
Otto, il protagonista di questo racconto che segnò l'esordio letterario di Márai, è un formidabile, agghiacciante esempio di abiezione spontanea, naturale e ragionevole: uccidere animali in un mattatoio o soldati nemici in guerra non fa una grande differenza per lui, anzi corrisponde a una sorta di vocazione. Che si manifesterà in seguito in una forma brutale. Anticipando la Figura di Moosbrugger, il memorabile criminale dell'Uomo senza qualità di Musil, Márai ha saputo concentrare in un personaggio l'incontenibile sommovimento psichico che condusse alla prima guerra mondiale e devastò gli anni successivi. Ma racconta tutto questo con la pacatezza, lo scrupolo e la concisione di un cronista - come qualcosa che appartiene a una nuova, terrificante normalità.
Nell'Inghilterra vittoriana Sukey Bond, appena uscita dall'orfanotrofio, viene mandata a servizio in una fattoria dell'Essex. Nulla di meno fiabesco, verrebbe da pensare. Eppure la scrittura obliqua e onirica di Sylvia Townsend Warner ci fa vivere, in questo romanzo, una delle più enigmatiche ed emozionanti storie d'amore che sia dato leggere - dedicata, non a caso, ad Amore e Psiche. Perché nella fattoria lavora un giovane bellissimo ed elusivo, che nei loro rari, furtivi incontri guarda Sukey «con un'espressione di splendente trionfo». Tutti dicono che è «un idiota», ma Sukey lo vede solo «ilare e candido», sapendo che lei, e solo lei, potrà renderlo felice. E quando Eric le verrà rapito, Sukey capirà che il suo futuro non è più «una regione inesplorata fatta di nuvole», e andrà a cercarlo con infinita de terminazione. Cosi come infinite saranno le sue peripezie, al termine delle quali, con ironica maestria, ci verrà restituita una delle cose più preziose: la fiducia nell'impossibile.
Quando, in una notte di pioggia scrosciante, Pierre Chave attraversa illegalmente la frontiera tra il Belgio e la Francia (dov'è ricercato per diserzione), non ignora che la sua sarà una corsa contro il tempo: per evitare che una bomba scoppi in una fabbrica di aerei nella periferia di Parigi, facendo decine di vittime innocenti, deve a ogni costo riuscire a trovare Robert, il «ragazzino» fragile, infelice e bisognoso di affetto - Robert che, dopo averlo venerato come un maestro, si è sottratto alla sua influenza lasciandosi indurre a compiere un attentato. Lo scopo di Chave non è soltanto salvare gli operai della fabbrica, ma impedire che Robert si macchi di una colpa orrenda. Perché, pur credendo fervidamente nell'ideale anarchico, aborre la violenza, ed è persuaso che il terrorismo come metodo di lotta politica sia una strada senza uscita. L'uomo è consapevole che la sua è una missione quasi disperata: su di lui pesano infatti i sospetti della polizia, e insieme quelli dei suoi stessi compagni, convinti di essere stati traditi. Un romanzo à bout de souffle, uno dei pochi di Simenon, ha scritto André Gide, in cui il protagonista agisce dall'inizio alla fine «spinto da una volontà ferrea».
Come sappiamo dalle sue strepitose lettere, nonché dalla leggenda che circonda la sua carriera di attore, Groucho Marx era Groucho in ogni sua manifestazione, e la comicità che irradiava sullo schermo si nutriva delle ricche assurdità della sua vita. Così, un'autobiografia di Groucho non poteva certo somigliare alle tediose elencazioni di travolgenti successi che spesso costituiscono le vite delle star. E alla fine, usciremo da questo libro storditi e felici come dopo aver visto uno dei suoi migliori film.
«Se oggi mi chiedo quale fu il vero movente che mi ha portato in autunno dal Canton Ticino a Norimberga - un viaggio durato due mesi mi coglie l'imbarazzo» scrive Hermann Hesse all'inizio di questo libro di memorie. Nel 1925 aveva deciso infatti di lasciare il suo eremo in Svizzera e di accogliere l'invito a tenere una serie di pubbliche letture in Germania: proprio lui che riconosceva di essere un uomo restio ai viaggi e alle frequentazioni umane», lui che trovava la prospettiva di esibirsi in pubblico «talvolta spaventosa. Non era d'altro canto un momento qualsiasi» «... la vita mi costava un'insolita, eccessiva fatica, e ogni idea di cambiamento, trasformazione, fuga non poteva che essermi gradita». Una fuga, però, da indugiante, meditabondo flâneur, fatta di soste prolungate e deviazioni e incontri con vecchi amici, che lo conduce da Locarno a Zurigo, da Baden alla natia Svevia, da Ulma ad Augusta e a Norimberga, per terminare infine a Monaco, con la visita a Thomas Mann. Un viaggio, «in sé insignificante e fortuito», che diventa una discesa nel passato e nella propria coscienza, e si traduce in un'intensa confessione intima, dove Hesse ci parla dei suoi amori letterari - primo fra tutti Hôlderlin, fatale scoperta infantile - e dell'avversione per il mondo moderno; dell'insofferenza per «la fabbrica culturale» nessuno è più vanitoso, nessuno più assetato di plauso e consenso dell'intellettuale e del penoso fardello della fama - e, quale antidoto alla disperazione, dell'umorismo, «ponte sospeso sopra il baratro fra realtà e ideale».
Nel presentare «ai cittadini e agli amici» la mostra-spettacolo su quel «mistero della Storia» che fu il 1789 e sulle sue «propaggini materiali ed occulte», Guido Ceronetti, insieme agli attori del Teatro dei Sensibili, decise di porre in epigrafe alla sua scelta di testi una frase di Céline: «Tutto quel che è interessante avviene nell'ombra, decisamente. Nulla si sa dell'autentica storia degli uomini». Quelli che seguono non potranno essere quindi che «pensieri in libertà», erratici e spesso contraddittori. Eppure, se (come in certi giochi enigmistici) si uniscono i puntini di questo percorso, si scopre un disegno nascosto, che spalanca altri percorsi, indica altre vie, e invita a fermarsi e a riflettere su ciascuna di queste pagine. Da Hölderlin («Furono cinque estati in cui fu grande,/ Corruscando, la vita...») a Blake («Tigre, tigre, oh bagliore/ Nella notte...»), da Massignon (che vede la Regina martire salire al patibolo «con gesti virili, di Walchiria, di amazzone») al Tao-tê-ching («Il mondo, vaso spirituale, non si lascia plasmare»), passando per Bataille, Bloy, Leopardi, Calasso e molti altri, ritroviamo qui gli «spiriti affini» che hanno costantemente accompagnato il cammino del «filosofo ignoto». E alla fine scopriremo, nella magnifica prosa del Ceronetti traduttore e interprete, l'annuncio dell'«èra messianica» in tredici profezie estratte dalle Centurie di Nostradamus.
Sin dal suo inizio storico la filosofia è stata la volontà di incarnare il sapere assolutamente innegabile. Ma come è possibile «la stabile conoscenza della verità», si chiede Emanuele Severino, «in un clima come quello del nostro tempo, dove non solo la scienza, ma la filosofia stessa ha quasi ovunque voltato le spalle a ciò che essa ritiene il "sogno" di un sapere siffatto». In realtà, già nel modo in cui la «scienza della verità» compie i primi passi è presente l'errare più radicale in cui l'uomo possa trovarsi, quello che per Severino è la Follia estrema: «la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono ... affermando che l'evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano». Tutta l'opera di Severino, sin dal suo primo libro ("La struttura originaria", 1958), è volta dichiaratamente allo «smascheramento della Follia di questa fede», per «consentire al linguaggio di testimoniare l'assoluta innegabilità del destino della verità». E in queste pagine l'intero percorso viene ripresentato nell'insieme dei suoi tratti fondativi, con l'approfondimento di alcuni temi centrali quali l'interpretazione, il rapporto tra destino e scienza, l'essenza linguistica del sapere originario, il senso ultimo dell'esser uomo e la storia infinita dell'uomo, il senso della salvezza. Un percorso, dunque, attraverso l'intero 'terreno' di Severino, da cui il lettore potrà spaziare con lo sguardo: «Non basta possedere un campo: bisogna coltivarlo. Il campo di cui qui si tratta è l'insieme dei 'miei scritti'. Un linguaggio, dunque. E anche questo libro intende indicare l'autentica "pianura della verità"».
Da tempi molto lontani i bestiari autentici e quelli immaginari concorrono in parti quasi uguali al disegno della zoologia cosi come la conosciamo, o crediamo di conoscerla. Si sono a lungo specchiati, imitati a vicenda, guardati a seconda dei casi con rispetto e con sospetto, i due generi: finché qui, per la prima volta, non si ritrovano fusi in qualcosa di nuovo. Sì, Caspar Henderson è andato a trovare dove nemmeno li si cercherebbe - nelle profondità degli oceani, negli angoli più inospitali di deserti roventi - intere famiglie di viventi di cui tutto ignoravamo, a cominciare dall'aspetto; oppure ha raccontato particolarità di animali tanto vicini a noi da risultarci, ormai, quasi invisibili. E li ha messi tutti insieme, pesci zebra e delfini, axolotl e balene, con l'amichevole partecipazione di Sapiens, in questo diario di un naturalista capriccioso che è anche qualcosa di più - il manuale delle strane regole con cui possiamo ogni volta ricominciare, a sorpresa, il gioco molto antico di reale e fantastico.
Rachel Bespaloff non incontrò mai Simone Weil. Eppure le affinità e le coincidenze biografiche sono tali che si è parlato, a giusto titolo, di «vite parallele»: filosofe entrambe, entrambe ebree di lingua francese, entrambe costrette, nel 1942, a cercare rifugio negli Stati Uniti. E, circostanza ancora più impressionante, nello stesso periodo in cui Simone Weil si concentrava sullo studio dell'"Iliade" - ne sarebbe nato un saggio fondamentale - Rachel Bespaloff dedicava all'"Iliade" pagine altrettanto fondamentali, fra le più dense e ispirate che siano mai state scritte. Anche per lei, come per la Weil, nell'"Iliade" la «forza» appare come «la suprema realtà e insieme la suprema illusione dell'esistenza». Nel poema non ci sono dunque né giusti né malvagi, ma solo «guerrieri in lotta che trionfano o soccombono ... Condannare o assolvere la forza equivarrebbe quindi a condannare o assolvere la vita stessa». E nell'"Iliade", come nella Bibbia, «la vita è essenzialmente ciò che non si lascia valutare, misurare, condannare o giustificare dal vivente». Traduzione di Simona Mambrini. Con una Nota di Jean Wahl.
«Qualsiasi profano interessato in qualche modo alla relazione fra corpo e mente, anche se non lo capirà in ogni dettaglio, troverà questo libro affascinante come lo ho trovato io ... In tutti i casi di disturbi funzionali, è di primaria importanza il rapporto personale fra medico e paziente. "Ogni malattia è un problema musicale," diceva Novalis "e ogni guarigione è una soluzione musicale". Ciò significa, come scrive il dottor Sacks, che a prescindere dal metodo che il medico sceglie, o è costretto a scegliere, vige soltanto una regola fondamentale: "... bisogna sempre ascoltare il paziente. Perché se qualcosa affligge i pazienti emicranici, oltre all'emicrania, è il fatto di non essere ascoltati dai medici: osservati, analizzati, imbottiti di farmaci, spremuti, ma non ascoltati".» (W.H. Auden)