
Un lento, soffocante pomeriggio estivo. In un modesto appartamento di Faubourg Saint-Honoré, una donna sta ricucendo un vecchio vestito. Al di là della sottile parete che divide la sua stanza da quella attigua, due corpi giovani si stiracchiano voluttuosamente dopo aver fatto l'amore. La donna sente tutto, immagina ogni gesto, come se li vedesse. Poi, come fa sempre, si avvicina alla finestra. Dall'altra parte della strada vive la ricca famiglia dei Rouet, proprietari non solo del palazzo in cui abitano, ma di buona parte dei palazzi intorno. Per ore e ore, da dietro le persiane accostate, la donna spia la loro esistenza: quella dei vecchi, al piano di sopra, e quella del giovane Hubert e della sua bella, irrequieta moglie Antoinette, al piano di sotto. Sarà lei, in questo pomeriggio di luglio, l'unica testimone di qualcosa che potrebbe anche essere un omicidio. E da ora in poi la donna comincerà a vivere per procura la vita di Antoinette: una vita "fervida, invadente, in tutta la sua spaventosa ferocia", una vita "proibita", che a poco a poco diventerà la sua. Con "La finestra dei Rouet", storia di una torbida ossessione, Simenon ha scritto uno dei suoi romanzi più sottilmente perversi.
Immaginate di essere un ragazzino di undici anni nell'America degli anni Venti. Immaginate che vostro padre vi dica che, in caso di sua morte, vi capiterà la peggiore delle disgrazie possibili, essere affidati a una zia che non conoscete. Immaginate che vostro padre – quel ricco, freddo bacchettone – poco dopo effettivamente muoia, nella sauna del suo club. Immaginate di venire spediti a New York, di suonare all'indirizzo che la vostra balia ha con sé, e di trovarvi di fronte una gran dama leggermente equivoca, e soprattutto giapponese. Ancora, immaginate che la gran dama vi dica «Ma Patrick, caro, sono tua zia Mame!», e di scoprire così che il vostro tutore è una donna che cambia scene e costumi della sua vita a seconda delle mode, che regolarmente anticipa. A quel punto avete solo due scelte, o fuggire in cerca di tutori più accettabili, o affidarvi al personaggio più eccentrico, vitale e indimenticabile che uno scrittore moderno abbia concepito, e attraversare insieme a lei l'America dei tre decenni successivi in un foxtrot ilare e turbinoso di feste, amori, avventure, colpi di fortuna, cadute in disgrazia che non dà respiro – o dà solo il tempo, alla fine di ogni capitolo, di saltare virtualmente al collo di zia Mame e ringraziarla per il divertimento. Per fortuna sua, e dei lettori, Patrick ha scelto la seconda opzione, e scritto questo libro tuttora leggendario. Non è certo che Dennis volesse inventarsi, come è stato detto, un’alternativa americana a Mary Poppins: ma lo è che chi arriva all’ultima pagina, e vede zia Mame partire per un nuovo viaggio, ha la sensazione di separarsi dalla parte più lieve, libera e felice di sé.
"Sono un Francese d'Oriente" scrive Joseph Roth da Odessa nel 1926. Ha già nostalgia di Parigi, meta l'anno precedente della sua fuga dalla Germania: Parigi è la "capitale del mondo" commentava allora, senza sapere che lì sarebbe vissuto quattordici anni e avrebbe scritto gran parte dei suoi libri. Chi non è stato a Parigi, del resto, è "solo un mezzo uomo", e diventare uomo completo significa, per Roth, godere di un'identità multipla nella città in cui gli ebrei orientali - affluiti dopo la guerra - "possono vivere come vogliono". Come i mirabili reportage da Vienna raccolti ne "Il caffè dell'Undicesimo Musa", anche questi feuilleton francesi sono racconti perfetti, increspati da un impagabile humour e da spiazzanti paradossi, gremiti di suoni e colori, odori e sapori: reti di nere cozze sgocciolanti e lupi di mare nel porto di Marsiglia; aromi di caffè, Pernod e acquavite nei bistrot parigini dove, dopo mezzanotte, si raccolgono gli esuli d'Europa; il bel mondo della Costa Azzurra con le sue vecchie cariche di brillanti e stuoli di cagnolini al seguito; l'alta stagione a Deauville con Monsieur Citroen che perde sempre al Casinò e regala un'automobile a ogni croupier; toreador vili e cialtroni nelle corride di Vienne (in cui le simpatie di Roth vanno naturalmente al toro) ; suonatori cosacchi di nostalgiche balalaiche; indossatrici che "seducono con caviglie moralmente corrotte" e femmine nude nei "luoghi di perdizione più ameni del mondo".
Nel "Dilemma dell'onnivoro" Michael Pollan aveva smontato il pranzo che ci apparecchiamo ogni giorno, dimostrando che cosa realmente contenga, a dispetto di quanto dicono le etichette. In questo libro, che amplia e conclude il precedente, Pollan va oltre, demolendo una credenza particolarmente pericolosa e ormai diffusissima, e cioè che a renderci più sani e più belli non siano tanto le cose che mangiamo, quanto le sostanze che le compongono. Nel mondo immaginato dai nutrizionisti, ricorda Pollan, anziché perdere tempo a sbucciare e fare a spicchi le arance basterebbe assumere una quantità equivalente di vitamina C. Ma accade invece che gli stessi nutrizionisti mettano improvvisamente al bando le componenti della dieta che fino a poche settimane prima avevano presentato come irrinunciabili, e che per paradosso gli Stati Uniti, cioè il paese più ossessionato di qualsiasi altro dal terrore di mangiare qualcosa che fa male, o di non mangiare ciò che fa bene, si siano dati il modello alimentare più malsano e patogeno fin qui conosciuto. Il rimedio? Sarebbe semplice, sostiene Pollan: non mangiare nulla che la nostra nonna non avrebbe mangiato. In altre parole, cibo, meglio se poco, e meglio ancora se verde. Sarebbe semplice, cioè, se non sconvolgesse il credo dell'industria più potente e insostituibile al mondo, quella agroalimentare. Che, come dimostrano le violentissime polemiche già suscitate da questo libro alla sua uscita, non intende arrendersi neppure all'evidenza senza combattere.
Nell'arco di poco più di un decennio - da quel non troppo lontano 1996 in cui fu insignita del Premio Nobel per la letteratura - Wislawa Szymborska è diventata un autore di culto anche in Italia. Né questo vasto successo deve meravigliare. Grazie a un'impavida sicurezza di tocco, la Szymborska sa infatti affrontare temi proibiti perché troppo battuti - l'amore, la morte e la vita in genere, anche e soprattutto nelle sue manifestazioni più irrilevanti - e trasformarli in versi di colloquiale naturalezza e (ingannevole) semplicità. Il volume raduna l'intera produzione poetica della Szymborska, inclusa la recentissima raccolta "Qui", apparsa in Polonia nel 2009.
Chi sognasse di incontrare finalmente un personaggio sfaccettato, deprecabile e irresistibile, insomma magistralmente imperfetto, sappia che Harry Rent, radiologo californiano quarantenne, non solo non lo deluderà, ma si inciderà profondamente nella sua memoria: perché Harry, maldestro in ogni sua impresa, è un uomo che migliora soltanto attraverso i suoi sbagli. La moglie è morta durante un intervento di chirurgia estetica, ed è con riluttante empatia che ricostruiamo a ritroso un viaggio emotivo fatto di rimorso, nostalgia, rancore, desolazione, e della immediata tentazione di un nuovo amore. Proprio per far colpo sulla nuova improbabile preda, Harry si imbarca in una serie di avventure che porteranno ad altrettanti comicissimi disastri, sullo sfondo di un'America contemporanea che Sarvas dipinge con scanzonata, crudele ironia, disseminando il racconto di tocchi di suspense.
"Forse il modo migliore per leggere quello che insieme a "Il ragazzo morto e le comete", a "Il padrone" e a "L'odore del sangue" è tra i vertici dell'opera di Parise, è fare come se di Parise non conoscessimo nulla, e questo libro uscisse per la prima volta oggi. Che immagine ci faremmo dell'autore dei "Sillabari"? I suoi racconti sembrano prossimi alla Mitteleuropa di Peter Altenberg: nel sentimento che non scade nel sentimentalismo, nell'asciutta creaturalità, nella musica fintamente trasandata; ma può anche essere un seguace del Robert Walser dei racconti in forma di temi di scuola: meno follemente didascalico, più narrativo, più "carnale"; o può somigliare a uno scrittore americano alla Truman Capote: per lo sguardo acuto e quasi tattile che cala nel mondo dell'adolescenza, per la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo". (Giuseppe Montesano)
Nel 1984 Márai ha ottantaquattro anni, e vive negli Stati Uniti da più di trenta. Fra il gennaio del 1984 e il febbraio del 1989 scompaiono i due fratelli e la sorella, e anche il figlio adottivo, appena quarantaseienne. Ma soprattutto muore Lola, la donna che è stata la sua compagna per sessantadue anni: Márai, che ha coltivato il sogno impossibile di morire insieme a lei, è costretto a vederla spegnersi lentamente e, dopo averne disperso le ceneri nell'Oceano, a proseguire un'esistenza che ormai non ha più senso. "Scrivevo per lei, ogni singola riga. Non ho più per chi scrivere" annota; il pensiero della "letteratura", dirà più volte, gli provoca ormai solo nausea e disgusto. Eppure - e fin quasi alla vigilia della morte - il vecchio "scrittore ungherese" continua, in questo monologo ininterrotto che è il suo diario, a registrare annotazioni di ogni genere: aforismi perfetti; lucide riflessioni sulla letteratura, sul mondo contemporaneo, sul tema dell'esilio e sulla condizione di esule - e naturalmente sulla prossimità della morte. Sándor Márai scrive l'ultima frase il 15 gennaio del 1989: "Aspetto la chiamata alle armi. Non la sollecito, ma neppure la rinvio. È arrivato il momento". Esattamente un anno prima si era comprato una rivoltella ed era andato più volte in un poligono di tiro per imparare a usarla. Il 21 febbraio, tredici mesi dopo la morte di Lola, si uccide.
Solo il Filosofo Ignoto, in arte Guido Ceronetti, poteva fondare "Insetti senza frontiere", un'"associazione senza fini di lucro" in difesa della "libertà di pungere" e per la tutela degli insetti, se necessario a scapito del sopravvalutato, e in ogni caso sovrabbondante, genere umano. In questo singolarissimo libro, che ne costituisce il manifesto e il programma, Ceronetti riprende il suo instancabile pellegrinaggio verso i luoghi che esplora da sempre - il corpo, la morte, il crimine, ma anche le fotografie, i versi di poeti lontanissimi, i dipinti, e ancora i giornali, le città, le librerie, unendo alle aspre certezze dell'aforista ("Alla luce del Tragico il mondo non è inesplicabile") i trucchi di un venditore di almanacchi, che intende girare "fiere, supermercati e suk" e proporre una nuova forma di intrattenimento, o di terapia, popolare: l'ascolto personalizzato di "ronzii d'alveare, cori delle cicale, cantare dei grilli".
Le esistenze di De Quincey, Keats e Schwob raccontate come tre minuscoli romanzi.