"Chi volesse indugiare brevemente in una ricerca di frequenze lessicali si accorgerebbe con facilità di quante volte ricorrano i due verbi "fare" (hacer) e "vedere" (ver) sui quali sembra imperniarsi l'intero sistema degli Esercizi: fare orazione, fare scelta, fare colloquio, fare tutto ciò che, secondo la via tracciata da Ignacio, colui che dà gli esercizi indica a colui che li riceve; e vedere, con gli occhi di un'immaginazione spinta ai limiti dello stravolgimento, tutto ciò che si esorta a vedere, a sentire, in una continua osmosi tra parole di preghiera, pensieri, consolazioni, desolazioni e finalmente proposte di immagini, sempre e comunque fortemente materializzate, localizzate, rese attingibili ai sensi. Un po' come il prodotto, non prevedibile e però scarsamente governabile, dell'immaginazione poetica o ispirazione, che nasce anch'esso (come l'"illuminazione" a cui puntano gli Esercizi) da un'ékstasis ossia, letteralmente, da una dislocazione, da uno spostamento della sensibilità, da una distrazione della coscienza soggettiva, da un suo non esserci alle cose usuali, da un suo dimenticarsi nel silenzio in cui una voce "altra" parlerà, in uno spazio non dissimile da quello dell'autentico pregare (e questo è, più che un chiedere, un darsi)." (Dalla Postfazione di Giovanni Giudici)
Il volume raccoglie, oltre al Vangelo e le Lettere di Giovanni, La Grande Passione di Albrecht Dürer, l'opera con cui l'artista si riprometteva di replicare il grande successo della prima serie di stampe apocalittiche pubblicata nel 1498.
Sono le due domande che dovrebbe porsi il lettore che affronta l'opera di Heschel. Vuole sapere davvero ciò che vuole? Vuole davvero uscire dal disorientamento (non privo di vantaggi come ogni nevrosi) in cui tutti oggi vivono? Ma se desidera chiarezza e dunque libertà, avrà grazie a Heschel tutti gli aiuti possibili. Dovrà però fare i conti precisi con la sua tradizione. Se è ebreo, Heschel potrà inebriarlo d'una sobria ebbrezza rievocando felicità non necessariamente perdute. Ma a chiunque, di qualsiasi tradizione, Heschel porge lo stesso dono e ammaestra comunque nella cosa comune a ogni uomo che sia umanamente compiuto, l'arte di pregare , di congiungere il noto all'ignoto, e da quella premessa la tradizione specifica verrà rischiarata. Così Heschel giunge ad essere universale proprio perché saldamente particolare e insegna a chiunque come debba accogliere Chi lo sta cercando (quaerens me sedesti lapsus), l'essere assoluto che nella sua assolutezza può includere la pateticità dell'amante
Verso la fine del mese di febbraio 1431, nella gelida cappella del castello-fortezza di Rouen, Giovanna d'Arco compare per la prima volta davanti ai suoi giudici. Si tratta ufficialmente di un processo di "inquisizione in materia di fede" che vede una inerme ragazza di diciannove anni, reduce da una folgorante campagna di guerra, sottoposta al giudizio di autorevoli uomini di Chiesa legati al potere inglese; in realtà - e questo non sfugge a nessuno, nemmeno a Giovanna - il processo è politico. Al presidente del tribunale Cauchon e agli altri giudici gli inglesi avevano lasciato il compito di dare a questo processo tutte le apparenze della legalità. Ma di fronte a loro sta una vera forza della natura, un'adolescente che un anno di terribile prigionia non ha né domato né piegato. Alle domande Giovanna risponde con intelligenza e precisione, con foga e insolenza; si infervora nel rievocare la sua vita di soldato, racconta con grazia distaccata episodi della sua infanzia a Domrémy, risponde con testarda fierezza alle questioni riguardanti le sue Voci, diventa sbrigativa e insofferente quando le si rimprovera l'abito maschile o la non sottomissione alla Chiesa militante. Il contrasto violento tra le limpide convinzioni di Giovanna e, dall'altra parte, la forza pressoché inattaccabile delle istituzioni e dei loro provati meccanismi costituisce per chi legge oggi i documenti di questo processo un elemento di struggente drammaticità.
"In un bilancio dell'attività letteraria svolta nel 1848, Kierkegaard dichiara che 'La malattia mortale è certamente la cosa più perfetta e più vera ch'io abbia scritta' e la sua pubblicazione, come la scelta dello pseudonimo, gli procurò pene di spirito senza numero. Dalle indicazioni lasciate nelle Carte inedite sappiamo che nel suo primo abbozzo l'opera era stata concepita in forma di una serie di 'Discorsi edificanti' (i Talers Form) e riuscì invece il trattato più teoreticamente teso e organicamente costruito della teologia kierkegaardiana. [...] Si può ben dire che nessuno scritto dà, più di questo, il timbro profondo della sua anima e l'esatta impressione del suo potere di scavare i recessi più impervi dello spirito. Possiamo senz'altro dire che con 'La malattia mortale' si compie una nuova crisi definitiva nell'opera kierkegaardiana, che raggiunge la compiuta forma della sua maturità e positività." (dallo scritto di Camelia Fabro)
La storia del Sefer hêkalôt è probabilmente fra le più travagliate e affascinanti nell'intero corpus della letteratura mistica giudaica. Il testo attualmente disponibile sembra essersi formato in almeno tre tempi successivi intorno a un antico nucleo preesistente, il cui contenuto, di tenore fortemente apocalittico, è per molti versi affine a certe sezioni dello pseudepigrafo Libro di Henoch, cui l'intero nostro testo è stato a lungo direttamente ma impropriamente accostato. Redatto forse in area babilonese intorno al V-VI secolo d.C, il Sefer hêkalôt afferisce a quel ramo della speculazione cabalistica noto come ma'aseh merkavah o "Opera del Carro", il cui obiettivo è l'esperienza diretta della presenza di Dio. Tale esperienza, come insegnano le tradizioni, è conseguibile tramite pratiche ascetiche e un viaggio estatico attraverso le realtà ultra-terrene dei Cieli, dei campi angelici e dei Sette Santuari, di cui è possibile varcare le soglie eludendo la sorveglianza dei guardiani ad esse preposte grazie a inni, parole e simboli magici. Nel Sefer hêkalôt il viaggio verso la visione della merkavah è attribuito a Rabbi Ismael ben Elisa, un autorevole tanna realmente vissuto nella Palestina del I-II secolo d. C; gli fa da guida il Metatrôn, importante e complessa figura della speculazione cabalistica, misterioso "Angelo della Presenza" dimorante presso il trono divino.
"'Conosci te stesso, e conoscerai te stesso e Dio': il precetto dell'Apollo delfico, cifra essenziale della sapienza ellenica e cristiana, può essere considerato fondante anche per l'insegnamento eckhartiano. Esso si muove infatti tutto quanto intorno a questi due poli - che sono poi un'unica realtà: anima e Dio. È la traccia che, nel mondo cristiano d'Occidente, porta soprattutto l'impronta agostiniana; ma si può dire che Eckhart, seguendo Agostino - maestro da lui amato e citato più di ogni altro -, sia andato molto oltre Agostino, riapprodando direttamente all'esperienza stessa di Cristo, che è esperienza di identità tra l'anima e Dio. Infatti il domenicano tedesco non insegna a conoscere l'anima e Dio - come se i due fossero oggetti distinti e separati dal soggetto conoscente -, ma a generare il Logos, ovvero a diventare quello che si è - Logos appunto, spirito - e dunque a vivere la vera vita, che è la vita dello spirito. Come in ogni grande maestro, non vi è in Eckhart un conoscere separato dall'essere, dal vivere: si conosce davvero solo quello che si è, e che si fa - il diverso "sapere" è solo ideologia e mistificazione. Perciò non sono essenziali i libri - nemmeno i libri 'sacri': per quanto il domenicano abbia nei confronti della Scrittura tutto il rispetto che un medievale poteva avere, e al commento della Scrittura stessa abbia dedicato buona parte del suo lavoro intellettuale". (dallo scritto di Marco Vannini)
"Il libro, pubblicato nel 1929, è lo scritto di Hannah Arendt in cui maggiormente emerge l'inquietudine del rapporto con Heidegger. La trattazione dell'amore in Agostino segna l'abbandono di alcuni dei termini di riferimento del pensiero heideggeriano: l'essere per la morte, il presente come tempo della decisione. Oltre a questo, Hannah Arendt mette qui in campo tutta la ricchezza e la complessità dell'opera di Agostino, pensatore in bilico tra due mondi, quello greco e quello cristiano, impegnato in uno "sforzo tremendo", di cui sono segno le linee interrotte del suo pensiero, credente per il quale non si trattò di "abbandonare le incertezze della filosofia a favore di una verità rivelata, ma di scoprire le implicazioni filosofiche della sua fede".
"È difficile qualificare con esattezza il metodo seguito da Kierkegaard: la sua dichiarazione di voler fare unicamente un'indagine "psicologica" sulla natura del peccato originale va presa con cautela. La trattazione tocca di volta in volta i vari campi interessati al problema: la teologia dogmatica, la metafisica, la fenomenologia o psicologia in senso proprio. Ma se si deve dichiarare una dominanza, essa va attribuita alla metafisica tenendo presente all'inizio l'origine teologica del problema (il dogma del peccato originale) e gli spunti biblici della sua potente analisi fenomenologica (la tentazione, il demoniaco...) che operano continuamente in ogni punto del trattato. L'angoscia è il presupposto del peccato originale rispetto alla caduta di Adamo ed Eva, come lo è per la caduta nel peccato di ogni loro discendente. Il suo oggetto è il nulla ed è l'avvertenza di questo nulla che rivela all'uomo di essere una sintesi di anima e corpo nello spirito. Se l'angoscia può essere occasione di caduta e di perdizione, può anche e deve essere, con la sua scoperta degli orrori del peccato, una tappa per incamminarsi verso il bene e la salvezza: il più spaventoso e pericoloso di questi orrori è la tentazione del suicidio, ma l'uomo ha in sua mano un punto solido a cui ancorarsi, ed è precisamente la "fede" che mette in fuga ogni angoscia e rende possibile il dispiegamento positivo delle energie dello spirito per accostarsi a Dio". (Dallo scritto di Cornelio Fabro)
"Per tutto quell'anno durante il quale continuai a chiedermi incessantemente se non fosse meglio farla finita impiccandomi o cacciandomi una palla in fronte, il mio cuore era continuamente assediato da un sentimento tormentoso che non posso chiamare in altro modo se non come ricerca di Dio. [...] Era un sentimento di paura, di solitudine, l'impressione di sentirmi orfano in un mondo completamente estraneo e la speranza che qualcuno mi aiutasse. [...] Cadevo preda del terrore e allora cominciavo a pregare colui di cui andavo in cerca perché mi aiutasse. E quanto più pregavo, tanto più mi era evidente che nessuno mi ascoltava, che non c'era nessuno a cui rivolgersi. Ma sempre di nuovo, sempre per nuove vie e nuovi ragionamenti, giungevo alla conclusione che non potevo trovarmi al mondo senza un motivo, senza una causa o un senso qualsiasi, come un uccellino caduto dal nido, quale appunto mi sentivo. E se anche fossi stato un uccellino caduto dal nido che se ne sta rovesciato sul dorso pigolando nell'erba alta, ebbene, avrei comunque continuato a pigolare perché sapevo di avere una madre che mi aveva portato in sé, mi aveva covato, riscaldato, nutrito e amato, e dov'era ora questa madre? Se qualcuno mi aveva abbandonato, chi era mai? Non potevo negare che qualcuno mi avesse generato con amore, ma chi era costui? Era Dio".
"Rispondendo a Dio, disse Giobbe: "So che puoi tutto, e che nessun pensiero ti è nascosto. Chi v'è, che privo di sapienza trascura il tuo consiglio? E certo io ho parlato malamente, e di cose troppo più grandi del mio sapere. Ascoltami, e parlerò; ti interrogherò, rispondimi. Ti udii già con l'orecchio, ora ti ho visto con gli occhi; per questo mi riprendo, e fo penitenza sulla brace e sulla cenere"".
Verso la fine del mese di febbraio 1431, nella gelida cappella del castello-fortezza di Rouen, Giovanna d'Arco compare per la prima volta davanti ai suoi giudici. Si tratta ufficialmente di un processo di "inquisizione in materia di fede" che vede una inerme ragazza di diciannove anni, reduce da una folgorante campagna di guerra, sottoposta al giudizio di autorevoli uomini di Chiesa legati al potere inglese; in realtà - e questo non sfugge a nessuno, nemmeno a Giovanna - il processo è politico. Al presidente del tribunale Cauchon e agli altri giudici gli inglesi avevano lasciato il compito di dare a questo processo tutte le apparenze della legalità. Ma di fronte a loro sta una vera forza della natura, un'adolescente che un anno di terribile prigionia non ha né domato né piegato. Alle domande Giovanna risponde con intelligenza e precisione, con foga e insolenza; si infervora nel rievocare la sua vita di soldato, racconta con grazia distaccata episodi della sua infanzia a Domrémy, risponde con testarda fierezza alle questioni riguardanti le sue Voci, diventa sbrigativa e insofferente quando le si rimprovera l'abito maschile o la non sottomissione alla Chiesa militante. Il contrasto violento tra le limpide convinzioni di Giovanna e, dall'altra parte, la forza pressoché inattaccabile delle istituzioni e dei loro provati meccanismi costituisce per chi legge oggi i documenti di questo processo un elemento di struggente drammaticità.
«Oggi, come mai nella nostra storia, è necessario l'aiuto di un potere spirituale. E io credo che sicuramente una tale risorsa verrà scoperta nelle segrete profondità del nostro essere. Ci saranno dei pionieri che assumeranno su di sé questa impresa e le sofferenze che essa comporta; e in questa maniera apriranno la via a quel più elevato modo di vivere in cui risiede la nostra salvezza». Così scrive Tagore in un punto centrale di questo suo libro. Occidente e Oriente devono ritrovare la piattaforma comune di una religione universale fondata sull'uomo. Questa religione sarà affidata all'esiguo numero di coloro, «fuori mercato rispetto alla consuetudine sociale che attacca a ogni uomo un cartellino col prezzo», che hanno raggiunto un'esistenza liberata. Come quel pescatore, descritto da Tagore, che, cantando sulle rive del Gange il mistero del sorgere del sole e l'incanto del passare delle nuvole, «vive liberamente nel regno della luce».