"Erano passati pochi giorni dagli attentati terroristici di Parigi del 13 novembre 2015, quando ricevetti la telefonata di un vecchio amico: 'Franco, dovrei partire con la mia famiglia per una vacanza. Che dici? Annullo tutto? Dobbiamo avere paura?'. È stato dopo quella conversazione che ho deciso di scrivere questo libro. La preoccupazione del mio amico era la stessa, come dimostrano tutti i sondaggi, della maggioranza degli italiani che, di fronte alla barbarie terrorista o alla forza di intimidazione della criminalità organizzata, sempre più spesso rispondono con la paura. Che tende a trasformarsi in razzismo, xenofobia, se non addirittura in collaborazione, magari involontaria, con i mafiosi. Proprio per questo diventa una priorità spiegare perché è necessario non avere paura: continuare a uscire, viaggiare, frequentare cinema e concerti significa lottare contro i terroristi, il cui unico obiettivo è privarci delle nostre libertà. Così come denunciare chi chiede il pizzo, le imprese che alterano la libera concorrenza, i mafiosi che truccano gare d'appalto e concorsi pubblici, fidandosi dello Stato che è in grado di garantire sicurezza e protezione, significa liberarsi dalle catene con cui la criminalità organizzata tenta di imprigionare, ogni giorno, le nostre vite."
"Mafia Republic si basa su due semplici principi: il primo è che fra le tre grandi mafie italiane esistono molte più differenze di quanto potrebbe sembrare a prima vista. L'altro principio è che a dispetto di queste differenze le mafie hanno molto in comune, innanzi tutto il rapporto perverso con lo Stato italiano. Uno Stato in cui si sono infiltrate, con cui hanno collaborato, contro cui hanno combattuto. L'Italia non ha entità criminali statiche e solitarie, ma un ricco ecosistema malavitoso che continua ancora oggi a generare nuove forme di vita." Questo è il racconto di una storia lunga più di sessant'anni che si intreccia in molte, troppe, fasi con quella della Repubblica italiana.
Un uomo sapeva già tutto del disastro ambientale nella cosiddetta Terra dei fuochi. Vent'anni fa conosceva nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la feccia peggiore della malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria. Aveva scritto un'informativa rimasta per anni chiusa in un cassetto e ritenuta non degna di approfondimenti, ha continuato il suo impegno depositando, nell'ultimo periodo della sua vita, un'altra informativa. Quest'uomo si chiamava Roberto Mancini, è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro. Sarà riconosciuto dal ministero dell'Interno come "vittima del dovere". Un giovane poliziotto cresciuto tra le fila della sinistra extraparlamentare negli anni confusi e violenti della contestazione. Manifestazioni, picchetti, scontri di piazza, poi la scelta della divisa, per molti incomprensibile e spiazzante, per Mancini del tutto naturale. Una grande storia di passione, impegno e coraggio. Questo libro finalmente la racconta tessendo insieme con delicatezza e profondità le testimonianze dei colleghi e della famiglia (la moglie Monika, che ha collaborato alla stesura, la figlia Alessia, che aveva tredici anni quando il papà è morto), i documenti, oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini, che restituisce la sua verità e tutto il senso della sua battaglia umana e professionale. Una storia chiusa per anni nel silenzio e oggi riscoperta, oggetto di una fiction con Giuseppe Fiorello.
Palermo come Beirut. Bombe, mitra, pistole, un arsenale da guerra per lo scontro tra clan mafiosi che insanguina la città dal 1979 al 1986, con un bilancio terribile: mille morti, 500 vittime per strada, altre 500 rapite e scomparse, lupara bianca. Una "mattanza", mentre il resto d'Italia vive l'allegra frenesia degli anni Ottanta. La "Milano da bere". E la Palermo per morire. L'escalation comincia il 23 aprile 1981, quando viene ucciso Stefano Bontade, "il falce", potente boss di Cosa Nostra. È un omicidio dirompente, che semina il panico nelle file delle più antiche famiglie mafiose, ribaltando gerarchie, alleanze, legami d'affari. Centinaia di altri morti seguiranno. Quasi tutti per mano dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano e dei loro alleati, i Greco, i Brusca, i Marchese: i boss in ascesa, che tramano, tradiscono, ingannano, uccidono per dominare il campo degli interessi: droga, appalti pubblici, armi, soldi. Tanti soldi. Non è solo una guerra interna alla mafia. Nel mirino dei killer, anche uomini con la schiena dritta al servizio delle istituzioni, come Piersanti Mattarella e Pio La Torre (alfieri del "buon governo" e di una politica efficace e pulita, contrapposta alle collusioni di Vito Ciancimino e alle ambiguità di Salvo Lima), Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Carlo Alberto dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Ninni Cassarà, e altri poliziotti e carabinieri, magistrati, giornalisti, medici, imprenditori che non si sono piegati alle intimidazioni.
Maria è una testimone di giustizia. Non una pentita. Non una collaboratrice. Non ha commesso reati, non è stata complice di niente, non ha sbagliato davanti alla legge. Ha solo visto l'impossibile, l'incredibile che non ha voluto accettare subito, l'impensabile per una ragazza innamorata. È fuggita e ha deciso di vivere di nuovo. E ha subito violenza, tanta, sino a quando ha detto basta. E ha deciso di vivere di nuovo.
Gaetano Vassallo è il manager dei rifiuti che per primo ha collaborato con la giustizia dando il via, con le sue confessioni, a tredici processi, alcuni dei quali ancora in corso. Cresciuto nella discarica del padre, nella campagna tra Caserta e Napoli, inizia nel 1982, poco più che ventenne, a gestire con la famiglia uno sversatoio e a organizzare traffici destinati ad arricchire in pochi anni tutti e dieci i fratelli. All'inizio si tratta di mettere a disposizione dei comuni della zona le cave dove scaricare l'immondizia. Poi arrivano, sempre più numerose, le richieste delle grandi aziende di tutta Italia, che cercano il modo per smaltire gli scarti industriali risparmiando sui costi. È allora che la camorra entra in campo e che Vassallo diventa il "ministro dei rifiuti" di Francesco Bidognetti, boss dei casalesi. Nelle discariche si accumulano i veleni: residui di concerie, oli di veicoli rottamati, scorie di lavorazioni industriali, ceneri e fanghi che sterminano perfino i topi. Le voragini si moltiplicano, i sacchi vengono incendiati per far posto a nuovi carichi. La spazzatura è nascosta sotto le strade in costruzione e nelle fondamenta dei palazzi, i liquami si usano per irrigare i campi. Boss e imprenditori lavorano indisturbati, perché chi dovrebbe controllare è a libro paga dei clan, e l'affare diventa sempre più sporco e redditizio, fino alla beffa dell'intervento del governo che, per risolvere l'emergenza rifiuti in Campania, sovvenziona gli stessi camorristi.
La questione del rapporto tra Chiesa cattolica e mafia è una ferita aperta. E non è non parlandone o minimizzandola che se ne può guarire. La posta in gioco, scrive Rosario Giuè, è la stessa credibilità della Chiesa italiana nell'annuncio del Vangelo nel Paese. Per questo è necessario indagare su quale è stato l'atteggiamento dell'Episcopato italiano, massima istituzione ecclesiale italiana, di fronte al potere mafioso in vista di una generosa testimonianza, come direbbe papa Francesco, di "Chiesa in uscita".
"Storia dell'Italia mafiosa" rappresenta un'importante innovazione nello studio e nell'analisi dei fenomeni mafiosi in Italia. Viene ricostruita in maniera unitaria la storia della mafia, della 'ndrangheta e della camorra, dalla nascita nel Mezzogiorno borbonico, allo sviluppo nell'Italia post unitaria, al definitivo affermarsi in età repubblicana, fino ai nostri giorni. Si è dinanzi ad un grande affresco storico che individua le ragioni di fondo di un modello criminale il cui successo dura ininterrottamente da duecento anni. Il volume rappresenta inoltre il contributo più significativo al superamento delle interpretazioni dominanti delle mafie come frutto esclusivo del Mezzogiorno, della sua arretratezza economica e sociale, di una cultura omertosa e complice. Isaia Sales dimostra come quel racconto, pressoché immutato da due secoli, continui a costituire un formidabile ostacolo alla comprensione delle mafie e a rappresentare, nella migliore delle ipotesi, un colossale abbaglio. Pagine appassionanti svelano perché le mafie, nonostante gli auspici di tanti, non siano state sconfitte dalla "modernità", anzi si siano trovate pienamente a loro agio dentro di essa, senza alcun imbarazzo. E sono ancora qui nell'Italia post moderna di oggi, nel mondo di Google e dell'I-pad. E non solo nel Mezzogiorno.
Una corrispondenza durata 26 anni tra un ergastolano e il suo giudice. Nemmeno tra due amanti, ammette l'autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. Questo non è un romanzo di invenzione, ma una storia vera. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all'ergastolo Salvatore, uno dei capi a dispetto dei suoi 28 anni, con il quale il presidente della Corte d'Assise ha stabilito un rapporto di reciproco rispetto e quasi - la parola non sembri inappropriata - di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d'impulso e gli manda un libro. Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore che gli ricorda, "se io nascevo dove è nato suo figlio adesso era lui nella gabbia". Non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. La corrispondenza continua, con cadenza regolare caro presidente, caro Salvatore. Il giudice nel frattempo è stato eletto al CSM, è diventato senatore, è andato in pensione...
Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio avevano 18 anni. Il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, vennero uccisi a Milano, in via Mancinelli, da otto colpi di pistola sparati da un commando di tre killer professionisti rimasti a oggi ignoti. Trentasette anni dopo il duplice omicidio e a distanza di quattordici anni dalla sua prima edizione, esce la versione aggiornata di questo libro diventato ormai un punto di riferimento per la controinformazione e il giornalismo d'inchiesta nel nostro Paese. Biacchessi racconta la storia di ragazzi uccisi solo per le loro idee, in una città plumbea e violenta come la Milano di allora. E narra le indagini ufficiali e quelle parallele, fino a formulare alcune ipotesi investigative ancora attuali, dopo le ultime inchieste su Massimo Carminati e Mafia Capitale. Quello di Fausto e Iaio fu un omicidio organizzato da neofascisti e da uomini della banda della Magliana. Questa è la verità che non si potrà archiviare. E che ci dice molto su quegli intrecci fra criminalità e servizi segreti che ancora affliggono il nostro Paese.
Questo libro cambia la storia d’Italia. L’incontro di cui parla – fra vittime e responsabili della lotta armata degli anni settanta – è infatti destinato ad avviare un radicale cambio di paradigma storico: non si potrà più guardare agli «anni di piombo», ai loro fantasmi e incubi, con gli stessi occhi; né si potrà tornare a un’idea di giustizia che si esaurisca nella pena inflitta ai colpevoli.
Le prime pagine ancora oggi dedicate alla lotta armata e alle stragi, le centinaia di libri pubblicati, i film, le inchieste dimostrano non tanto un persistente desiderio di sapere – comunque diffuso, anche a causa di verità giudiziarie spesso insoddisfacenti –, ma anche e soprattutto un bisogno insopprimibile di capire, di fare i conti con quel periodo, fra i più bui della nostra storia recente.
È proprio muovendo dalla constatazione che né i processi né i dibattiti mediatici all’insegna della spettacolarizzazione del conflitto sono riusciti a sanare la ferita, che un gruppo numeroso di vittime, familiari di vittime e responsabili della lotta armata ha iniziato a incontrarsi, a scadenze regolari e con assiduità sempre maggiore, per cercare – con l’aiuto di tre mediatori: il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato – una via altra alla ricomposizione di quella frattura che non smette di dolere; una via che, ispirandosi all’esempio del Sud Africa post-apartheid, fa propria la lezione della giustizia riparativa, nella certezza che il fare giustizia non possa, e non debba, risolversi solamente nell’applicazione di una pena.
Il libro dell’incontro racconta questa esperienza, accostando una rigorosa riflessione metodologica alle vive voci dei protagonisti, alle lettere che si sono scambiati negli anni, alle loro parole fragili, pronte al cambiamento, alla loro ricerca di una verità personale e curativa che vada oltre la verità storica e sappia superare ogni facile schematismo. Perché solo cercando insieme la giustizia, la si può, almeno un poco, avvicinare.
Il 30 gennaio 1992 fu una calda giornata d'inverno, a Palermo. Ma al celebre Maxiprocesso il gelo avvolse gli imputati di Cosa Nostra, che ricevettero condanne in Cassazione tanto dure quanto inaspettate. Non doveva andare in quel modo, non secondo gli accordi. Nessun giudice, nessun politico, nessuno avrebbe dovuto voltare loro le spalle. Inizia così uno dei periodi più cupi della storia italiana: quello delle stragi di Capaci e di via D'Amelio, delle vittime innocenti della lotta contro il sistema criminale più pericoloso. La morte dei giudici Falcone e Borsellino lanciò un forte segnale alle istituzioni: la mafia non voleva essere sottomessa dallo Stato, e avrebbe eliminato ogni ostacolo sulla sua strada. Per questo qualcuno scelse di scendere a patti con il nemico, di trattare piuttosto che combattere contro l'illegalità. Ma c'è stata davvero la Trattativa? Ce n'è stata solo una? Chi mercanteggiò con Cosa Nostra? In questo libro Roberta Ruscica ricostruisce intrecci, accordi, contatti, l'affaire mafia-appalti e descrive, attraverso le parole dei pentiti, i retroscena più inquietanti della Cupola, da come vennero prese le decisioni più infauste alla progettazione di piani destabilizzanti, attuati e non. Dai boss di Cosa Nostra ai boss di Stato, un libro inchiesta che apre nuovi e documentati scenari. Con un'intervista esclusiva a Teresa Principato, il procuratore aggiunto di Palermo in prima linea nella caccia al superlatitante Matteo Messina Denaro.