Sin dal suo inizio storico la filosofia è stata la volontà di incarnare il sapere assolutamente innegabile. Ma come è possibile «la stabile conoscenza della verità», si chiede Emanuele Severino, «in un clima come quello del nostro tempo, dove non solo la scienza, ma la filosofia stessa ha quasi ovunque voltato le spalle a ciò che essa ritiene il "sogno" di un sapere siffatto». In realtà, già nel modo in cui la «scienza della verità» compie i primi passi è presente l'errare più radicale in cui l'uomo possa trovarsi, quello che per Severino è la Follia estrema: «la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono ... affermando che l'evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano». Tutta l'opera di Severino, sin dal suo primo libro ("La struttura originaria", 1958), è volta dichiaratamente allo «smascheramento della Follia di questa fede», per «consentire al linguaggio di testimoniare l'assoluta innegabilità del destino della verità». E in queste pagine l'intero percorso viene ripresentato nell'insieme dei suoi tratti fondativi, con l'approfondimento di alcuni temi centrali quali l'interpretazione, il rapporto tra destino e scienza, l'essenza linguistica del sapere originario, il senso ultimo dell'esser uomo e la storia infinita dell'uomo, il senso della salvezza. Un percorso, dunque, attraverso l'intero 'terreno' di Severino, da cui il lettore potrà spaziare con lo sguardo: «Non basta possedere un campo: bisogna coltivarlo. Il campo di cui qui si tratta è l'insieme dei 'miei scritti'. Un linguaggio, dunque. E anche questo libro intende indicare l'autentica "pianura della verità"».
Da tempi molto lontani i bestiari autentici e quelli immaginari concorrono in parti quasi uguali al disegno della zoologia cosi come la conosciamo, o crediamo di conoscerla. Si sono a lungo specchiati, imitati a vicenda, guardati a seconda dei casi con rispetto e con sospetto, i due generi: finché qui, per la prima volta, non si ritrovano fusi in qualcosa di nuovo. Sì, Caspar Henderson è andato a trovare dove nemmeno li si cercherebbe - nelle profondità degli oceani, negli angoli più inospitali di deserti roventi - intere famiglie di viventi di cui tutto ignoravamo, a cominciare dall'aspetto; oppure ha raccontato particolarità di animali tanto vicini a noi da risultarci, ormai, quasi invisibili. E li ha messi tutti insieme, pesci zebra e delfini, axolotl e balene, con l'amichevole partecipazione di Sapiens, in questo diario di un naturalista capriccioso che è anche qualcosa di più - il manuale delle strane regole con cui possiamo ogni volta ricominciare, a sorpresa, il gioco molto antico di reale e fantastico.
Rachel Bespaloff non incontrò mai Simone Weil. Eppure le affinità e le coincidenze biografiche sono tali che si è parlato, a giusto titolo, di «vite parallele»: filosofe entrambe, entrambe ebree di lingua francese, entrambe costrette, nel 1942, a cercare rifugio negli Stati Uniti. E, circostanza ancora più impressionante, nello stesso periodo in cui Simone Weil si concentrava sullo studio dell'"Iliade" - ne sarebbe nato un saggio fondamentale - Rachel Bespaloff dedicava all'"Iliade" pagine altrettanto fondamentali, fra le più dense e ispirate che siano mai state scritte. Anche per lei, come per la Weil, nell'"Iliade" la «forza» appare come «la suprema realtà e insieme la suprema illusione dell'esistenza». Nel poema non ci sono dunque né giusti né malvagi, ma solo «guerrieri in lotta che trionfano o soccombono ... Condannare o assolvere la forza equivarrebbe quindi a condannare o assolvere la vita stessa». E nell'"Iliade", come nella Bibbia, «la vita è essenzialmente ciò che non si lascia valutare, misurare, condannare o giustificare dal vivente». Traduzione di Simona Mambrini. Con una Nota di Jean Wahl.
«Qualsiasi profano interessato in qualche modo alla relazione fra corpo e mente, anche se non lo capirà in ogni dettaglio, troverà questo libro affascinante come lo ho trovato io ... In tutti i casi di disturbi funzionali, è di primaria importanza il rapporto personale fra medico e paziente. "Ogni malattia è un problema musicale," diceva Novalis "e ogni guarigione è una soluzione musicale". Ciò significa, come scrive il dottor Sacks, che a prescindere dal metodo che il medico sceglie, o è costretto a scegliere, vige soltanto una regola fondamentale: "... bisogna sempre ascoltare il paziente. Perché se qualcosa affligge i pazienti emicranici, oltre all'emicrania, è il fatto di non essere ascoltati dai medici: osservati, analizzati, imbottiti di farmaci, spremuti, ma non ascoltati".» (W.H. Auden)
Machiavelli, Pascal: un accostamento inatteso, per più versi sorprendente. Machiavelli, frugando nella biblioteca di suo padre, scopre la casistica medievale e mette il rapporto tra la norma e l'eccezione al centro di un mondo inventato (la "Mandragola") e di quello in cui vive e agisce ("Il Principe"). Pascal, feroce avversario della casistica (soprattutto quella dei gesuiti), legge Machiavelli attraverso la lente di Galileo, e la realtà del potere attraverso Machiavelli. Un viaggio negli intrichi della lettura, sulle tracce di due lettori straordinari - e dei loro interlocutori, avversari, seguaci. Vi si affacciano personaggi famosi (Campanella, Galileo) visti dal loro censore, il domenicano Niccolò Riccardi, detto «Padre Mostro»; e personaggi meno noti, come Johann Ludwig Fabricius, al quale una lettura obliqua delle "Provinciali" di Pascal consente di proporre un'immagine inedita del «religiosissimo» Machiavelli. Un invito a leggere tra le righe, lentamente, testi cifrati, spesso criptici. Per anni Carlo Ginzburg ha lavorato su casi molto diversi tra loro, tutti però fortemente anomali. L'incontro con la casistica - ossia la tradizione, all'incrocio tra teologia e diritto, che riflette sulla tensione tra norma e anomalia, a partire da casi specifici - era forse inevitabile. Un tema insieme lontanissimo e vicino: ferita a morte da Pascal e resuscitata dalla bioetica, la casistica non smette di interrogarci, nei suoi risvolti tragici o grotteschi.
Queste storie raccontano due diverse e molto singolari forme di inquietudine: il malessere sottile che si allarga come una crepa nella vita in comune di due uomini, e la lunga guerra «misteriosa e mai dichiarata» in cui può trasformarsi un matrimonio di vecchia data. Le due coppie non potrebbero essere più distanti: lo scrittore in crisi creativa che divide un appartamento a Tribeca con un avvocato in carriera, e i due pensionati di una spenta cittadina di provincia, dove gli unici eventi degni di nota sono le periodiche inondazioni del fiume e gli appuntamenti della chiesa metodista. Casi da cui emana la sensazione di «un vivere fasullo, rabberciato, sempre lì lì per implodere o franare»; e infatti, sotto la superficie, questi rapporti vanno in pezzi davanti ai nostri occhi, lasciandoci attoniti e frastornati. Solo Peter Cameron sembra avere ancora il coraggio, e la forza stilistica, di trasformare storie simili in opere di varia lunghezza, fatte di dettagli che riconosciamo, e del vuoto spesso atroce che li separa. Perfette trappole narrative in cui scivolare è facilissimo, e istantaneo rimanere prigionieri. Senza però provare il desiderio di liberarsene.
Nel giro di pochi giorni, nel marzo del 1927, un furto di denaro e gioielli ai danni di una svaporata e fantasiosa vedova, la contessa Menegazzi, e poi l'omicidio della ricca, splendida e malinconica Liliana Balducci, sgozzata con ferocia inaudita, incrinano la decorosa quiete di un grigio palazzo abitato da pescecani, in via Merulana, come se una «vampa calda, vorace, avventatasi fuori dall'inferno» l'avesse d'improvviso investito - una vampa di cupidigia e brutale passione. Indaga su entrambi i casi, forse collegati, Francesco Ingravallo, perspicace commissario-filosofo e segreto ammiratore di Liliana: ma la sua livida, rabbiosa determinazione, il suo prodigioso intuito per il «quanto di erotia» che ogni delitto nasconde e le pressioni di chi pretende a ogni costo un colpevole da dare in pasto alla «moltitudine pazza» non basteranno ad aver ragione del disordine e del Male. L'inchiesta sui torbidi misteri del «palazzo dell'Oro» gli concederà, al più, la medesima, lacerante cognizione del dolore di Gonzalo Pirobutirro. Giallo abnorme, temerario, enigmatico, frutto della irresistibile attrazione che su Gadda esercitavano il romanzo e i crimini tenebrosi ma insieme di una tensione conoscitiva che finisce per travolgere ogni possibile plot, il Pasticciaccio è anche il ritratto di una città e di una nazione degradate dalla follia narcisistica del Tiranno, dove si riversa a ondate tumultuose una realtà perturbata e molteplice - e dove, a rappresentarla, sono convocate, in uno sforzo immane, tutte le risorse della nostra lingua, dei dialetti, delle scienze e delle tecniche.
Un giorno, a una domanda sull'importanza che aveva avuto l'amore nella sua vita, Isaac Bashevis Singer rispose: «Grandissima, perché l'amore è amore della vita. Quando ami una donna ami la vita che è in lei». Ma che genere di amore è quello che lega Herman, il protagonista di Nemici, a Yadwiga, la contadina polacca che lo ha salvato dalla deportazione nascondendolo per tre anni in un fienile, nutrendolo e curandolo, e che lui ha portato con sé a New York e ha sposato? E che genere di amore lo lega a Masha, la donna, scampata ai lager, del cui corpo non riesce a fare a meno, ma che percepisce come una minaccia – perché quel desiderio, più che alla vita, si apparenta alla morte? Ed è ancora amore il sentimento che lo lega alla moglie Tamara, che credeva morta e che gli riappare davanti all'improvviso? Di fronte a simili domande Herman è paralizzato, incapace di trovare una via d'uscita. A rendere tutto molto, molto più complicato è la fatica quotidiana del vivere, in quella New York che è sembrata un miraggio di felicità, ma che si rivela ogni giorno più inospitale e più aspra. Il lettore segue Herman nei suoi affannosi, sconclusionati andirivieni dal Bronx a Coney Island e da Coney Island a Manhattan, chiedendosi se e come riuscirà a tirarsi fuori da quella specie di guerra che le sue tre donne gli hanno dichiarato, e soprattutto dal groviglio di un'esistenza fatta di continue menzogne, sotterfugi, goffaggini e fughe – o se, come il Bunem di Keyla la Rossa, finirà per cedere alla tentazione di disperare di Dio.
Prima di essere decifrati da Champollion, i geroglifici egiziani vennero interpretati – in una lunga e grandiosa linea di pensiero che va dalla tarda antichità al diciassettesimo secolo, da Plotino ad Athanasius Kircher – come una lingua non discorsiva, segreta e rivelatrice, fatta solo di immagini. Sir Thomas Browne (1605-1682) pose in atto questa concezione in tutta la sua opera di erudito e sommo prosatore – opera discreta, elusiva, difficilmente classificabile; fondata su di una cultura composita, stratificata e ormai remota; scritta in una lingua coperta dalla patina del tempo, in cadenza naturalmente religiosa e cerimoniale. Un'opera che si presenta come una complessa figura sul punto di disfarsi, come un mosaico le cui tessere stiano per essere separate e disperse. Alcuni degli elementi che sono delicatamente congiunti in quelle pagine, in un equilibrio ricco e precario, non si sono mai più ritrovati in così stretto contatto. In Browne la medicina e la teologia, l'erudizione antiquaria, la scienza naturale e il simbolismo ermetico si compongono in un solo discorso dalle molteplici e divergenti articolazioni. Il tempo, che ha rivelato sempre più lo splendore della sua prosa, ha anche confuso i tratti di quel discorso, ne ha offuscato i diversi significati. In quegli scritti alcune parole sono creste di continenti sommersi, sicché la perlustrazione delle topografie nascoste dovrebbe precedere ogni giudizio sull'opera. Una traccia può esser data dalla parola «geroglifico».
Benché mammiferi e uccelli siano unanimemente considerati le creature più intelligenti, si va imponendo una diversa, sorprendente, evidenza: da un ramo dell'albero della vita assai distante dal nostro è nata una forma di intelligenza superiore, i cefalopodi - ossia calamari, seppie e soprattutto polpi. In cattività, i polpi sono in grado di distinguere l'uno dall'altro i loro guardiani, di compiere scorrerie notturne nelle vasche vicine per procurarsi del cibo, di spegnere le luci lanciando getti d'acqua sulle lampadine, di mettere in atto ardite evasioni. Com'è possibile che una creatura tanto dotata abbia seguito una linea evolutiva così radicalmente lontana dalla nostra? Il fatto è - ci rivela Peter Godfrey-Smith, indiscussa autorità in materia e appassionato osservatore sul campo - che i cefalopodi sono un'isola di complessità mentale nel mare degli invertebrati, un esperimento indipendente nell'evoluzione di grandi cervelli e comportamenti complessi. E probabile, insomma, che il contatto con i polpi sia quanto di più vicino all'incontro con un alieno intelligente ci possa mai capitare. Ma Godfrey-Smith tocca in questo libro un altro punto capitale: nel momento in cui siamo costretti ad attribuire un'attività mentale e una qualche forma di coscienza ad animali ben distanti da noi nell'albero della vita, dobbiamo anche ammettere di non avere certezze su che cosa sia la nostra coscienza di umani. E forse questa via è una delle migliori per arrivare a capirlo.