A soli ventiquattro anni, nel 1905, lo studente di matematica L.E.J. Brouwer tiene a Delft, di fronte a un pubblico stupito e sconcertato, una serie di conferenze che saranno pubblicate pochi mesi dopo col titolo "Vita, arte e mistica". Opera di un temperamento ascetico e radicale, il libro è un atto di ribellione contro l'intelletto - considerato fonte di ogni male e "simbolo della caduta dell'uomo" - e la scienza, e insieme un'esortazione a diffidare della mostruosa macchina sociale, i cui meccanismi sono appunto regolati dall'intelletto: l'unica salvezza per l'uomo viene individuata nell'affrancarsi dalla logica di un mondo alienato per ritrovare in un'interiorità di matrice divina la sua più autentica natura. Divenuto un celebre matematico, Brouwer sarà protagonista di quella crisi dei fondamenti della matematica che scosse la scienza del primo Novecento: "Vita, arte e mistica" - che a lungo destò imbarazzo e diffidenza nell'ambiente accademico svela le motivazioni segrete che lo indussero a rivoluzionare la sua disciplina elaborando alcune tra le più importanti teorie matematiche mai concepite.
Il cinema è non solo presenza ricorrente nella narrativa di Roth, ma anche oggetto di splendidi feuilleton e recensioni - nell'insieme un centinaio di interventi, compresi per lo più fra il 1919 e l'inizio degli anni Trenta, di cui si offre qui una ampia e rappresentativa scelta. Appassionato di Buster Keaton, capace di liquidare il sentimentalismo di un'epoca intera, cultore di documentari e film etnologici, Roth sa essere sferzante come pochi e non risparmia perfidi strali a osannati registi, si chiamino Lang o Ejzenstejn né, ovviamente, ai più turgidi colossal: come "Messalina", contraddistinto da "una noia colossale", sicché, egli confessa, "abbiamo il nostro bel daffare a tenerci svegli. Ci sentiamo stanchi come dopo una festa di matrimonio o un banchetto funebre durati giorni e giorni". Quando visita i set, poi, è un grandioso, rutilante bestiario che si offre al suo sguardo implacabile: registi onnipotenti, operatori pedanti, comici presenzialisti, ricchi produttori, dive irresistibili e tiranniche che si scelgono ruoli cuciti sul loro corpo: senza che di quel corpo "il povero sceneggiatore abbia potuto cogliere anche un solo barlume". Ma quel che più conta è forse l'attenzione, acutissima e preveggente, rivolta sin dai primi testi alla capacità del cinema di creare simulacri: i meravigliosi prodigi dello schermo significano per Roth che la realtà, così ingannevolmente imitata, non era poi tanto difficile da imitare...
Attingendo alle opere somme della letteratura sanscrita - i Veda, i grandi poemi epici, i testi tantrici e puranici - ma anche alla fonte inesauribile delle tradizioni locali e orali, Wendy Doniger, indologa di fama mondiale, studiosa originale e audace, ci offre della civiltà indù una storia eterodossa, capace di dare voce ai personaggi relegati ai margini dalla storiografia ufficiale. L'esito è una trama abbagliante di racconti, la celebrazione di una tradizione plurale, inclusiva e infinitamente diversificata: anche le classi più basse ed emarginate, osserva la Doniger, ci parlano: "non sempre attraverso voci registrate sulla pagina scritta, ma con segni che possiamo comunque leggere, se lo vogliamo".
"Nessuno ammazza un poveraccio, che diamine! Oppure li si ammazza in serie, si fa una guerra o una rivoluzione. E se capita che un poveraccio si ammazzi con le proprie mani, non lo fa certo con una carabina ad aria compressa mentre si sta massaggiando i piedi. Se almeno Tremblet avesse avuto un nome straniero, invece di essere banalmente del Cantal! Si sarebbe potuto supporre che appartenesse a chissà quale società segreta del suo Paese... Insomma, quel Tremblet non aveva affatto le caratteristiche di uno che muore assassinato! Ed era proprio questo a rendere tutto più angosciante: l'appartamento, la moglie, i ragazzini, il marito in camicia e quel proiettile che aveva fatto 'psst'..."
Decisamente, il piccolo Yehoshua non è portato per la santità: le preghiere infinite del padre, i libri di morale della madre, l'onnipresenza della Torah che pesa "come un macigno" sulla sua famiglia, quel mondo in cui è attribuita più verità alle fiamme dell'inferno che alla natura circostante e agli uomini concreti che la abitano - tutto ciò suscita in lui solo una sensazione di soffocamento e accende un grande desiderio di fuga. Yehoshua anela ai pascoli, ai cavalli, ai giochi nei campi con i coetanei; alle letture della Bibbia preferisce le storie di ladri, briganti, soldati, vagabondi; ama usare sega e pialla nella bottega del falegname piuttosto che stare rinchiuso ore e ore a scuola, sottoposto alla dura disciplina dei maestri, e mal sopporta la tirannia del senso del peccato: "Qualsiasi cosa uno facesse era peccato. E ovviamente essere sfaccendati era peccato". Eppure, da questi irriverenti ricordi d'infanzia, che Singer ripercorre con la precisione e la brillantezza di una scrittura come sempre magistrale, traspare la nostalgia immedicabile per un mondo, quello dello shtetl, che ancor prima che il nazismo ne sancisse la definitiva cancellazione era già avviato al dissolvimento; di questo mondo, popolato da studenti di Talmud, macellai rituali, rabbini, artigiani, mendicanti, scaccini zoppi, maestri folli e scolari riottosi, Singer ci consegna un ritratto così vivido che ci pare di udirne le voci, di percepirne gli odori - e quasi saremmo tentati di scrollarcene di dosso la polvere.
"Questo è un libro sul cinema come abitualmente non se ne leggono, per la semplice ragione che non ne vengono scritti. Parte da lunghe conversazioni fra Tatti Sanguineti e uno dei personaggi forse meno noti, ma più singolari e influenti del cinema italiano nel periodo d'oro: Rodolfo Sonego, sceneggiatore di tutti i film maggiori di Alberto Sordi, dal 'Vedovo' a 'Una vita difficile' allo 'Scopone scientifico'. Ricostruisce, attraverso la rievocazione di volta in volta malinconica, sorridente, abrasiva, feroce di Sonego, molte delle vicende accadute in quell'immane circo le cui attrazioni erano la Mangano, la Lollo o Laura Antonelli, i cui domatori potevano chiamarsi Carlo Ponti o Federico Fellini, e il cui impresario occulto, ben nascosto dietro le quinte, era il suo primo censore: Giulio Andreotti. Lascia intendere come, di qualsiasi viaggio in Italia, una lunga sosta nel cervello di Alberto Sordi continui a essere una tappa estremamente formativa. Ma soprattutto, una battuta dopo l'altra, ci racconta un cinema molto diverso, e molto più sontuoso, di quello che vediamo in sala: una colossale fantasmagoria di aneddoti, chiacchiere a notte fonda in stadi decrescenti di lucidità, fantasticherie su film da fare, sceneggiature per film mai fatti, rulli perduti e fortunosamente ritrovati, scene tagliate e poi, miracolosamente, ricomparse."
Dopo essere stato, con Dada, un araldo della disintegrazione e del sovvertimento universale, Hugo Ball trovò un fondamento inscalfibile nei grandi testi mistici bizantini, che seppe raccontare magistralmente - come nessuno prima e dopo di lui - in questo libro, forse il suo migliore, senz'altro il più segreto e sorprendente. Un libro rigoroso e visionario al tempo stesso, che illustra le "vite di tre santi" esemplari - Giovanni Climaco, Dionigi l'Areopagita, Simeone Stilita - sulla scorta di uno studio scrupoloso, offrendo pagine illuminanti sui rapporti tra gnosi e cristianesimo, e con una scrittura capace di accendersi in immagini di rara potenza. Tanto che poco dopo l'uscita di "Cristianesimo bizantino", nel 1924, Hermann Hesse poteva scrivere: "... è nato un libro che non saprei paragonare a nessun altro tra i moderni, con l'eccezione forse delle vite dei santi ebrei scritte da Martin Buber. Promana da queste pagine uno spirito così delicato, una tale grazia e profondità intellettuale che non se ne può parlare senza un sentimento di grande amore e riconoscenza". Per poi concludere: "Un'aria chiara e tersa spira intorno alle figure che egli descrive ... e aleggia un'atmosfera di purezza, come nelle opere dell'Alto Medioevo. Sono grato di aver potuto leggere questo libro prezioso, e grato ne parlo a coloro che vorranno accostarvisi".
Nelle sue memorie Canetti scriverà, a proposito della massa: "È un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l'enigma nondimeno è restato tale". Il "qualcosa" a cui qui si allude è "Massa e potere": la sua lunghissima genesi - apparve dopo trentotto anni di elaborazione - fa capire quale immensa energia, concentrazione, furia si sia depositata nelle pagine di questo libro. Un libro che è un vasto mito costellato di tanti altri miti - spesso dissepolti con passione da libri dimenticati nell'oscurità delle biblioteche -, dove Canetti, con l'asciuttezza vibrante di un annalista cinese, riesce a saldare in un tutto l'immane storia che vive in ciascuno di noi, iscritta nei nostri gesti elementari.
In quella piovosa sera d'ottobre, nella cittadina di provincia, tutto sembrava tranquillo. Dopo aver cenato con la figlia Hector Loursat si era chiuso nel suo studio, come al solito, e si era sprofondato nella lettura. Erano ormai 18 anni che viveva in questo modo, senza vedere nessuno, senza uscire di casa. Il brillante rampollo dei Loursat de Saint-Marc, era diventato un orso, un inutile ubriacone. Ma quella sera, uno sparo nel buio, un'ombra che si dilegua, uno sconosciuto che muore nella sua casa. Qualcosa costringerà Loursat a uscire dalla sua solitudine, a scrollarsi di dosso la paglia della sua tana per assumere la difesa del giovane amante di sua figlia, insomma a "calarsi nuovamente nella vita", almeno per un po'.
"In un certo periodo della mia vita sono stato cristiano" scrive Emmanuel Carrère nella quarta di copertina dell'edizione francese del Regno. "Lo sono stato per tre anni. Non lo sono più". Due decenni dopo, tuttavia, prova il bisogno di "tornarci su", di ripercorrere i sentieri del Nuovo Testamento: non da credente, questa volta, bensì "da investigatore". Senza mai dimenticarsi di essere prima di tutto un romanziere. Così, conducendo la sua inchiesta su "quella piccola setta ebraica che sarebbe diventata il cristianesimo", Carrère fa rivivere davanti ai nostri occhi gli uomini e gli eventi del I secolo dopo Cristo quasi fossero a noi contemporanei: in primo luogo l'ebreo Saulo, persecutore dei cristiani, e il medico macedone Luca (quelli che oggi conosciamo come l'apostolo Paolo e l'evangelista Luca); ma anche il giovane Timoteo, Filippo di Cesarea, Giacomo, Pietro, Nerone e il suo precettore Seneca, lo storico Flavio Giuseppe e l'imperatore Costantino - e l'incendio di Roma, la guerra giudaica, la persecuzione dei cristiani; riuscendo a trasformare tutto ciò, è stato scritto, "in un'avventura erudita ed esaltante, un'avventura screziata di autoderisione e di un sense of humour che per certi versi ricorda Brian di Nazareth dei Monty Python". Al tempo stesso, come già in "Limonov", Carrère ci racconta di sé, e di sua moglie, della sua madrina, di uno psicoanalista sagace, del suo amico buddhista, di una baby-sitter squinternata, di un video porno trovato in rete, di Philip K. Dick...