La vita umana ha un senso? E se sì, quale? Da che cosa o da chi proviene? E che senso ha, o può ricevere, la nostra vita, l'unica che davvero ci appartiene? In uno stile chiaro e divulgativo, il testo va alla ricerca di possibili risposte con l'aiuto della filosofia e del cinema, considerate due attività sorelle, in costante e serrato dialogo tra di loro. Sette film famosi (Il Gladiatore; Carlito's Way; Se mi lasci ti cancello; Déjà vu; Oxford Murders; Una settimana da Dio; lo, robot) sollecitano e introducono altrettante riflessioni filosofiche sul mistero dell'esistenza che chiamano in causa Aristotele, Marco Aurelio, Leibniz, Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, e tanti altri ancora. I temi affrontati - la libertà e la necessità, la memoria e la progettualità, l'etica dei principi e quella delle conseguenze, la razionalità e il sentimento - sono argomenti cari al dibattito filosofico di ogni tempo, ma in questo caso sono considerati a partire dalla loro concreta incarnazione nelle vicende esemplari dei protagonisti dei film. Dall'indagine emerge quale filo rosso decisivo il concetto di biografia, una vita che da puro fatto biologico si trasforma in evento propriamente umano, il cui senso è affidato alla libertà e alla responsabilità di ciascuno.
L'entertainment non gode di buona reputazione rispetto alla cultura "alta", ma l'intreccio fra intrattenimento, spettacolo, politica e consumo è ormai inestricabile. Lo troviamo ovunque, nei media e nella pubblicità, ma investe anche il turismo e le crociere, la ristorazione e la moda, il gioco d'azzardo e la fitness, i parchi a tema, i centri commerciali. Una grande area di produzione e diffusione di contenuti culturali, che vale più del 10% dei consumi, e che incontra oggi Internet e i social network. Un linguaggio dominante, involucro necessario di ogni prodotto, evento, partito che voglia farsi scegliere.
Il libro offre un panorama ricco e articolato sul passato e sul futuro delle immagini (cinema, televisione, fotografia, arti visive).
Un testo su uno dei massimi cineasti viventi ancora in attività: Manoel De Oliveira.
Manoel de Oliveira (1908) - Tra i massimi cineasti viventi ancora in attività, la sua età è quasi quella del cinema e la sua opera ne ha attraversato scoperte, figure, mutamenti, nella costruzione di uno stile e di uno spessore filosofico che si traduce ogni volta in cristalline ed enigmatiche espressioni artistiche.
Il regista lusitano è Maestro di un cinema di pensiero entro cui si dipanano i valori dell’immagine, la costruzione dello spazio filmico, l’esplorazione del tempo e del gesto, l’interrogazione del linguaggio, la densità simbolica, la misura classica della poesia, il senso universale della storia, il sentimento del mistero, l’enigma della religiosità.
Nei suoi film la centralità del cinema nell’orizzonte del moderno si misura sul rapporto costante con le arti, dal teatro alla parola letteraria, dalla pittura alla musica. Il suo amore per la tradizione si accompagna a una inesausta tensione sperimentale. Ciò fin da un film-chiave della avanguardia cinematografica come Douro, lavoro fluviale (1931) e attraverso la forma singolare di realismo fantastico di Aniki-Bóbó (1942), passando per quello straordinario documento poetico di vita e verità che è Atto di primavera (1963) e per la rivelazione del sublime nella forma-melodramma della quadrilogia degli amori impossibili Il passato e il presente (1971), Benilde o la vergine madre (1975), Amor di perdizione (1978), Francisca (1981), arrivando a film estremi nella durata e nella ricchezza immaginaria come Le soulier de satin (1985), nelle sue sette ore, o come il folgorante apologo di Il mio caso (1986), interrogativo sul senso dell’arte nel mondo contemporaneo, realizzando meditazioni sui destini storici e sulle domande filosofiche dell’umanità come No, o la folle gloria del comando (1990), La Divina Commedia (1991), Parole e utopia (2000), Un film parlato (2003), Il quinto Impero (2005) e struggenti elegie sulle imperscrutabili vie di un amore che si incarna tra misticismo e desiderio, come in La valle del peccato (1993), I misteri del convento (1995), Inquietudine (1998), La lettera (1999), Il principio dell’incertezza (2002), Specchio magico (2005), Belle toujours - Bella sempre (2006), Singolarità di una ragazza bionda (2009).
Fino ad oggi il suo lavoro instancabile ci ha dato opere ogni volta sorprendenti, fino a giungere, come avviene in Lo strano caso di Angelica (2010) e in O Gebo e a Sombra (2012), alla capacità di filmare l’invisibile, di spingere lo sguardo oltre lo specchio, laddove il cinema e la vita sembrano congiungersi in una visione limpida e insieme arcana.
Bruno Roberti (Napoli, 1955) - Critico cinematografico, docente di “Istituzioni di regia” e “Stili di regia cinematografica” all’Università della Calabria. Studioso di cinema e teatro, regista, sceneggiatore, curatore di festival e rassegne.
Ha studiato al Dams di Bologna e al Centro Sperimentale di Cinematografia.È membro del direttivo delle riviste «Filmcritica» e «Fata Morgana», dove ha pubblicato numerosi saggi. È stato redattore esperto per l’Enciclopedia del Cinema Treccani diretta da Enzo Siciliano, e collabora come autore con l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani per la stesura delle voci di argomento cinematografico.
È autore di saggi sul lavoro di registi come Raoul Ruiz, Mario Martone, Abbas Kiarostami, Wim Wenders, John Boorman, Julio Bressane, Roman Polanski, Amos Gitai, Stanley Kubrick, Martin Scorsese, Clint Eastwood, Manuel de Oliveira, João César Monteiro.
Tra le sue pubblicazioni recenti: Cinema Alchimia Uno (Bari, 2012), Ruiz Faber (con E. Bruno, L. Esposito e D. Turco, Roma, 2007), Senso come rischio (con L. Esposito e D. Turco, Recco, 2010), Spazio Wenders (con R. De Gaetano e E. Arnone, Cosenza, 2009), Morfologie dell’Iguana: Anna Maria Ortese tra cinema e letteratura (con M. Ganeri, Cosenza, 2011).
Ha scritto per il cinema le sceneggiature dei film Domenica (2001) di Wilma Labate, Il diario di Matilde Manzoni (2002) di Lino Capolicchio, ed è stato collaboratore artistico del film L’Iguana di Catherine McGilvray (2003).
Un passato fastoso, un presente difficile, e una inesauribile riserva di sogni: è l'eredità che riceve alla nascita Pupi Avati, figlio di due mondi, la ricca borghesia urbana bolognese e l'arcaica tradizione contadina di Sasso Marconi. La galleria degli antenati è unica: la bisnonna Olimpia, asolaia emigrata in Brasile in cerca di fortuna con i tre figli piccoli, il nonno Carlo che trovò moglie grazie a venticinque bignè, gli zii materni che ogni anno portavano ai Savoia le ciliegie di Sasso Marconi, il nonno Giuseppe che chiese alla Madonnina del Paradiso una grazia "fatale", i genitori protagonisti di una incredibile storia d'amore... Con questi presupposti, come stupirsi se la tua vita diventa un'unica grande avventura, dalla via Emilia a Cinecittà? Nella Bologna del dopoguerra si svolge l'educazione sentimentale di Pupi, un ragazzo timido ma un po' mascalzone, un perdigiorno con una bruciante passione per il jazz, un rapporto complesso con le donne, un amore irreversibile per il cinema. Poi l'addio alla carriera da musicista, la parentesi come rappresentante di surgelati, i difficili esordi cinematografici, la Roma degli artisti, l'insolito lavoro con Pasolini, i pedinamenti per conoscere il maestro Fellini, i successi di pubblico e critica. "La grande invenzione" racconta tutto questo e molto altro ancora.
Come se penetrassimo fra le pagine di un diario scritto in prima persona, questo libro ci introduce nell'intimità di Audrey Hepburn e ci fa scoprire gli aspetti più privati dell'attrice che ha fatto innamorare uomini straordinari e continua ad affascinare le donne di oggi. Si passa attraverso una raccolta di materiale inedito, aneddoti, testimonianze di persone che l'hanno conosciuta da vicino, fino a consigli di ogni sorta: dallo yoga alla dieta, dai trucchi di bellezza alla cura della casa, dalle tecniche di seduzione al decalogo per avere successo nel lavoro, senza dimenticare momenti importanti della vita come l'amicizia o il rapporto con i figli. Seguiamo la diva nelle più diverse situazioni: l'infanzia durante la guerra, il mondo di Hollywood, i matrimoni; persino dentro ai camerini, dove è lecito curiosare tra i set cinematografici che hanno lasciato il segno, da "Sabrina" a "Colazione da Tiffany" a "Vacanze romane". Scopriamo così che Audrey ha lasciato un'eredità quanto mai preziosa per quelle "eterne ragazze" - e sono sempre di più - che vorrebbero essere come lei.
Questa è una storia che attrae e fa paura. Sembra che i protagonisti siano Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, i due attori che furono fucilati dai partigiani in una via di Milano; ma è così solo in parte. Più di altri personaggi, vittime della guerra e della guerra civile che imperversarono in Italia dal 1940 al 1945, i due divi più cari al pubblico del fascismo appartengono a una lacerante vicenda che stenta a chiudersi. La loro fine è stata chiarita, ma non abbastanza; le loro colpe sono state accertate, ma non abbastanza; la decisione di fucilarli è stata motivata, ma non abbastanza. Il dramma continua, alimentato dal senso di colpa di un'Italia che fu fascista in massa e che non sa staccarsi dal passato. La luce su un periodo su cui è stato scritto molto, e di tutto, si fa a volte sfocata, confusa, e comunque sempre cupa, terribile, carica di ambiguità. Come tante vicende italiane, di ieri e di oggi.
"Ho bisogno della bellezza, così come amo ogni anelito dell'uomo per compararsi a essa. Rinuncerei a qualsiasi merito artistico pur di riuscire a fare della mia vita un'opera d'arte." È il principio che guida Ermanno Olmi in questa esplorazione di una vita, delle sue poche certezze e dei suoi molti incontri. Cresciuto nel pieno della disfatta fascista e testimone critico della rinascita nazionale, Olmi è stato giovanissimo fornaio, impiegato ragazzino, regista precoce. Ha vissuto direttamente l'abbandono delle campagne e l'esplosione della società dei consumi e per questo, divenuto protagonista della stagione d'oro del cinema italiano, ha scelto di rappresentare non i lustrini del Boom, ma la cecità di uno sviluppo che ha strappato il nostro Paese alle sue radici contadine. Proprio questa ferita è il cuore filosofico della sua illuminante autobiografia. L'"Apocalisse è un lieto fine" non è infatti solo il racconto di una vita densa e affascinante, degli incontri e dei successi che l'hanno segnata. È soprattutto la profonda, urgente riflessione con cui l'artista che ha saputo cogliere gli ultimi echi della civiltà rurale ci mette in guardia davanti al declino di un'altra epoca umana: la nostra. Abbiamo dimenticato cosa vuol dire "far bene" e coltivato a dismisura l'etica del male minore. Produttività, arricchimento e potere continueranno a rinchiuderci nelle loro gabbie fino a quando non saremo pronti a imparare l'eterna lezione della terra.
Le migliori battute di "Tutti pazzi per amore" divise per argomenti: Amore, Amicizia, Sesso, Genitori e Figli, Essere Nonni, Omosessualità, Bambini, Sogni e Fantasie, La Dura Realtà, Uomini e Donne, Come trovare il partner sbagliato, Ex, Suocere, Adolescenti, Il peggio del sesso maschile, Il peggio del sesso femminile, il Primo Appuntamento, Come dirsi addio nel modo peggiore. Ma oltre a questo sillabario della commedia (sentimentale e non) contemporanea, anche un'antologia di battute organizzate per personaggi. A chiudere il volume, un'appendice con tutte le cinquantadue risposte date al pubblico televisivo dall'ormai mitico tuttologo, il dottor Freiss, l'espertone in tutto.
Genere ambiguo e sfuggente, che lega desiderio e soggettività, discorso amoroso e pulsione di morte, il melodramma è presente nel cinema italiano fin dagli albori, seppure con modi e intensità differenti. Invasivo, magniloquente e a tratti silenzioso, si attesta in modo stabile nella produzione nazionale con riprese d'autore, infiltrazioni nel tessuto della modernità, recenti ritorni di maniera e riflessioni che consapevolmente guardano alla realtà contemporanea.
Attraverso una serie di puntuali analisi filmiche, il volume offre una singolare cartografia del melodramma cinematografico italiano, tratteggiando un paesaggio franto e diseguale dove si alternano apici di alta e dirompente popolarità, e momenti di esistenza più discreta ed episodica.
Parlare di cinema viene proposto per la seconda stagione e raccoglie le schede di approfondimento dei migliori film dell’anno. Volume di interesse per gli spettatori più esigenti che non si accontentano della semplice visione del film, è anche un valido strumento rivolto agli operatori culturali, insegnanti ed educatori che utilizzano il cinema in contesti didattici ed educativi. Il Centro San Fedele fornisce così un vero e proprio vademecum per creare percorsi cinematografici tematici da sviluppare anche nei cineforum.
"I commenti ai migliori film dell'anno. Un valido strumento per vivere il cinema non solo da spettatori".
L'Autore
Andrea Lavagnini (1985), laureato in chimica industriale presso l’Università degli studi di Milano, ha trasformato in professione la sua passione per il cinema alla scuola di Ezio Alberione e del Cineforum San Fedele. Autore radiofonico e di fumetti, scrive di cinema per Duellanti e Aggiornamenti Sociali. Dal 2010 è responsabile dei progetti giovanili presso la Fondazione San Fedele.
Giuseppe Zito (1976), gesuita dal 1994, si è laureato in filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, in teologia presso la Facoltà teologica San Luigi di Napoli e in regia cinematografica presso la Loyola Marymount University di Los Angeles. Autore cinematografico vincitore di premi internazionali, ha scritto di cinema per La Civiltà Cattolica e Aggiornamenti Sociali. Dal 2010 è responsabile del settore cinema della Fondazione culturale San Fedele.
"Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita. Il nostro è un mestiere particolare.
Se lo fai con passione non te ne puoi liberare.
Ti rimane dentro, non c'è niente da fare."
Proprio di "grande avventura" è il caso di parlare a proposito di Francesco Rosi, classe 1922, maestro indiscusso del cinema italiano che ha deciso di raccontare la propria vita e i segreti del suo mestiere a un altro straordinario regista, il suo amico Giuseppe Tornatore.
È in famiglia, nella Napoli degli anni Trenta, "legata a doppio filo con il suo mare", che tutto comincia: papà Sebastiano, appassionato di cinematografo, lo riprende con la sua Pathé Baby a passo ridotto e gli scatta magnifici fotoritratti, ispirandosi anche a Jackie Coogan, il celebre protagonista del Monello di Charlie Chaplin. Poi ci sono zio Pasqualino, "capoclaque " nei teatri di rivista, e zia Margherita, che oltre a somigliare a Ginger Rogers, lo accompagna ogni giovedì al cinema, dove il piccolo Francesco scopre la magia dei primi film muti.
Nell'immediato dopoguerra Rosi si trasferisce a Roma dove, insieme a una spiccata passione per il teatro e per la letteratura, porta con sé lo stupore per quelle sagome di ombre e luci che si agitano su uno schermo bianco. E capisce che il cinema diventerà il suo mestiere. Allievo e aiuto regista di Luchino Visconti, esordisce dietro la macchina da presa nel 1958 con La sfida, ma è con capolavori come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei e Lucky Luciano che conquista un posto di assoluto rilievo nel panorama del cinema internazionale, fino a essere riconosciuto il caposcuola di un'estetica della realtà che mai, prima di lui, aveva raggiunto vette di così vivida e concreta espressività.
Puntiglioso nell'approfondire il contesto storicodocumentario che doveva fare da ossatura narrativa ai propri film, attento alle evoluzioni del costume e alle oscure ambiguità della politica, Rosi ha lavorato accanto ai migliori talenti espressi dalla cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo, qui tratteggiati in pagine felici e importanti: intellettuali, critici, giornalisti come Ennio Flaiano, Sergio Amidei, Raffaele La Capria, registi come Rossellini e Fellini, attori del calibro di Gian Maria Volonté e Sophia Loren.
In questo libro-intervista che è insieme autobiografia e saggio critico, Rosi ci svela una miniera di informazioni e aneddoti che riguardano i suoi film e la sua straordinaria carriera di regista, senza lasciare "fuori campo" gli aspetti più intimi e privati di una vita intensa e coraggiosa, trascorsa accanto all'amatissima moglie Giancarla.
Grazie al confronto con Tornatore, alle sue domande sempre curiose e penetranti, Io lo chiamo cinematografo è anche l'appassionato ed entusiasmante racconto di mezzo secolo di cinema italiano.