1965. Un uomo e una donna, dopo aver abbandonato nel parco di Villa Borghese la figlia di otto mesi, compiono un gesto estremo. 2021. Quella bambina abbandonata era Maria Grazia Calandrone. Decisa a scoprire la verità, torna nei luoghi in cui sua madre ha vissuto, sofferto, lavorato e amato. E indagando sul passato illumina di una luce nuova la sua vita. "Dove non mi hai portata" è un libro intimo eppure pubblico, profondamente emozionante e insieme lucidissimo. Attraversando lo specchio del tempo, racconta una scheggia di storia d'Italia e le vite interrotte delle donne. Ma è anche un'indagine sentimentale che non lascia scampo a nessuno, neppure a chi legge. Quando Lucia e Giuseppe arrivano a Roma è l'estate del 1965. Hanno con sé la figlia di otto mesi, sono innamorati, ma non riescono a liberarsi dall'inquietudine che prova chi è braccato. Perché Lucia è fuggita da un marito violento che era stata costretta a sposare e che la umiliava ogni giorno, e ha tentato di costruirsi una nuova vita proprio insieme a Giuseppe. Per la legge dell'epoca, però, la donna si è macchiata di gravi reati: relazione adulterina e abbandono del tetto coniugale. Prima di scivolare nelle acque del Tevere in circostanze misteriose, la coppia lascia la bambina su un prato di Villa Borghese, confidando nel fatto che qualcuno si prenderà cura di lei. Più di cinquant'anni dopo quella bambina, a sua volta diventata madre, si mette in viaggio per ricostruire quello che è davvero successo ai suoi genitori. Come una detective, Maria Grazia Calandrone ricostruisce la sequenza dei movimenti di Lucia e Giuseppe, enumera gli oggetti abbandonati dietro di loro, s'informa sul tempo che impiega un corpo per morire in acqua e sul funzionamento delle poste nel 1965, per capire quando e dove i suoi genitori abbiano spedito la lettera a «l'Unità» in cui spiegavano con poche parole il loro gesto. Dopo "Splendi come vita", in cui l'autrice affrontava il difficile rapporto con la madre adottiva, "Dove non mi hai portata" esplora un nodo se possibile ancora più intimo e complesso. Indagando la storia dei genitori grazie agli articoli di cronaca dell'epoca, Calandrone fa emergere il ritratto di un'Italia stanca di guerra ma non di regole coercitive. Un Paese che ha spinto una donna forte e vitale a sentirsi smarrita e senza vie di fuga. Fino a pagare con la vita la sua scelta d'amore.
Dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni in meno? Un figlio, il ritorno a casa, la partita finale con la sua famiglia. E quell'ossessione che lo muove da sempre: la vita non è avere di più, è rischiare per avere tutto. Un romanzo tesissimo e profondo sulle passioni che ci rendono vivi, sugli amori mai dimenticati, su chi scrive il proprio destino dando fuoco all'anima. Sui padri e le loro eredità nascoste. I gabbiani a Rimini non urlano mai. In nessuna stagione dell'anno, neanche quando Sandro torna a casa dopo aver vissuto a Milano, e trova suo padre con la testa sempre più dura. Neanche quando passano i mesi e si accorge di essere rimasto lì con lui per affrontare la loro partita più grande, facendo un vecchio gioco: dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni in meno? Da giovane Nando Pagliarani aveva il torace da nuotatore e un destino interrotto. Ha lavorato sui bus turistici, fatto il ferroviere, posseduto il bar America, ma l'unica voce che dovrebbe esserci sul suo documento d'identità è: ballerino. Perché lui e sua moglie hanno ballato come diavoli, in tutte le competizioni della riviera romagnola. Ballavano per vincere. Anche a Sandro piace vincere, è una malattia di famiglia. Ma la sua danza è pericolosa. Le prime volte al tavolo da gioco era lui il tizio da spennare, poi è diventato lo sbarbato da tenere d'occhio. Quel che è certo è che prima aveva un lavoro stabile e programmava con Giulia un futuro. E adesso? Cos'è rimasto a Sandro, che voleva avere tutto? Cosa rimane a ciascuno di noi, ogni volta che sfidiamo la fortuna? Marco Missiroli firma il suo romanzo più potente e maturo, raccontando la febbre di un giovane uomo pieno di slanci e difetti, di una città di provincia che vive alla grande solo una stagione all'anno, di una famiglia arsa dall'amore e dalla smania.
Questo è un elogio della lentezza, intesa come elogio della lettura e della scrittura attenta. Se scrivere è indugio intorno al «fare», e leggere un restare in totale compagnia di se stessi, percorrendo un percorso individuale, il testo in quanto oggetto privilegiato deve di conseguenza assorbire ogni attenzione. E l'attenzione e l'indugio sono virtù da coltivare per i loro effetti positivi soprattutto in un'età come la nostra, l'età della velocità. E la velocità porta con sé, insieme ai notevoli agi, un'erosione culturale di cui ancora non siamo in grado di valutare le conseguenze.
1901. La peste dilaga sull'isola di Mingher e l'uomo chiamato a fermarla viene ucciso in circostanze misteriose. Nel destino di quella piccola isola e dei suoi abitanti Orhan Pamuk ha ricreato un mondo, parlando al nostro presente con una forza e un'intensità che sono quelle della grande letteratura. Nell'aprile del 1901 un piroscafo si avvicina silenzioso all'isola di Mingher, «perla del Mediterraneo orientale». Dall'imbarcazione scendono due persone: il dottor Bonkowski - il maggior specialista di malattie infettive dell'Impero ottomano - e il suo assistente. Bonkowski è lì per conto del sultano: deve indagare su un nemico invisibile ma mortale, che rischia di mettere in ginocchio un Impero già da molti definito il «grande malato d'Europa» e innescare così una reazione a catena nei delicatissimi equilibri continentali. Sull'isola di Mingher, si dice, c'è la peste. Il morbo viene rapidamente confermato, ma imporre le corrette misure sanitarie rappresenta la vera sfida, soprattutto quando le esigenze della scienza e della medicina più nuova si scontrano con le credenze religiose. In quest'isola multiculturale dove musulmani e cristiani ortodossi cercano di convivere pacificamente, la malattia funge da acceleratore delle tensioni sociali e non solo: poco dopo aver parlato con il governatore e chiesto che venga imposta la quarantena, il corpo del dottor Bonkowski viene trovato senza vita in un vicolo. In un drammatico crescendo la peste dilaga, spingendo le autorità a rafforzare le misure di contenimento: queste però aumentano le frizioni tra le varie identità dell'isola (e dell'Impero), tra chi le asseconda e chi nega l'esistenza stessa della malattia, o l'efficacia della quarantena, gettando la comunità nelle tenebre di una notte non soltanto sanitaria. "Le notti della peste" è un'opera-mondo grandiosa, universale, attraversata da echi di Tolstoj, di Manzoni, del Conrad di Nostromo, di Camus. Romanzo storico e allegorico (tra le righe si legge la deriva di ogni nazionalismo verso l'autocrazia dell'uomo forte), brulicante di personaggi e di storie, di guerre, amori e immortali tensioni etiche. In cui il particolare - le esistenze dei singoli individui travolti dalla Storia - si apre all'universale - il rapporto tra paura e potere, tra vita e destini generali, tra fede e ragione, tra modernità e tradizione.
Ci sono storie che aspettano di essere raccontate. La storia di Taja che vive coi suoi zii, e i genitori li sente una volta al mese. O della sua compagna di banco Charlie Dí, che il giorno della Festa della fioritura scompare saltando il fiume. O di Giulio Abour, che traduce per sua madre le bollette e le poesie. Delle ragazze e dei ragazzi di Basilici, che sono italiani ovunque siano nati. Sono storie d'identità, paura del diverso e desiderio di appartenenza. Di discendenze lontane, e di un domani che si esige nelle proprie mani. A raccontare questi ragazzi è Sara, che tutte le settimane li incontra per aiutarli con la scuola. Ha il loro stesso colore di pelle ma è cresciuta in Città. Credeva di vedersi tutta intera, invece si accorge di dover ancora mettere insieme molti pezzi. Il fiume Sele taglia in due la città, e Sara ogni giorno lo attraversa per andare nella scuola di Basilici. I suoi studenti arrivano da tutte le parti del mondo e la guardano con diffidenza. La chiamano Signorina Bellafonte, perché anche se è nera (come la maggior parte di loro) non è una di loro: è cresciuta di là dal fiume, suo zio è il guardiano del frutteto, e da quelle parti le pesche le chiamano «oro rosa», perché sfamano molte famiglie. Sara è la figlia adottiva di un professore di liceo e della cuoca dell'asilo. Sua mamma preparava torte e coltivava rose, suo padre le ha insegnato la passione per le parole: il suo mondo da bambina aveva confini certi. Ora don Paolo le ha trovato questo lavoro, crede che lei sia la persona giusta. Giusta perché? Questi ragazzini, che conoscono tre lingue e ne inventano una diversa ogni pomeriggio, avranno pure il suo stesso colore di pelle ma la scrutano, la sfidano di continuo. All'inizio non riesce a ottenere la loro attenzione nemmeno per mezz'ora. Le parole non bastano più, forse la strada per comunicare passa per certe esperienze difficili del passato: ogni volta che si è sentita diversa, nel posto sbagliato. Settimana dopo settimana quei nomi impronunciabili e quei volti sfuggenti diventano più famigliari: Tajaeli Kolu che le assomiglia così tanto, Zakaria Laroui con l'occhio pigro e zero modestia, Paul Bonafede che è mezzo italiano e sembra vergognarsene. Ma poi scompare Charlie Dí, che stava sempre seduta al terzo banco, e intanto si moltiplicano le aggressioni nel quartiere: ecco che questo processo accidentato ma prodigioso di conoscenza reciproca rischia di interrompersi. Eppure certe vite spezzate e ricucite possono ancora, come certi innesti, trovare il modo di fiorire.
Un tramonto e un'aurora, un declino e un'affermazione. La fine di Roma assomiglia a due figure che si rispecchiano l'una nell'altra, ora opposte ora strettamente connesse, come lo sono due lottatori che si stringono reciprocamente nel tentativo di sopraffarsi. In questo nuovo, affascinante affresco storico, Corrado Augias ci presenta la Roma cristiana, raccontando le storie di uomini, donne, luoghi e monumenti che caratterizzarono la fine del vecchio mondo, e annunciarono l'inizio e il trionfo di una nuova epoca. All'inizio del IV secolo l'Impero romano contava circa settanta milioni di abitanti, e si stima che meno del dieci per cento della popolazione aderisse alla religione cristiana. Una minoranza, ma in crescita. Adottare dunque quella religione, ammetterla tra le fedi consentite e dichiararsene membro, fu, da parte di Costantino, un gesto di immensa audacia. Dopo aver annientato il penultimo dei suoi concorrenti, Marco Aurelio Valerio Massenzio, nella famosa battaglia di Ponte Milvio, Costantino entrò trionfalmente a Roma percorrendo per l'intera lunghezza la via Lata (attuale via del Corso). Era il 29 ottobre del 312, giorno che può essere scelto come la data ufficiale di passaggio tra mondo antico e mondo cristiano. Ma nei fatti non è proprio cosí. Le date che indicano i grandi passaggi della storia umana sono sempre convenzionali. È difficile dire da quanto tempo quei nuovi modi di sentire e di vivere avessero realmente avuto inizio, quali e quanti fattori li avessero determinati e quali altri provocarono invece il declino e la scomparsa di riti, simboli, credenze, costumi sui quali milioni di individui avevano basato la propria esistenza. Resta che nel 324, diventato imperatore unico Costantino, la religione cristiana aveva assunto un'importanza e una dimensione mondiali e che sul finire del secolo l'imperatore Teodosio, detto il Grande, con il suo Editto di Tessalonica, la rendeva unica e obbligatoria. Era solo un primo passo; sarebbe stato via via completato proibendo culto e sacrifici pagani con la minaccia di punizioni severissime, compresa la pena di morte. In pochi anni i cristiani si erano trasformati da perseguitati in persecutori, e il mondo si apprestava a conoscere una nuova fase della sua storia. Tra sapere e meraviglia, Corrado Augias ci guida sui luoghi che furono protagonisti della rivoluzione cristiana, svelando monumenti e rovine che continuano a dare potente testimonianza della fine di un mondo. Ne risulta un'avventura affascinante - e un modo nuovo di vedere Roma - che dà alle pagine l'incanto che sempre deriva dal piacere della scoperta.
Il primo Atlante è il titolo di una poesia del 1980 dove Primo Levi gioca con i nomi, le forme e i colori delle tavole geografiche che lo hanno fatto sognare da ragazzo. Ma è anche una profezia e una definizione: il decennale, minuzioso lavoro di raccolta dei suoi testi, che qui vede compimento, è stato una lunga avventura di esplorazione in territori immensi, finora cartografati solo in parte.
La rivisitazione storica, politica e culturale del celebre ciclo di affreschi del Buon Governo, dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel 1338 nel Palazzo Pubblico di Siena, mutando i linguaggi della comunicazione politica.
Nel cuore oscuro di una città in cui pulsano colpe segrete, un gruppo di investigatori opera fuori dalle gerarchie e dalle regole. Li guida un ispettore che combatte contro i propri demoni. Un ricco imprenditore è stato assassinato. Era un tipo ambiguo, in pochi sembrano piangere la sua morte. Ma Carmelo Tancredi – personaggio che abbiamo imparato ad amare nei romanzi di Guido Guerrieri – capisce subito che è un'indagine per la "sezione fantasma", la sua squadra di reietti della polizia: uomini e donne dal passato torbido e dalle capacità formidabili.
«A cosa pensa una donna quando, assordata dalle voci di tutti, capisce all'improvviso di aver soffocato la propria?» In pochi come Matteo Bussola sanno raccontare, con tanta delicatezza e profondità, le contraddizioni dei rapporti umani. In pochi sanno cogliere con tale pudore il nostro desiderio e la nostra paura di essere felici. Una donna sola che in tarda età scopre l'amore. Una figlia che lotta per riuscire a perdonare sua madre. Una ragazza che invece non vuole figli, perché non sopporterebbe il loro dolore. Una vedova che scrive al marito. Una sedicenne che si innamora della sua amica del cuore. Un'anziana che confida alla badante un terribile segreto. Le eroine di questo libro non hanno nulla di eroico, sono persone comuni, potrebbero essere le nostre vicine di casa, le nostre colleghe, nostra sorella, nostra figlia, potremmo essere noi. Fragili e forti, docili e crudeli, inquiete e felici, amano e odiano quasi sempre con tutte sé stesse, perché considerano l'amore l'occasione decisiva. Cadono, come tutti, eppure resistono, come il rosmarino quando sfida il gelo dell'inverno che tenta di abbatterlo, e rinasce in primavera nonostante le cicatrici. Un romanzo in cui si intrecciano storie ordinarie ed eccezionali, che ci toccano, ci interrogano, ci commuovono. «Ho deciso di scrivere di donne perché non sono una donna. Perché ho la sensazione di conoscerle sempre poco, anche se vivo con quattro di loro. E perché è piú utile scrivere di ciò che vuoi conoscere meglio, invece di ciò che credi di conoscere già» (Matteo Bussola).