pontifici, la Napoli florida di Ferrante d'Aragona, la Venezia dei traffici e dei sospetti. Attorno a Lorenzo, intanto, si muove la scena concitata del Quattrocento italiano. Tutti lo ammirano, alcuni lo odiano, qualcuno cerca di ucciderlo. Nel duomo di Firenze, nell'aprile 1478, i pugnali dei congiurati massacrano suo fratello Giuliano. Lui sfugge d'un soffio alla morte, e subito si abbandona a una vendetta implacabile. Uscirà dalla tormenta più forte, più solo, più Magnifico che mai.
Nel luglio 1986 Ian Thomson, un giovane giornalista inglese già autore di interviste a scrittori italiani come Calvino, Moravia o Natalia Ginzburg arriva a Torino per incontrare Primo Levi. L'autore di "Se questo è un uomo" ha quasi sessantotto anni, la barba ben spuntata e gli occhiali con la montatura di metallo. Le maniche della camicia arrotolate rivelano il tatuaggio sull'avambraccio sinistro con il numero 174517 ma nonostante lo spettro di Auschwitz che aleggia per la stanza, Thomson racconta di un uomo serio e dolce allo stesso tempo, che parla con generosità di chimica e alpinismo, editoria e fantascienza, dando vita a una conversazione piena di un'allegria inaspettata. Nove mesi dopo, l'11 aprile 1987, Levi si suicida gettandosi nella tromba delle scale della sua casa di Torino. Un evento tragico in cui si enuclea il più profondo dramma del Novecento. Non solo l'Italia ma il mondo intero è sconvolto dalla perdita di un uomo con "lo spessore morale e l'equilibrio intellettuale di un titano del ventesimo secolo" come lo definisce Philip Roth. Ian Thomson ha passato più di cinque anni inseguendo parenti, amici o semplici testimoni: annota oltre 300 testimonianze, raccoglie immagini, consulta fonti di archivio. Da questo lungo lavoro di scavo esce un ritratto complesso di Levi, che prova a sbrogliare la matassa di una vita trascorsa fra la chimica e la letteratura, la fabbrica e la macchina da scrivere. Thomson, evitando di schiacciarsi sull'autobiografia finzionale costruita da Levi stesso e aggirando la sua nota riservatezza, ricostruisce il suo rapporto con la fami
C'è una razionalità propria della politica? Da questa razionalità consegue un male specificatamente politico? Domande che per Ricoeur definiscono il "paradosso politico", a partire dal quale s'è confrontato con Hannah Arendt. Un dialogo attorno alle categorie di potere, potenza, autorità, forza e violenza con cui la Arendt - maestra delle "distinzioni" - ha indagato da un lato l'incarnazione novecentesca del male politico, il totalitarismo, dall'altro un modo d'essere della politica che fuoriesca dalla equazione "potere = forza+violenza". Il potere e l'autorità - questa per Ricoeur è l'eredità della Arendt - sono un argine al male politico. Quando il potere - come azione che contrasta la fragilità del mondo - non dimentica la sua radice nel miracolo terreno: la natalità, l'accadere dell'inatteso. Un'eredità che è anche dell'antropologia filosofica delineata in Vita adiva, con le distinzioni tra lavoro, opera e azione.
Enrico Fermi è stato uno dei più grandi fisici del mondo e, dopo Galileo, il più famoso scienziato italiano. Dotato di un intuito e di una capacità di ricerca infallibili, era stato soprannominato dai colleghi "il Papa della fisica". Le sue scoperte hanno cambiato il nostro mondo: hanno portato alle armi di distruzione di massa, ma anche alla creazione di apparecchiature mediche salvavita. Fuggito dal fascismo e dall'antisemitismo, divenne una figura di spicco del progetto più segreto d'America: la costruzione della bomba atomica. Ultimo fisico capace di padroneggiare tutti i rami della sua disciplina, Fermi era una rara miscela di ricercatore teorico e sperimentale. La sua ricca eredità comprende progressi decisivi in ambiti diversi, dai raggi cosmici alla tecnologia nucleare, fino ai primi computer. In "Il Papa della fisica", Gino Segrè e Bettina Hoerlin restituiscono un'immagine davvero vivida di questo grande visionario della scienza. Passando in rassegna sia i drammi umani che hanno segnato la sua vita sia l'emozionante storia dell'innovazione scientifica nel XX secolo, hanno scritto la biografia che Fermi meritava.
Ultor patriaeque domusque, «vendicatore e della patria e della famiglia»: così il poeta Silio Italico definisce Publio Cornelio Scipione, testimone della peggiore disfatta della storia militare romana, che raccolse l'eredità del padre ucciso in battaglia e dedicò la vita a rovesciare le sorti della «guerra annibalica», la seconda guerra punica, titanico scontro di potenze per il predominio sul Mediterraneo antico. Scipione riuscì a ottenere il comando militare in Spagna pur essendo ancora giovane e inesperto; diede prova di eccezionali qualità militari, concludendo in quattro anni una campagna difficile; riuscì poi a imporre la propria strategia, portando la guerra in Africa e costringendo il governo di Cartagine a richiamare in patria Annibale. La patria non gli dimostrò la riconoscenza che meritava. Cosa che rende ancora più interessante il suo personaggio: perché Scipione visse sul confine tra due mondi, anticipando con la sua ambizione e il suo carattere sia la crisi del vecchio sia molti aspetti peculiari del nuovo. Da un lato, infatti, resisteva ancora la res publica arcaica, dove ogni deviazione dal rigido costume degli antichi era considerata con sospetto; dall'altro si apriva l'orizzonte del dominio imperiale sul Mediterraneo, ingentilito dalla cultura ellenistica, raffinato e cosmopolita, ricolmo di ricchezze materiali e spirituali come il forziere di un tesoro. Da comandante militare fu capace di offrire alla patria la possibilità di conquistare quell'orizzonte; da politico troppo moderno per i suoi tempi venne sconfitto e costretto a ritirarsi dalla vita pubblica senza raccogliere i frutti della vittoria.
"Quando sarò vecchio racconterò anch'io una storia ai miei figli. Di questa storia al momento conosco solo l'inizio. La fine non è stata ancora scritta."
Il diario inedito di Alfredo Sarano e della famiglia scampati alla Shoah
Custodito per oltre settant’anni in un cassetto dalle figlie Matilde, Vittoria e Miriam, il diario di Alfredo Sarano riemerge oggi dal passato aggiungendo nuove e preziose pagine di storia al libro del genocidio del popolo ebraico. Fogli ormai ingialliti dal tempo si affiancano così alle opere di Anne Frank ed Etty Hillesum, scritte proprio per vincere il silenzio e testimoniare l’orrore delle persecuzioni.
Questo volume è frutto delle ricerche di Roberto Mazzoli, che ha riportato alla luce il diario di Alfredo Sarano inquadrandolo nel contesto storico dell’epoca e riportando le testimonianze dei sopravvissuti.
ROBERTO MAZZOLI (Milano 1971) è giornalista dal 2003 e collabora con diverse testate e agenzie di stampa di ispirazione cattolica. È autore di saggi e pubblicazioni a carattere sociale e storico.
«È gelida l'acqua. Mi entra nelle ossa. Non riesco a liberare la stazza dall'acqua. Uso tutta la mia forza e la mia agilità ma la lancia resta piena. E cado. Ho paura. È notte fonda e fa freddo. Siamo a quaranta miglia da Lampedusa e, se non riesco a farmi sentire subito, mi lasceranno qui e sarà la fine. Non voglio morire così. Non a sedici anni. Il panico sta per impadronirsi di me e comincio a urlare con quanto fiato ho in gola, cercando di rimanere a galla e di non farmi trascinare giù da questo mare che ci consente di sopravvivere ma che può anche decidere di abbandonarci per sempre. "Patri" urlo. "Patri." Lui è al timone e non mi sente. La fine si avvicina, penso. Poi qualcosa accade... Ciò che non potevo sapere allora è che non solo quella notte sarebbe rimasta per sempre impressa nella mia mente ma che la mia esistenza sarebbe stata segnata da un mare che restituisce corpi e vite e che sarebbe toccato proprio a me salvare quelle vite e toccare per ultimo quei corpi». Pietro Bartolo è il medico che da oltre venticinque anni accoglie i migranti a Lampedusa. Li accoglie, li cura e, soprattutto, li ascolta. Queste pagine raccontano la sua storia: la storia di un ragazzo mingherlino e timido, cresciuto in una famiglia di pescatori, che si è duramente battuto per cambiare il proprio destino e quello della sua isola. E che, non dimenticando le difficoltà passate, ha deciso di vivere in prima persona quella che è stata definita la più grande emergenza umanitaria del nostro tempo.
Agosto 1943. L'Europa si sta lacerando. Morto suo padre Boris III in circostanze misteriose, il giovane Simeone, a 6 anni, diventa re dei Bulgari. Il tragico destino di un paese e di un popolo s'incarnerà in questo Re-bambino in un percorso al di fuori del comune. Dopo che una parte della sua famiglia è fucilata dai comunisti, lui deve partire. Saranno i tempi dell'esilio: nel settembre 1946 il re lascia Sofia per Istanbul. Poi vengono l'Egitto, Alessandria e le sue meraviglie, la Spagna, infine, dove la famiglia reale bulgara arriva per ricominciare a vivere. Miracolo della storia, Simeone, che non ha mai perso la speranza, può rientrare nel suo paese 50 anni dopo averlo lasciato. E il ritorno trionfale a Sofia nel maggio 1996, seguito da un impegno politico e dalla vittoria del suo movimento alle elezioni legislative del 2001. Colpo di scena incredibile: il re decaduto diventa primo ministro. Simeone di Bulgaria - di cui la regina Elisabetta, Hussein di Giordania, Hassan del Marocco, Franco, lo Shah d'Iran, Juan Carlos e molti altri hanno incrociato il cammino - ha attraversato il secolo e ha fatto la storia. Con Sébastien de Courtois.
Cosa accomuna Dante e Oriana Fallaci, Walter Benjamin e Yukio Mishima, Julius Evola e Umberto Eco? Ripensando alle voci che più lo hanno influenzato, Marcello Veneziani ha costruito un affascinante itinerario attraverso idee, opere e autori. Gran parte di questi può essere ricondotta a una particolare famiglia definita da Cristina Campo degli «Imperdonabili»: irregolari del pensiero che non si accontentarono del loro tempo, ma lo contraddissero, spesso creando nuove visuali o attingendo a tradizioni più antiche.
Percorrendo ambiti diversi – dalla filosofia alla letteratura, fino al grande giornalismo –, si raccontano tratti salienti, aspetti intriganti, sguardi e vite di ciascuno di questi maestri. Dai giganti, come Machiavelli e Schopenhauer, alle intelligenze pericolose di Michelstaedter e Heidegger; dagli spiriti inquieti di Wilde e Chatwin a Pirandello e Arendt, sismografi di un’epoca; dalle penne di Kraus e Guareschi, che hanno lasciato il segno, alle presenze oniriche e alle assenze profetiche di Goncarov e Zambrano: un ideario coerente, ma non organico, in cui si riflette la sensibilità di un conservatore curioso, a tratti reazionario, che ama la tradizione e pratica la ribellione, in rivolta contro le dominazioni della contemporaneità.
Un atlante di figure, scritture e pensieri.
«Non avevo nessuna intenzione di fare il maestro, come non avevo nessuna intenzione di fare la guerra e ho finito per fare sia l’uno che l’altra».
Per otto anni, dal 1960 al 1968, il maestro Alberto Manzi conduce Non è mai troppo tardi, la più celebre trasmissione educativa della Tv italiana. Quelle vere e proprie lezioni per insegnare a leggere e scrivere ad adulti analfabeti, seguite in duemila punti d’ascolto organizzati in tutto il Paese, consentirono a un milione e mezzo di persone di conseguire la licenza elementare. Nell’ultima intervista rilasciata prima della morte e affidata a Roberto Farné, Manzi ricorda gli anni di Non è mai troppo tardi, ma si sofferma anche su molti altri episodi della sua vita di educatore: la prima esperienza, subito dopo la guerra, nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma; la personale battaglia contro i voti, che lo portò otto volte sotto il Consiglio di disciplina; l’esperienza ventennale in Sudamerica per insegnare a leggere e scrivere a gruppi di Indios analfabeti.
«Una storia di lealtà e tradimento. Di delitto e castigo. L’epopea di un terrorista che era anche un poeta. Tutto questo è Jakov Blumkin. L’eroe che, sopravvissuto alle situazioni più estreme, fu tradito dal suo amore per una rivoluzionaria intrepida come lui, in nome degli interessi superiori di una Rivoluzione, essa stessa tradita. Solo adesso ho capito che ero ossessionato da lui perché volevo raccontare un fallimento: quello di una generazione, la mia, che voleva cambiare il mondo. Volevo tornare al tempo in cui le masse irrompevano sul palcoscenico della Storia, ed era la Storia in persona che dettava le sue parole.»
Un passato bolscevico riemerge da un baule in una casa lungo la Marna. Un trasloco, una storia privata e una storia pubblica, due vite che si intrecciano, quella personale di Christian Salmon e quella di un personaggio leggendario della Rivoluzione d’Ottobre, Jakov Blumkin. Inizia così il viaggio di Salmon che insegue in tutta Europa la vita epica di Blumkin e al tempo stesso la sua stessa vita, il tempo in cui era stato anche lui un bolscevico. Un bolscevico per modo di dire, certo, ma pur sempre un bolscevico. Blumkin era un čekista e un poeta, un mistico e un assassino, fu amico dei più grandi poeti e dei boia della Lubjanka. Era l’uomo dai mille volti: ora il viso sfilato, ora appesantito; in alcune foto sembra avere vent’anni, in altre ne dimostra quaranta. Eppure era lo stesso uomo, Jakov Blumkin, alias ‘Il Lama’, alias ‘Sultano Zade’. O ‘Živoj’ che significa ‘il Vivo’, come lo aveva soprannominato Majakovskij una sera che lo aveva incontrato in uno dei caffè letterari alla moda che frequentava. Ma per altri era un personaggio di finzione inventato e lanciato nel mondo dai servizi segreti sovietici come copertura per ogni affare losco. La sua breve apparizione sulla terra resterà segnata da due colpi di pistola: quello che sparò all’ambasciatore tedesco il 6 luglio 1918 e quello che mise fine alla sua vita il 3 novembre 1929, quando non aveva ancora trent’anni. Fra queste due detonazioni, la vita di Blumkin si dispiega in un cielo di congetture, come un fenomeno luminoso che si consuma sotto i nostri occhi.