«Secondo Hillman, la realtà fondamentale è formata dalle immaginazioni dell'"anima" (fantasie, sogni, deliri, sentimenti, regni della notte e del profondo), le onnipotenti forze psichiche che evocano e disperdono i mondi. Esse sono gli "Dei". Avanzando sulla strada imboccata da Jung, Hillman ripropone in questo libro una "psicologia non-agnostica" che, per la pluralità delle immaginazioni dell'anima, si confi gura come un vero e proprio "politeismo" ... "Re- visione della psicologia" significa allora riconoscere che religione e psicologia crescono sullo stesso terreno (non può esserci psicologia senza religione) e che la psicologia occidentale - il cui carattere nordico-protestante-monoteistico minaccia la "sopravvivenza dell'anima" e conduce lontano dal politeismo greco-rinascimentale - dev'essere abbandonata movendo "verso sud". La terapia non è un operare scientifico-razionale, ma "un lavoro che invoca gli Dei"» (Emanuele Severino)
Nella consistente letteratura generata dalla sua scoperta a oggi, l'LSD è sempre stato presentato come una via d'accesso privilegiata - e niente affatto spiacevole - a dimensioni della coscienza che generalmente ci sono precluse. Negli ultimi anni, tuttavia, la ricerca scientifica più avanzata lavora su virtù molto diverse degli «acidi», a cominciare dalla loro efficacia contro patologie infide quali le dipendenze, l'emicrania, le fasi acute della depressione. È una materia densa e al tempo stesso scivolosa, nella quale solo Michael poteva addentrarsi, affidandosi alla leggerezza, alla precisione e all'ironia della sua scrittura. Ne è venuto fuori questo personalissimo incrocio fra un diario di viaggio e la cronaca di un lungo esperimento, dove Pollan incontra una serie di uomini e donne straordinari - guru veri o presunti, scienziati serissimi, medici di frontiera -, e poi decide di provare in prima persona che cosa intendessero i profeti del lisergico per «toccare dio». Scoprendo la luce strana, violenta e terribilmente fascinosa che la sostanza più stupefacente di tutte sembra gettare sul mistero definitivo, quello che tuttora resiste alle nostre, spesso affannose, ricerche: la mente.
Sylvie ha diciassette anni ed è bella, procace, con un seno magnifico che eccita gli uomini e che la sera le piace guardare allo specchio, "afferrare a piene mani". Marie, invece, che ha un anno più dell'amica e insieme a lei è stata assunta come domestica alla pensione Les Ondines, è brutta e strabica, timida e un po' tonta; già a scuola, da piccola, le compagne "le giravano al largo, dicendo che il suo sguardo aveva un influsso malefico". Ma, di quello che passa per la testa di Sylvie, Marie intuisce tutto. Sa perché si spoglia davanti alla finestra aperta con la luce accesa, e sa anche che se Louis, il figlio ritardato ed epilettico della vecchia donna di servizio, si è impiccato la colpa è stata di Sylvie. Avida e sensuale, pronta a ogni bassezza per ottenere ciò che vuole, Sylvie lascerà il quartiere miserabile del paesino dov'è nata, e vivrà negli agi. Marie, che appartiene alla razza delle creature "segnate dalla malasorte", affronterà l'esistenza mediocre a cui è destinata. Più di vent'anni dopo le due donne si rincontreranno, a Parigi. Marie sarà di nuovo la schiava adorante di colei che odia, e la aiuterà persino a ereditare i milioni dell'uomo che da anni la mantiene. Ma riuscirà anche, finalmente, a ribaltare i ruoli e a prendersi una crudele rivincita.
Tra gli orrori di cui la storia del Novecento è stata prodiga, pochi sono paragonabili alla condizione dei besprizornye, come venivano chiamati nella Russia postrivoluzionaria gli innumerevoli bambini e ragazzini rimasti orfani in seguito alla guerra, alla guerra civile o alla carestia. Stimati tra i sei e i sette milioni nel 1921, sporchi, vestiti di stracci, vagavano da soli o in gruppi per le città e le campagne in cerca di cibo, spostandosi nel paese aggrappati alle balestre sotto i vagoni dei treni, trovando riparo dal gelo negli scantinati delle stazioni o dentro i cassonetti, spinti dalla fame a un crescendo di aggressività e violenza che arrivava fino al cannibalismo. Né potevano offrire un'alternativa a quella vita gli orfanotrofi pubblici: strutture, in tutto simili ai lager che di lì a poco sarebbero sorti per altri scopi, dove bambini scheletrici giacevano ammassati in condizioni spaventose. E se negli anni Venti il problema viene studiato sul piano sociale, politico, giudiziario, psicologico ed educativo, in seguito saranno imposti il silenzio e la censura da parte di uno Stato che non può certo ammettere un simile sfacelo nel 'paradiso' della società sovietica. Negli ultimi trent'anni il fenomeno è tornato oggetto di analisi e rigorose ricerche storiche. Ma solo Luciano Mecacci è riuscito, grazie a testimonianze dirette e documenti dell'epoca spesso trascurati, a offrirne una ricostruzione completa anche dall'interno, calandosi - e calandoci - nell'abisso psicologico e umano dei protagonisti di vicende che possono sembrare, oggi, semplicemente inverosimili.
L'opera di William Butler Yeats si sviluppa aggiogata con estro e piglio unici a una ricerca interiore strettamente collegata alla tradizione ermetica. Alchimia, occultismo, astrologia, folklore, miti e leggende: nulla di ciò che è arcano gli è estraneo; dietro l'ostensione conclamata delle dispute amorose, delle lotte politiche, delle battaglie teatrali, dell'inesausto certame poetico, una vena esoterica innerva quasi ogni suo testo e più di un gesto. Con candore inaudito, Yeats ha osato prospettare una lega di arte e vita, una pietra filosofale dell'arte: perno della compagine sono i saggi qui proposti, che concepì - e battezzò - come mitologie. Con la veemenza, lo smalto e l'irrisione che caratterizzano i suoi versi, esprimono il cimento di un artista che non teme di mettersi alla prova "alle Termopili". E il lettore incontrerà alcuni capisaldi di uno spericolato modus operandi: la via del camaleonte, la dottrina delle maschere, la disciplina eroica dello specchio.
«Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura di qualsiasi altra cosa: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane madre per i suoi figli e suo marito. La vita ha fatto di me il testimone di queste due sciagure, l'una dopo l'altra, e mi ha incaricato - o almeno io ho capito così - di raccontarle...». Il caso ha infatti voluto che Emmanuel Carrère fosse in vacanza nello Sri Lanka quando lo tsunami ha devastato le coste del Pacifico, e che si trovasse ad accompagnare una giovane coppia di connazionali lungo le penosissime incombenze pratiche necessarie per ritrovare il corpo della figlia di quattro anni; e che, pochi mesi dopo, gli accadesse di seguire un'altra vicenda dolorosa, quella che porterà alla morte per cancro la sorella della sua compagna. C'è un solo modo per ricevere il dolore degli altri: farlo diventare il proprio dolore. Questo è il compito che si assume Carrère, riuscendo a scrivere, senza mai cadere nell'enfasi, ma mettendo a fuoco con la precisione ossessiva di un reporter ogni minimo particolare, uno dei suoi libri più «scandalosi» - e proprio per questo più amati dai lettori.
«La mia storia d'amore con la rivoluzione è profondamente infelice» scrive Viktor Sklovskij a Gor'kij il 15 aprile 1922 dalla Finlandia, dove era fuggito per evitare l'arresto (si preparava il processo ai Socialisti Rivoluzionari di destra). «Negli allevamenti di cavalli ci sono stalloni che chiamano "ruffiani"... Il ruffiano monta sulla giumenta, lei prima si rifiuta e scalcia, poi inizia a concedersi. A quel punto il ruffiano viene trascinato via e fanno entrare il vero riproduttore... Noi socialisti abbiamo "scaldato" la Russia per i bolscevichi...». È questo l'unico giudizio dei fatti avventurosi e drammatici in cui Sklovskij si trovò coinvolto dopo la Rivoluzione di febbraio. Esperto di mezzi corazzati (nel '14 era entrato nell'esercito come volontario), fu su molti fronti di guerra, in Galizia, Persia, Ucraina. Più di una volta rischiò la vita, venne ferito, vide orrori e assurdità, partecipò a un complotto antisovietico subito fallito... Tutto è raccontato con un linguaggio erratico e digressivo, con impassibile distacco (apátheia, o forse quel meccanismo di «straniamento» che Sklovskij già da anni aveva formulato), in questo volume.
«Abietto, ridicolo, orrendo, sgradevole, insopportabile, ripugnante, disgustoso, ignobile, abominevole: sono questi gli aggettivi che ricorrono sulla bocca di Reger quando parla del mondo e della vita, della società e degli uomini, della cultura e dell'arte. Sì, anche di quell'arte che egli conosce come pochi, forse come nessuno, e nella quale ha sempre cercato la propria salvezza, ma che anche nelle sue espressioni più eccelse (i "capolavori" dei Grandi Maestri) si è rivelata un rimedio illusorio. "Antichi Maestri" uscì nell'85, quattro anni prima della morte di Bernhard. Come in tutti gli altri suoi libri, anche in questo una cosmica nausea si abbatte come una lava su tutto e su tutti, uomini e istituzioni, cultura e società, e soprattutto sull'universale trionfo del kitsch nel pensiero e nell'arte» (Ruggero Guarini).
Una donna cerca risposta agli interrogativi che la morte della sorella ha lasciato insoluti: perché, senza un motivo apparente, aveva cominciato a detestarla? Perché, pur essendo in tutto più dotata, si sentiva inferiore a lei? Perché sembrava tenere la vita a distanza, "come se scansasse del cibo dall'odore nauseante"? E nel secondo pannello di questo dittico di racconti un'altra donna, per sfuggire a un'esistenza che la intossica, a poco a poco si trasforma in una pianta: la sua inquietudine si placa, il suo corpo sofferente fiorisce e dà frutti - prima di appassire, forse per sempre. Ci sembra di conoscerle, queste figure femminili che richiamano i motivi e l'aura della Vegetariana, ma non cessano di stupirci per la loro straniata singolarità. Creature dolenti, sedotte dal richiamo dell'autoannientamento come unica forma di difesa dalla violenza insita nel nutrirsi, nel sentire, nel vivere. "Presto, lo so, perderò anche la capacità di pensare, ma sto bene. È da tanto tempo ormai che sognavo questo, di poter vivere solo di vento, sole e acqua". Col suo tocco elusivo, la prosa scabra di Han Kang sfiora ancora una volta l'orrore senza spiegarlo e ci lascia, attoniti, a contemplare la disturbante malìa del rifiuto di sé.
«È tutt'altro che un'opera ascetica: è un romanzo pieno di sesso ai limiti del consenziente, di atti di alimentazione forzata e purificazione - in altri termini di violenza sessuale e disordini alimentari, mai chiamati per nome nell'universo di Han Kang ... Il racconto di Han Kang non è un monito per l'onnivoro, e quello di Yeong-hye verso il vegetarianesimo non è un viaggio felice. Astenersi dal mangiare esseri viventi non conduce all'illuminazione. Via via che Yeong-hye si spegne, l'autrice, come una vera divinità, ci lascia a interrogarci su cosa sia meglio, che la protagonista viva o muoia. E da questa domanda ne nasce un'altra, la domanda ultima che non vogliamo davvero affrontare: "Perché, è così terribile morire?"». (The New York Times)