"Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell'amore. Felici i felici": le due ultime "beatitudini" di Borges, che Yasmina Reza inscrive sulla soglia di questo romanzo, ci indicano la via per penetrare nel fitto intreccio delle vite che lo popolano. Perché la felicità - nell'amore o nell'assenza di amore, all'interno di una coppia o al di fuori di ogni legame - è un talento: e di tutti i personaggi che a turno consegnano al lettore confessioni a volte patetiche, a volte grottesche, a volte atrocemente comiche, si direbbe che quasi nessuno lo possegga. In un sottile gioco di echi, di risonanze, di contrappunti - tra amori inaciditi e rancori mai sopiti, illusioni spezzate e fughe nel delirio -, le voci che si avvicendano, quasi incalzandosi, tessono un ordito i cui fili (tenui in alcuni casi, in altri pesanti come catene) collegano molteplici destini, tutti segnati dall'impervia difficoltà dell'incontro con l'altro. Con una scrittura di chirurgica precisione, capace di muoversi tra i registri più vari, in un susseguirsi di scene in cui sempre lampeggia il genio della donna di teatro, Yasmina Reza è abilissima nel far affiorare, appena sotto la superficie smaltata delle apparenze, solitudine e violenza, disperazione e risentimento; e riesce a condurre la ronde dei suoi personaggi - mogli inquiete e mariti perplessi, amanti insoddisfatte e libertini mediocri, giovani in fuga dalla vita e vecchi abitati dalla morte.
Nel 1971 venne pubblicato "Adelphiana", una sorta di numero unico di una rivista che conteneva testi inediti di autori che negli anni successivi si sarebbero rivelati essenziali, da Thomas Bernhard a Aby Warburg, da Italo Calvino a Giorgio Manganelli, da Karl Kraus a Robert Walser, da Giorgio de Santillana a Edgar Wind. Oggi, nel cinquantesimo anno di Adelphi, riprendiamo quel titolo per un libro che si propone di attraversare con testi e immagini i più di duemila volumi pubblicati con questo marchio. Ne risulterà un paesaggio variegato e pieno di sorprese (testi nuovi di autori nuovi, testi poco conosciuti connessi a certi libri, immagini significative e rivelatrici), che corrisponde a quello che è stato da sempre il proposito della casa editrice: accogliere singolarità, tanto più preziose quanto più irriducibili.
Ultima figura emblematica di una ormai classica tradizione modernista, erede e testimone di quel fecondo ambiente romeno di cui facevano parte Brancusi e Tzara, Ionesco, Eliade e Cioran, e come loro inevitabilmente esule, Nina Cassian ha percorso un tragitto artistico e umano singolare come la sua persona. Nel 1985, già titolare di una lunga carriera di successo (con qualche strappo al morso del regime), durante un soggiorno negli Stati Uniti finisce nel mirino della polizia, che ha scoperto certi suoi testi a dir poco caustici contro la politica e i politicanti del Paese: decide allora di non tornare in patria e chiede asilo politico. Qui, sostenuta e tradotta da vari poeti americani, rinasce a nuova vita. E la scelta, la riproposta, la traduzione, a volte la vera e propria ricreazione delle poesie romene precedenti l'esilio, nonché la stesura di nuovi componimenti - in romeno prima, e dopo qualche anno anche in inglese -, alimenteranno un corpus che non ha riscontri, né rivali, nell'odierno panorama poetico internazionale. Si avvertono, nella voce della Cassian, echi ravvicinati di tutta la più nobile stagione del Novecento: da Mandel'stam a Cvetaeva, da Apollinaire a Brecht a Celan, e si potrebbe risalire fino a Emily Dickinson, "sublime sorella", o anche più indietro, all'amoroso "furor" saffico.
"Nessuno come Dostoevskij è andato mai così lontano, nel viaggio verso il Male assoluto: nessuno vi ha mai abitato con tale costanza; e ci ha guardato così, con gli occhi stessi del crimine" scrive Pietro Citati mentre ci accompagna guida lucida e insieme partecipe, quasi febbrile - attraverso "Delitto e castigo". E ad attirarlo, ancor più di Svidrigajlov o Raskol'nikov, è Stavrogin, in cui soffia "il vento di un vuoto gelido e vertiginoso, illimitato e senza confini": certo perché scrivendo i "Demoni" Dostoevskij si è rispecchiato in lui, e "scorgendo questo riflesso, ha avuto paura delle profondità inattingibili del proprio cuore". Sono dunque Dostoevskij e Stavrogin il cuore tenebroso di questo libro, dove Citati rilegge i grandi romanzi dell'Ottocento (quelli di Balzac, Poe, Dumas, Hawthorne, Dickens, Flaubert, Tolstoj, Stevenson, James) per cogliervi in atto la passione del Male, l'incontro con il Male. Li rilegge come soltanto lui sa fare: non da critico accademico o militante ma da "lettore-scrittore" (come ha notato Nadia Fusini), capace di illuminarli prolungandone il fascino nella sua scrittura. E comunicando a noi il desiderio irresistibile di rileggerli a nostra volta.
Da quando, nel 1930, è uscito il libro più famoso di Praz, "La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica", l'intuizione critica che lo ispirava è quasi diventata un luogo comune: accade cioè che "chiunque si occupi delle origini della sensibilità moderna ne tiene conto, anche senza aver letto e compreso l'importanza di Praz. È il destino di coloro che hanno ovviamente ragione, ma nulla toglie al fatto che sono pochi i critici cui sia stata concessa un'idea così brillante" (Frank Kermode). E una necessaria integrazione di quell'opera capitale è "II patto col serpente", che svela sin dal titolo il suo cuore nero: come nel quadro di Hans Baldung Grien, assunto dallo stesso Praz a emblema del libro, il serpente tentatore è infatti l'immaginazione, che per il tramite di Eva (la sensibilità) corrompe Adamo (la volontà) svelandole zone più inconfessabili dell'anima e dando così libero corso alla malinconia, alla fantasticheria aberrante e mostruosa, alla perversione, alla nevrosi.
Klossowski è riuscito a costruire un libro-labirinto all'interno di un altro, tuttora ingannevolissimo, labirinto: gli scritti di Nietzsche degli ultimi anni, tra la folgorazione dell'"eterno ritorno", il progetto di un'opera che avrebbe dovuto chiamarsi "La volontà di potenza" e gli estremi messaggi dell'"euforia di Torino". Proprio su questo punto si dividono, da sempre, le interpretazioni di Nietzsche: sono anni di progrediente lucidità? o di progrediente follia? Klossowski recide subito questo banalissimo nodo, affermando che tutto il pensiero di Nietzsche "ruota attorno al delirio come attorno al proprio asse". E già questo permette di stabilire una incolmabile distanza fra tale pensiero e la sequenza della filosofia: c'è uno iato che separa sin dall'inizio l'impresa speculativa di Nietzsche dal discorso occidentale - lo iato del caos. Per non perdere mai il contatto con questa singolarità irriducibile di Nietzsche, Klossowski ha scelto la via più ardua, ha deciso di lasciarsi trascinare "dal mormorio, dal respiro, dalle esplosioni di collera e di risa di questa prosa, la più insinuante che si sia mai formata nella lingua tedesca". Così, più che l'articolarsi dei concetti, segue le "fluttuazioni d'intensità" in quella "tonalità dell'anima" che era Nietzsche stesso - e il libro si intesse alle sue pagine come un perpetuo commento, un'eco dove le parole dell'autore stingono su quelle dell'esegeta e viceversa.
"Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?". Siamo nel febbraio del 1969: Bruce Chatwin ha rassegnato da tre anni le dimissioni da Sotheby's e ha appena deciso di abbandonare gli studi di Archeologia. Nonostante l'iniziale entusiasmo e il talento dimostrato in entrambi i campi, si è convinto che "il cambiamento" sia "l'unica cosa per cui valga la pena vivere"; per questo scrive una lettera all'editore Tom Maschler in cui abbozza le sue idee per una storia del nomadismo - argomento che sente quanto mai affine. Il titolo è già pronto: "L'alternativa nomade". Da questo momento in poi Chatwin consacrerà la sua esistenza al viaggio e alla scrittura. Una vita in perpetuo movimento, che avrà come corollario una corrispondenza smisurata, per la gran parte raccolta in questo libro curato dall'amico Nicholas Shakespeare e arricchito dalle note laconiche, affilate e amorevoli della moglie Elizabeth. Scritte a partire dai sette anni, destinate ai genitori, alla moglie e agli amici, le lettere di Chatwin svelano sul loro autore molto più di quanto lui fosse disposto a lasciare affiorare nei suoi libri. Ma non compongono propriamente un'autobiografia involontaria: leggendole si ha semmai l'impressione di seguire in presa diretta la voce di un narratore naturale, di un cercatore di storie, che seppe fare del suo impulso al mutamento e della sua inappagabile avidità di conoscenze un'opera d'arte.
La solitudine e il silenzio come mezzi per attingere il più alto dei traguardi: "la propria umanità allo stato puro".
Nel 1933 Simenon compie trent'anni e decide che è venuto il momento di diventare un vero scrittore. Per far questo, opera due rotture significative: con il personaggio che gli ha dato la fama e con l'editore Fayard che lo ha pubblicato. In giugno termina "Maigret", il romanzo in cui manda in pensione il commissario. In ottobre firma un contratto con Gaston Gallimard, patron della più prestigiosa casa editrice francese. Ciò nonostante, da Maigret non riesce a staccarsi, e in fondo anche al suo nuovo editore non dispiacerebbe vederlo "resuscitare", sebbene entrambi sappiano che un ritorno del commissario rischierebbe di interferire con la nuova carriera dello scrittore. Il quale, però, troverà un compromesso soddisfacente, che consisterà nel limitarsi a scrivere dei racconti destinati ad apparire solo su riviste. In molti di essi, come nei quattro raccolti in questo volume, Maigret è sì in pensione, ma è "costretto" a indagare su casi più o meno tenebrosi: o perché non riesce a vincere la curiosità (come nel "Notaio di Châteauneu") ; o perché, in vacanza con la moglie, si trova ad assistere a un omicidio (come in "Tempesta sulla Manica") ; o perché non sa respingere una richiesta di aiuto (come nella "Signorina Berthe e il suo amante"); o infine perché, commettendo quello che è difficile non definire un atto mancato, quarantott'ore prima di lasciare il Quai des Orfèvres risponde a una telefonata nell'ufficio dei suoi ispettori (come in "Assassinio all'Étoile du Nord").
Il 6 marzo 1931, nella nuova sala Gaumont degli Champs-Elysées, venne proiettato il primo film parlato francese, quel "David Golder" che Julien Duvivier aveva tratto dal fortunato romanzo di Irène Némirovsky, apparso due anni prima. Alcuni critici sospettarono che l'autrice, abilissima nel dare ritmo ai dialoghi, lo avesse addirittura scritto in vista dell'adattamento. Non era così, naturalmente, ma che il cinema fosse una sua passione, e che abbia sempre esercitato una forte influenza sul suo modo di raccontare, è indubbio: "I personaggi si muovono davanti ai miei occhi" diceva lei stessa. E proprio alla tecnica cinematografica si ispira "Film parlato" - il primo e il più lungo dei racconti qui radunati -, che la Némirovsky conduce con mano sicura, in un magistrale alternarsi di dissolvenze incrociate, flash-back, campi e controcampi, ellissi temporali, e con un'attenzione maniacale, come fa notare il curatore, per i dettagli visivi e sonori: il risultato è di un'efficacia e di una novità sorprendenti. Appassionata lettrice di Cechov, Irene Némirovsky non smise mai di scrivere racconti, fino agli ultimi giorni della sua vita.