
L'opera di William Butler Yeats si sviluppa aggiogata con estro e piglio unici a una ricerca interiore strettamente collegata alla tradizione ermetica. Alchimia, occultismo, astrologia, folklore, miti e leggende: nulla di ciò che è arcano gli è estraneo; dietro l'ostensione conclamata delle dispute amorose, delle lotte politiche, delle battaglie teatrali, dell'inesausto certame poetico, una vena esoterica innerva quasi ogni suo testo e più di un gesto. Con candore inaudito, Yeats ha osato prospettare una lega di arte e vita, una pietra filosofale dell'arte: perno della compagine sono i saggi qui proposti, che concepì - e battezzò - come mitologie. Con la veemenza, lo smalto e l'irrisione che caratterizzano i suoi versi, esprimono il cimento di un artista che non teme di mettersi alla prova "alle Termopili". E il lettore incontrerà alcuni capisaldi di uno spericolato modus operandi: la via del camaleonte, la dottrina delle maschere, la disciplina eroica dello specchio.
«Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura di qualsiasi altra cosa: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane madre per i suoi figli e suo marito. La vita ha fatto di me il testimone di queste due sciagure, l'una dopo l'altra, e mi ha incaricato - o almeno io ho capito così - di raccontarle...». Il caso ha infatti voluto che Emmanuel Carrère fosse in vacanza nello Sri Lanka quando lo tsunami ha devastato le coste del Pacifico, e che si trovasse ad accompagnare una giovane coppia di connazionali lungo le penosissime incombenze pratiche necessarie per ritrovare il corpo della figlia di quattro anni; e che, pochi mesi dopo, gli accadesse di seguire un'altra vicenda dolorosa, quella che porterà alla morte per cancro la sorella della sua compagna. C'è un solo modo per ricevere il dolore degli altri: farlo diventare il proprio dolore. Questo è il compito che si assume Carrère, riuscendo a scrivere, senza mai cadere nell'enfasi, ma mettendo a fuoco con la precisione ossessiva di un reporter ogni minimo particolare, uno dei suoi libri più «scandalosi» - e proprio per questo più amati dai lettori.
«La mia storia d'amore con la rivoluzione è profondamente infelice» scrive Viktor Sklovskij a Gor'kij il 15 aprile 1922 dalla Finlandia, dove era fuggito per evitare l'arresto (si preparava il processo ai Socialisti Rivoluzionari di destra). «Negli allevamenti di cavalli ci sono stalloni che chiamano "ruffiani"... Il ruffiano monta sulla giumenta, lei prima si rifiuta e scalcia, poi inizia a concedersi. A quel punto il ruffiano viene trascinato via e fanno entrare il vero riproduttore... Noi socialisti abbiamo "scaldato" la Russia per i bolscevichi...». È questo l'unico giudizio dei fatti avventurosi e drammatici in cui Sklovskij si trovò coinvolto dopo la Rivoluzione di febbraio. Esperto di mezzi corazzati (nel '14 era entrato nell'esercito come volontario), fu su molti fronti di guerra, in Galizia, Persia, Ucraina. Più di una volta rischiò la vita, venne ferito, vide orrori e assurdità, partecipò a un complotto antisovietico subito fallito... Tutto è raccontato con un linguaggio erratico e digressivo, con impassibile distacco (apátheia, o forse quel meccanismo di «straniamento» che Sklovskij già da anni aveva formulato), in questo volume.
«Abietto, ridicolo, orrendo, sgradevole, insopportabile, ripugnante, disgustoso, ignobile, abominevole: sono questi gli aggettivi che ricorrono sulla bocca di Reger quando parla del mondo e della vita, della società e degli uomini, della cultura e dell'arte. Sì, anche di quell'arte che egli conosce come pochi, forse come nessuno, e nella quale ha sempre cercato la propria salvezza, ma che anche nelle sue espressioni più eccelse (i "capolavori" dei Grandi Maestri) si è rivelata un rimedio illusorio. "Antichi Maestri" uscì nell'85, quattro anni prima della morte di Bernhard. Come in tutti gli altri suoi libri, anche in questo una cosmica nausea si abbatte come una lava su tutto e su tutti, uomini e istituzioni, cultura e società, e soprattutto sull'universale trionfo del kitsch nel pensiero e nell'arte» (Ruggero Guarini).
Una donna cerca risposta agli interrogativi che la morte della sorella ha lasciato insoluti: perché, senza un motivo apparente, aveva cominciato a detestarla? Perché, pur essendo in tutto più dotata, si sentiva inferiore a lei? Perché sembrava tenere la vita a distanza, "come se scansasse del cibo dall'odore nauseante"? E nel secondo pannello di questo dittico di racconti un'altra donna, per sfuggire a un'esistenza che la intossica, a poco a poco si trasforma in una pianta: la sua inquietudine si placa, il suo corpo sofferente fiorisce e dà frutti - prima di appassire, forse per sempre. Ci sembra di conoscerle, queste figure femminili che richiamano i motivi e l'aura della Vegetariana, ma non cessano di stupirci per la loro straniata singolarità. Creature dolenti, sedotte dal richiamo dell'autoannientamento come unica forma di difesa dalla violenza insita nel nutrirsi, nel sentire, nel vivere. "Presto, lo so, perderò anche la capacità di pensare, ma sto bene. È da tanto tempo ormai che sognavo questo, di poter vivere solo di vento, sole e acqua". Col suo tocco elusivo, la prosa scabra di Han Kang sfiora ancora una volta l'orrore senza spiegarlo e ci lascia, attoniti, a contemplare la disturbante malìa del rifiuto di sé.
«È tutt'altro che un'opera ascetica: è un romanzo pieno di sesso ai limiti del consenziente, di atti di alimentazione forzata e purificazione - in altri termini di violenza sessuale e disordini alimentari, mai chiamati per nome nell'universo di Han Kang ... Il racconto di Han Kang non è un monito per l'onnivoro, e quello di Yeong-hye verso il vegetarianesimo non è un viaggio felice. Astenersi dal mangiare esseri viventi non conduce all'illuminazione. Via via che Yeong-hye si spegne, l'autrice, come una vera divinità, ci lascia a interrogarci su cosa sia meglio, che la protagonista viva o muoia. E da questa domanda ne nasce un'altra, la domanda ultima che non vogliamo davvero affrontare: "Perché, è così terribile morire?"». (The New York Times)
Robert Eisler è stato il più misconosciuto fra i grandi visionari eruditi del Novecento. Studioso geniale e atipico, sempre ai margini del mondo accademico, ha lasciato un'opera multiforme e inclassificabile. E questo libro ne rappresenta l'estremo, grandioso epilogo. Influenzato da Jung e dalla sua teoria degli archetipi, si presenta come un'indagine socio-antropologica sulla crudeltà e l'aggressività umane, che ha l'audacia di suggerire una derivazione storica, o meglio preistorica, per ogni crimine e ogni violenza, «dall'attacco alla singola vita noto con il nome di assassinio o omicidio a quella forma di uccisione collettiva organizzata che chiamiamo guerra». La tesi di Eisler non potrebbe essere più concisa: se l'uomo moderno è sul piano biologico «la più spaventosa di tutte le bestie da preda» - secondo la definizione di William James -, e se al contrario il suo antenato era un primate frugivoro, a un certo stadio dell'evoluzione deve essersi verificata in lui una mutazione irrevocabile «dalle conseguenze disastrose e permanenti». È questa la «Caduta» che si cela dietro al misterioso fenomeno psichico denominato «licantropia», nonché ad altre manifestazioni patologiche. Sono poche, densissime pagine sorrette da una documentazione impressionante, una foresta di note dove proliferano miti, riti e leggende dei luoghi più disparati del pianeta - e che fanno di questo libro uno dei viaggi più inquietanti nei recessi di quella che ancora oggi ci ostiniamo a chiamare «natura umana».
Il dialogo con l'India che soggiace a tutti gli scritti di René Daumal nasce quando a vent'anni decide di dedicarsi allo studio del sanscrito: ne scaturirà una personale "Grammatica sanscrita", assoluto capolavoro, che testimonia l'unicità e l'originalità della sua interpretazione del mondo indiano, da lui sempre restituito con la massima trasparenza. Il progressivo percorso di assimilazione e di penetrazione nella lingua e nelle dottrine indiane non è mai per Daumal un'operazione di semplice erudizione, ma un vero e proprio lavoro su di sé. I temi vengono sempre affrontati in funzione del «che fare» e del «come fare», e i trattati di poetica vanno intesi non solo in termini estetici, ma come ricerca del «corpo della poesia», per inseguire l'analogia fra «poema» e «uomo» in una cultura dove «le scienze del linguaggio risultano incluse fra i principali mezzi di liberazione». Le traduzioni e i saggi raccolti in questo volume - in gran parte inediti -, oltre a rendere comunicativi, quasi cantanti, testi ritenuti inaccessibili, forniscono una preziosa chiave per affrontare l'opera dello stesso Daumal. Il ventaglio delle traduzioni è estremamente ampio: dai più complessi inni del "Rgveda" alle Upanisad, alle "Leggi di Manu", alla "Bhagavadgita", fino alla più alta poesia e alla fiaba. «Lo stato di uomo è difficile da raggiungere in questo mondo» recita un verso dell'"Agnipurana" che Daumal trascrive e traduce più volte. E queste pagine inducono a pensare che Daumal vi sia riuscito.
«Alle cinque ero là, come gli altri giorni... Stavo mandando giù un sandwich, e intanto mi guardavo intorno distrattamente... E a un tratto ho notato una donna che mi osservava sorridendo... «Non sono un dongiovanni, mi creda... Mi è sempre bastata mia moglie... «Ma quella lì... Mi sono subito chiesto che ci facesse in un locale così popolare... Le capita di andare al cinema, no?... Ha presente le dive americane, le vamp, come le chiamano?... «Be', dottore, avevo davanti agli occhi una vamp!...».
«L'universo» scrive George Musser introducendo la sua sorprendente incursione nelle acquisizioni della fisica contemporanea «è un luogo selvaggio e capriccioso, pieno di insidie e di arbìtri»; eppure, su quello sfondo, «le leggi del mondo brillano per la loro rassicurante regolarità». Una regolarità che passa per vincoli come quello della «località», cui Einstein associava due aspetti chiave – la «separabilità» tra due oggetti e il loro interagire solo per contatto – e che rappresenta «l'essenza stessa dello spazio». Ma negli ultimi decenni la fisica sta dimostrando come, a un livello più fondamentale, il discorso muti, con le coppie di particelle sottoposte a quella che Einstein stesso definiva «un'inquietante azione a distanza», e che ora possiamo ricondurre al principio di «non-località». In certi esperimenti tali coppie si comportano come «monete magiche» in grado di far uscire sempre testa o croce in sinergia, a prescindere dallo spazio che le separa: possono cioè «allontanarsi fino alle estremità opposte dell'universo, e comportarsi lo stesso all'unisono». Ed è solo l'inizio: diverse tipologie di non-località sembrano agire molto al di sopra del livello subatomico (nei «paradossi» dei buchi neri o nella struttura «su larga scala» dell'universo), tanto da risultare decisive in una riformulazione della teoria unificata delle forze. Ma le conseguenze più profonde investono la natura stessa dello spazio, che secondo le nuove conoscenze potrebbe non essere «la base ultima della realtà fisica».