
Una società prigioniera del presente non progetta futuro e non ha memoria del passato. Cova rancori e paure, riuscendo solo ad adattarsi: al desiderio sostituisce la voglia, al progetto l'annuncio, alle passioni le emozioni. Diventa una società rattrappita. La schiavitù del presente è una forma di asservimento contagioso, una patologia che ha portato perfino a un mutamento antropologico: nella vita privata, nella sfera dei sentimenti, delle relazioni, dei rapporti umani, e nella dimensione pubblica, dalla politica all'economia, dalle istituzioni alle imprese. Il presentismo condensa l'aria del tempo. Ratifica il primato della tecnologia senza umanesimo e della finanza senza redistribuzione della ricchezza. Assembla il virtuale in un'eterna connessione, e rende opaco il reale, fino a farlo sfumare. Ma da questa schiavitù, si può uscire, se partiamo dalla consapevolezza di quanto siamo ormai scollegati dal passato e dal futuro. E come diceva Camus "il senso della vita è resistere all'aria del tempo".
Un piccolo libro con una tesi molto grande: per risolvere i conflitti che dilaniano il mondo, e in particolare l'Europa, dobbiamo partire dal concetto di «identità culturale». Un concetto pernicioso che porta a pensare alla cultura come a qualcosa di statico, determinato, immobile. Un concetto che tende a produrre da un lato comunitarismi integralisti, dall'altro relativismi inerti e indifferenti. Oppure barricate per difendere orticelli culturali o indifferentismo dove tutto va bene purché omologo e uniforme. Invece proprio della cultura è il dinamismo, lo scambio, la permeabilità. Usando la rara peculiarità intellettuale di una doppia conoscenza, quella del mondo occidentale e del mondo cinese, Jullien riesce a stabilire l'unica piattaforma possibile per un'umanità pacificata. Quella in cui le idee e le culture sono qualcosa di dinamico, di fluido, senza steccati. Un antidoto prezioso a un mondo che costruisce barriere.
Il 20 gennaio 1942 alcune figure di vertice del Terzo Reich si riunirono in una lussuosa villa a Wannsee, nei dintorni di Berlino, e decisero la soluzione finale nei confronti degli ebrei. Peter Longerich fornisce un'accurata contestualizzazione del verbale della riunione perché le interpretazioni dei motivi che portarono a tenere la conferenza, la sua funzione e utilità, sono varie e contraddittorie. Tranne il verbale, non esistono altri documenti inerenti alla conferenza perché sono andati distrutti. La spiegazione di Longerich è che l'Olocausto non è stato attuato in seguito a una scelta determinata, ma fu il risultato di una politica antisemita di lunga durata, sottoposta a cambiamenti contingenti, e di un processo decisionale con cui Hitler, istanza suprema del regime, insieme ad altre figure e organi dell'apparato, diede vita a un vero e proprio programma di distruzione degli ebrei d'Europa, partendo da una generica e indefinita intenzione di distruggerli.
Il 20 gennaio 1942 quindici personaggi di primo piano del regime nazionalsocialista, della Nsdap e delle SS, si riunirono su invito di Reinhard Heydrich, capo dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, in una lussuosa villa situata sulle sponde del lago Wannsee alla periferia di Berlino. Il contrasto tra la bellezza del luogo e lo scopo della manifestazione non poteva essere piú stridente: la dimora utilizzata dalle SS come foresteria fu scelta per definire la cosiddetta «soluzione finale della questione ebraica». Oggi il verbale della conferenza di Wannsee è considerato sinonimo del genocidio degli ebrei d'Europa, di uno sterminio lucido, burocratico, basato sulla divisione del lavoro: un documento inconcepibile, il promemoria di come la follia dottrinaria e omicida del sistema nazista, per ordine della principale autorità del regime, si trasformò in azione concreta, in intervento statale, in un piano portato a termine senza pietà. In questo libro Peter Longerich presenta e approfondisce un'interpretazione della conferenza e del verbale che rielabora gli spunti offerti dalle ricerche precedenti, per costruire una spiegazione piú articolata: dimostrare che l'Olocausto non fu l'esito di un'unica decisione presa a livello centrale ma il risultato di un esteso processo che vide Hitler, istanza primaria del Terzo Reich, sviluppare e avviare gradualmente, da una generica intenzione di distruggere gli ebrei, un programma di genocidio in stretta collaborazione con altri componenti dell'apparato di potere.
Nel gennaio del 2011, al primo incontro del seminario sull'Odissea tenuto da suo figlio Daniel, mescolato alle matricole diciottenni siede Jay Mendelsohn, matematico e ricercatore scientifico all'epoca ottantunenne. «Sarà un incubo», pensa Daniel a fine mattinata, quando appare chiaro che Jay non si atterrà al ruolo di silenzioso uditore che aveva immaginato per lui. Il vecchio Mendelsohn è cresciuto nel Bronx ed era ragazzo durante la guerra. Detesta la debolezza e il raggiro, valuta le cose in base alla fatica per ottenerle e la sua sola fede è nelle scienze esatte. Non può non aver da ridire sulla figura di Odisseo, il polytropos, l'uomo dalle molte svolte, ma anche dai molti trucchi, lacrime, aiuti divini, donne. «Non capisco perché dovremmo considerarlo un grande erooooe», ripete Jay per lo stupore divertito degli studenti. Eppure, settimana dopo settimana, affronta le tre ore di viaggio da Long Island al Bard College per apprendere dalla voce di suo figlio delle Vacche del Sole e di Penelope e del nostos. E va oltre: quando Daniel, quasi per gioco, gli propone una crociera nel Mediterraneo che ripercorra i luoghi dell'epopea, Jay acconsente. Per Daniel è un'esperienza pregna di rivelazioni: per mano a suo padre capisce appieno lo sgomento dell'Ade; nei ricordi coniugali del vecchio genitore ritrova la forza dell'homophrosyne, il «pensare allo stesso modo», e in quell'uomo inaspettatamente tanto aperto e socievole, in classe come a bordo, non riconosce forse un Odisseo dalle molte svolte?
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Vittime di violenza politica e intolleranza religiosa, inassimilabili malgrado il battesimo forzato, perseguitati dalle prime leggi razziste, costretti a un'emigrazione interiore, non più ebrei, ma neppure cristiani, i marrani sono «l'altro dell'altro». La scissione lacerante, la doppiezza esistenziale conducono alla scoperta del sé, all'esplorazione dell'interiorità. Gli esiti sono disparati: vanno dalla mistica di Teresa d'Ávila al concetto di libertà di Baruch Spinoza. Pur iscritto nella storia, il marrano ne eccede i limiti rivelandosi il paradigma indispensabile per sondare la modernità politica. Sopravvissuti grazie alla clandestinità, alla resistenza della memoria, al segreto del ricordo, divenuto con il tempo ricordo del segreto, i marrani non possono essere consegnati all'archivio. Il marranismo non si è mai concluso.
Niente come il cibo mette insieme le persone. A tavola, da sempre, si celebrano l'amore e l'amicizia. Insomma, se vogliamo bene a qualcuno, preparare una buona cena è un modo splendido per dirglielo. Nel suo nuovo libro, Antonino Cannavacciuolo insegna come gestire un menù, combinando i piatti a seconda delle occasioni, da quelle più formali a quelle più semplici. Tante ricette, accostate con sapienza e corredate di foto, consigli per l'impiattamento e di una scheda con i vini e le bevande da abbinare. Per favorire la convivialità e... alleggerire la vita mangiando.
Siamo a Pianura, periferia di Napoli, negli anni Ottanta. Chi ci abita lo chiama il Far West. Fortunato ha dieci anni, una fame incontenibile - di cibo, di storie e d'amore - e un'immaginazione sfrenata. In famiglia lo chiamano 'o strologo, quello che sa le cose. Da grande vorrebbe fare il cantante neomelodico. Ma anche l'attore. Pure l'astronauta non sarebbe male. Oppure può raccogliere da terra la Smith & Wesson 357 Magnum di Patrizio, 'o figlio dô Bulldog, e mettersi a sparare come tanti altri. Vive in due stanze con i genitori, i tre fratelli e la nonna, arrivata all'improvviso dopo che un sasso enorme è precipitato sul tetto di casa sua - così dicono i grandi - minacciando di sfondarle il soffitto. Quello che pochi sanno è che Fortunato ha un sogno più grande di lui, qualcosa che lo tiene sveglio la notte. Andare lontano, schizzare via. Perché la vita corre, e va acchiappata.
Quando si è vecchi si possono avere sogni e fiducia nel futuro? Per il Caspretti, direttore della casa di riposo Gambrini, no. Egli infatti non manca mai di ricordare ai suoi ospiti che non sono più quel che erano e non potranno mai più essere qualcosa di diverso da un relitto. Alcuni di essi però si rendono conto in cuor loro che questo cinico giudizio è falso e, clandestinamente, danno vita a un nuovo sogno: un laboratorio di pasticceria. Luca, un ragazzino che sogna di fare il pasticcere, lo viene a sapere e fa di tutto perché i vecchietti gli insegnino l'arte della pasticceria. Luca porta con sé il suo amico Nicola, aspirante meccanico, che curerà le macchine del laboratorio con il suo genio inventivo. Il direttore scopre ben presto la tresca e fa smantellare il laboratorio, ma la brigata pasticceri non si dà per vinta. Grazie a loro si scopre che durante la seconda guerra mondiale l'edificio che ora ospita la casa di riposo nascondeva un segreto che può tornare a galla e cambiare le vite di tutti i protagonisti. Età di lettura: da 10 anni.
Camminare è diventato un gesto sovversivo. Non serve essere atleti professionisti, aver scalato l'Everest o raggiunto il Polo Nord, come Erling Kagge. La rivoluzione è alla portata di chiunque. Basta decidere di rinunciare a qualche comodità e spostarsi a piedi ogni volta che è possibile. Anche in città, anche nel quotidiano. Sottrarsi alla tirannia della velocità significa dilatare la meraviglia di ogni istante e restituire intensità alla vita. Chi cammina gode di migliore salute, ha una memoria più efficiente, è più creativo. Soprattutto, chi cammina sa far tesoro del silenzio e trasformare la più semplice esperienza in un'avventura indimenticabile.