Dove corre il confine fra «paesaggio» e «città»? E come giudicare o indirizzare gli interventi sull'uno e sull'altra, o la continua crescita delle periferie? Devono prevalere i valori estetici (un paesaggio da guardare) o quelli etici (un paesaggio da vivere)? L'architetto è il mero esecutore dei voleri del committente, anche quando vadano contro l'interesse della collettività, o deve mostrarsi attento al bene comune? Sfidare i confini difficili fra città e paesaggio, decostruire i feticci di un neomodernismo conformista (il grattacielo e la megalopoli) e le sue conseguenze (i nuovi ghetti urbani) vuol dire tentare il recupero della dimensione sociale e comunitaria dell'architettura. In un paesaggio inteso come teatro della democrazia, l'impegno etico dell'architetto può contribuire al pieno esercizio dei diritti civili. Diritto alla città, diritto alla natura, diritto alla cultura meritano questa scommessa sul nostro futuro.
L'età media della popolazione italiana non è mai stata tanto alta, eppure oggi nessuno più si sente vecchio. Definirsi anziani è diventato un tabù; e tutti vogliono rimanere giovani, cedendo alle lusinghe di un'"eterna giovinezza". La questione della vecchiaia, però, diventerà sempre più centrale e porterà a profondi mutamenti sociali e culturali che ci coinvolgeranno tutti. Senza dimenticare che non si può negare un futuro alle nuove generazioni. Perché essere anziani significa aver imparato molte cose, e dunque prendersi l'autorità e la soddisfazione di raccontarle. Ma significa anche avere il diritto di scoprire uno spazio della vita tutto da reinventare, andare lenti, osservare meglio il mondo, lasciare spazio a chi è più giovane. Marco Aime e Luca Borzani ci accompagnano alla riscoperta di una fase dell'esistenza ingiustamente rimossa, che, senza ansie, si può e si deve vivere con pienezza.
L'amatriciana, la pasta al pesto, la cotoletta alla milanese, il baccalà in umido, il tiramisù. Ci sono piatti, sapori, che rimangono per sempre nella memoria. Sono quelli legati alla nostra infanzia, alle nostre abitudini famigliari, alla terra in cui siamo nati. Nella selezione proposta da Antonino Cannavacciuolo in questo libro, ognuno di noi ne ritroverà alcuni e ne scoprirà altri. Tutti arricchiti dal tocco personale dello chef, tutti cucinati con il cuore.
Jesper Orre, capo di una grande catena di abbigliamento, è il classico uomo dei sogni: torbido, affascinante, di classe. Emma Bohman, commessa in uno dei negozi del marchio, è innamorata di lui. La sua relazione con il ricco manager, però, si interrompe presto, ed Emma comincia anche a sentirsi minacciata. Pochi giorni prima di Natale, nell'elegante villa di Orre viene ritrovato il cadavere senza nome di una ragazza; del padrone di casa non c'è traccia. Dove è finito? Ma soprattutto, chi è la vittima? Del caso si occupano l'agente Peter Lindgren e la psicologa criminale Hanne Lagerlind-Schön; i due, che hanno già lavorato insieme, non avevano nessuna voglia di incontrarsi di nuovo.
Il populismo si è manifestato in forme molto diverse nel corso della storia, tra la fine dell'Ottocento e l'intero secolo breve; e anche oggi, la nuova disseminazione populista in Europa e negli Stati Uniti presenta differenze interne notevolissime, quelle che passano ad esempio tra la vittoria di Donald Trump e l'ascesa di Marine Le Pen. Ma un denominatore comune c'è: il populismo è sempre indicatore di un deficit di democrazia, cioè di «rappresentanza». Un deficit «infantile», per cosi dire, per i populismi delle origini, sintomo di una democrazia non ancora compiuta; e un deficit «senile», quando cresce il numero di cittadini che non se ne sentono più «coperti». Il populismo attuale - questa la tesi centrale del libro - è del secondo tipo: rappresenta una sorta di «malattia senile della democrazia». Il sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. È il segno più preoccupante del rapido impoverimento delle classi medie occidentali sotto il peso della crisi economica; ma anche della sconfitta storica del lavoro - e delle sinistre che lo rappresentarono - nel cambio di paradigma socio-produttivo che ha accompagnato il passaggio di secolo.
La canzone napoletana studiata e raccontata non nei suoi aspetti folcloristici più standardizzati, ma come mito che affonda negli archetipi musicali più antichi, come sonorità rimosse dalla memoria e affioranti dove meno te l'aspetti: in un mercatino domenicale dove si vendono dischi di prima della guerra o nel negozio di un barbiere cantante che conserva tradizioni perse nei secoli. Roberto De Simone ci conduce in una ricerca che diventa inventario di testi e musiche, ma anche racconto di personaggi, di luoghi, di rappresentazioni popolari devote e profane. Sempre nei libri di De Simone alto e basso, popolare e colto si intrecciano indissolubilmente; così avviene anche in questo libro, che insieme al saggio sul Presepe napoletano è forse il suo capolavoro, la summa delle sue ricerche e della sua antropologia culturale. Dunque nelle pagine della Canzone napolitana l'arte canterina di un anonimo venditore ambulante e la raffinata poesia di Salvatore Di Giacomo vanno a braccetto fra loro, come i melodrammi di Rossini e Donizetti e la performance di tre femminelli in processione a un santuario. L'alternanza fra capitoli di rigorosa musicologia e altri di spericolata narrazione è più apparente che reale, perché nei capitoli storico-musicali si insinua la fiction (come in un bellissimo colloquio immaginario fra Torquato Tasso e Monteverdi) e nelle narrazioni c'è molta filologia (peraltro le partiture delle canzoni sono raccolte in fondo al volume). Attraverso la trattazione storica e il racconto, De Simone delinea un genere musicale ma tratteggia anche il ritratto della sua città: una Napoli cangiante nei secoli eppure sempre se stessa. Un collage di sovrapposizioni (splendidamente rappresentate in un parallelo visivo dalle illustrazioni di Gennaro Vallifuoco, antico sodale di De Simone) legato da un filo rosso che arriva fino alla seconda guerra mondiale e, attraverso le testimonianze più resistenti ai cambiamenti della modernità, a saperle trovare e ascoltare, fino ai giorni nostri.
Dal più grande autore per ragazzi, una raccolta illustrata, dedicata alle stagioni e alle festività più amate dell'anno. Età di lettura: da 6 anni.
La sera in cui Giada si ammazza, Daria precipita in una sofferenza che nutre con devozione religiosa, perché è tutto ciò che le resta della figlia. Una sofferenza che la letteratura non deve aver paura di affrontare. Per questo siamo disposti a seguire Daria nel suo buio, dove neanche il marito e l'altro figlio riescono ad aiutarla; davanti allo scandalo di una simile perdita, ricominciare a vivere sembra un sacrilegio. Daria si barrica dietro i ricordi: quando non riusciva ad avere bambini e ne voleva uno a ogni costo, quando finalmente ha adottato Giada e il mondo «si è aggiustato», quando credeva di essere una mamma perfetta e che l'amore curasse ogni ferita. Con il calore avvolgente di una melodia, Michela Marzano dà voce a una madre e al suo struggente de profundis. Scavando nella verità delle relazioni umane, parla di tutti noi. Del nostro desiderio di essere accolti e capiti, della paura di essere abbandonati, del nostro ostinato bisogno di amore, perché «senza amore si è morti, prima ancora di morire».
Ambientato nel 1939 a Istanbul, nell'imminenza di un nuovo conflitto mondiale, Serenità è la storia di un gruppo di personaggi alla ricerca di un'identità, individuale e collettiva, in un mondo fortemente in bilico fra tradizione e modernizzazione, fra Oriente e Occidente, fra un passato di splendori e le ansie per un futuro incerto. Soprattutto è la storia di Miimtaz, giovane intellettuale che si rifugia nella letteratura e nella musica di un tempo che sta scomparendo; l'incontro con l'affascinante e complicata Nuran lo porterà invece a vivere una rinascita sensuale e mentale. Uscito nel 1949, "Serenità" è l'altro grande romanzo di Tanpinar, scritto prima dell'Istituto per la Regolazione degli Orologi, ed è una fotografia magistrale della Turchia nella difficile transizione dall'Impero ottomano alla Repubblica. Un libro tragico ma al tempo stesso bello come una sera d'estate sul Bosforo, passata a bere raki con gli amici ascoltando musica dal vivo.
Un grande scrittore e una psicoterapeuta si confrontano sulla necessità dell'uomo di raccontarsi e di inventare delle storie. J. M. Coetzee e Arabella Kurtz prendono in considerazione la pratica psicoterapeutica, e il suo più ampio contesto sociale, partendo da prospettive diverse, ma al centro di entrambi i loro approcci vi è il comune interesse per la verità e per le storie. Uno scrittore lavora in solitudine, ed è l'unico responsabile della storia che racconta. Il terapeuta, viceversa, collabora con i pazienti per far emergere un racconto della vita e dell'identità del paziente che sia allo stesso tempo significativo e vero. Che tipo di verità le storie create dal paziente e dal terapeuta cercano di scoprire? La verità oggettiva o quella mutevole e soggettiva dei ricordi esplorati e rivissuti durante la relazione terapeutica? Confrontandosi con le opere di grandi scrittori come Cervantes e Dostoevskij o di psicoanalisti quali Freud e Melarne Klein, e discutendo di psicologia individuale o dei gruppi (le classi scolastiche, le bande giovanili, le società coloniali), Coetzee e Kurtz propongono al lettore illuminanti intuizioni sulla nostra capacità - e difficoltà - di analizzarci e di raccontare, a noi stessi e agli altri, le storie della nostra vita.