La moda come processo di individualizzazione e di socializzazione, allo stesso tempo mezzo per differenziarsi dagli altri e forma di condivisione sociale. La moda come mezzo di rappresentazione e di mobilità sociale. La moda è usata per creare un certo look e per apparire diversi da quello che si ritiene di essere. La storia propone molti casi di come la moda sia stata usata continuamente per "reinventarsi" e migliorare la propria condizione sociale ed economica. La moda come relazione fra consumo e produzione. La moda non è solo indossata o consumata, ma è anche pensata, creata, prodotta, venduta e promossa. Il consumatore non è quindi l'incontrastato padrone della moda; piuttosto la moda è un "sistema" di interazione fra differenti forze e attori. La moda come mezzo di differenziazione di genere ed età. La moda è anche uno strumento attraverso cui l'uomo e la donna si differenziano. Oggi pensiamo alla moda come arma della donna, ma, per gran parte della sua storia, la moda è stata più importante per l'uomo che per la donna. Inoltre, la moda nel distinguere l'oggi dal domani crea fratture nel tempo. Spesso queste sono generazionali e vedono la moda come strumento di innovazione sociale in cui il nuovo diventa il "giovane". Nel racconto di Giorgio Riello, il ruolo e lo sviluppo della moda all'interno dei processi di cambiamento storici.
È nel Mediterraneo che va diluita la modernità inconsapevole, troppo presa dalla corsa allo sviluppo. È qui che possono stemperarsi i dilemmi della globalizzazione. Occorre restituire al Sud l'antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri. D'altra parte il pensiero meridiano «esiste in forme disperse e talvolta malate e bisogna imparare a cercarlo: lo si può trovare nei nostri sud interiori, in una follia, in un silenzio, in una sosta, in una preghiera di ringraziamento, nell'inettitudine dei vecchi e dei bambini, in una fraternità che sa schivare complicità e omertà, in un'economia che non abbia ripudiato i legami sociali. Lo si può trovare nei sentimenti dove vivono più patrie, dove alla semplicità del sì e del no si sostituiscono i molti veli della verità».
Il libro è stato paragonato da Umberto Eco a un cucchiaio: un oggetto perfetto e non ulteriormente migliorabile. Ma come si è arrivati a questo risultato? Federica Formiga spiega quali siano gli elementi che identificano il prodotto librario e propone, in un percorso sistematico attraverso i secoli, le tappe del suo sviluppo e i suoi maggiori protagonisti. È tra Quattrocento e Cinquecento che si stabilizza un'accezione di libro come oggetto in grado di contenere testo in quantità considerevoli, prodotto a costi relativamente bassi e capace di resistere nel tempo. Il Settecento e l'Ottocento sono invece i secoli di svolta per gli autori, che iniziano a vivere del lavoro della propria penna, mentre gli editori si aprono alle nuove tecniche di stampa, che hanno lanciato il libro verso la modernità, passando dalla censura e dai diritti editoriali. Infine, agli e-book è riservata l'ultima parte, in cui si cerca di capire quali, forse, nuovi scenari aspettano il libro.
Nel "Flauto magico", nella "Creazione", nel "Fidelio", nella "Quinta" e nella "Nona Sinfonia" si esprimono i valori illuministi per eccellenza: la libertà, la fratellanza, l'uguaglianza. Valori che vanno conquistati passo dopo passo, che devono essere raggiunti attraverso un percorso graduale; e il processo musicale rispecchia questo percorso di conoscenza e di consapevolezza. Molte composizioni dei tre musicisti, e in particolare le cinque prese in esame in questo libro, sono articolate come una grande realizzazione musicale della metafora illuminista più nota, quella che ha dato il nome all'intera corrente di pensiero settecentesca: il passaggio dal buio alla luce, dall'oscurità dell'ignoranza e dell'oppressione alla luce del sapere e della libertà. Giovanni Bietti, stimato divulgatore musicale italiano, è convinto che oggi sia particolarmente importante ascoltare, eseguire, spiegare una musica che ci invita a usare la nostra intelligenza. Tanto più importante in quanto viviamo in un'epoca in cui molto spesso si cerca di addormentare il nostro intelletto.
Quando diciamo: «Prima gli italiani!» cosa intendiamo? Chi ha la cittadinanza italiana o chi in Italia ci abita? Chi parla italiano? Chi ha genitori italiani o chi in Italia ci è nato? E non è la prima volta che ci poniamo questa domanda: ha cominciato Dante con la 'serva Italia'; poi d'Azeglio con gli 'italiani da fare'; e ancora, i 'santi, poeti e navigatori'; gli 'italiani nuovi' fascisti o 'gli italiani brava gente'. Urliamo questo slogan in un paese dai confini incerti, diviso tra nord e sud, est e ovest, città e campagna. Un paese che ha faticato a parlare la stessa lingua, che racconta a sé stesso una storia composta di micromemorie di parte. Un paese in cui i momenti più divisivi della vita pubblica sono proprio le feste nazionali. Ora questa identità frammentata è messa ulteriormente sotto stress dalle generazioni di ragazze e ragazzi nati in Italia da genitori 'forestieri'. E negli stadi, con la realtà attorno a smentire l'ennesimo precario schema identitario, si grida: «Non ci sono negri italiani».
La maggior parte degli italiani non è abituata a pensare alla lunga storia del proprio Paese (tra Medioevo e Rinascimento, Controriforma e Risorgimento) anche come storia degli ebrei che pure, fin dall'epoca romana, lo abitarono ininterrottamente. Né, al contrario, la vitalissima storia ebraica nella nostra penisola è di solito concepita come parte integrante della storia italiana: la si pensa piuttosto come la parabola speciale di una minoranza emarginata, isolata, perseguitata; passiva di fronte agli eventi della 'Grande storia' o colpita in negativo da essi in ondate ininterrotte di antisemitismo. Germano Maifreda rovescia questo paradigma, sostenendo che conoscere la storia degli ebrei è indispensabile per capire la storia d'Italia nel suo complesso. Ripercorrendo, anche tramite documenti inediti, tante vicende piccole e grandi nell'arco di diversi secoli, l'autore dimostra che il passato italiano nei diversi ambiti (politico, economico, sociale, culturale, religioso) può essere visto con occhi nuovi se si tiene conto dell'azione costruttiva di donne e uomini ebrei; nonché delle influenze reciproche e delle tante forme di interazione avvenute tra loro e tutti gli altri abitanti della penisola.
Il rispetto delle persone e dell'ambiente deve essere al centro dell'impresa che guarda al futuro. Questo è in sintesi il paradigma dello sviluppo sostenibile, che chiama in causa non solo le aziende ma anche i consumatori e lo Stato. La sfida sarà vinta solo se il cambiamento culturale sarà preso in carico da tutti.
Questa è la storia di tre vite che si intrecciano indissolubilmente. Una storia di clandestinità, di estenuanti bracci di ferro e di colpi di mano. Di tre uomini che, combattendo contro i nazifascisti, il 25 aprile 1945 provano a rifare un paese da capo. Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri e Luigi Longo sono nati a pochi chilometri e a pochi anni l'uno dall'altro, con retroterra differenti, biografìe politiche e culturali diversissime, eppure con un destino comune. Pochi ricordano i loro nomi di battaglia: il generale Valenti, comandante del Corpo volontari della libertà, e i suoi due vice, Maurizio e Italo, alias comandante Gallo. Un militare, un azionista e un comunista che il 26 agosto del 1944 si incontrano per la prima volta, in clandestinità, e si stringono la mano. Senza sapere cosa succederà nei mesi successivi, senza sapere dove saranno e se ci saranno, alla fine di tutto, otto mesi dopo. E chiedendosi chi di loro sarà ai posti di comando, al momento dell'insurrezione. Sono ore che segnano una delle rotture più profonde della storia italiana, quelle in cui i vertici della lotta di liberazione si incontrano con i gerarchi di Salò in Arcivescovado, a Milano. Tutto intorno alla trattativa divampa l'insurrezione, mentre alla radio si sente una voce calma e determinata che intima ai fascisti: «Arrendersi o perire».
I palazzi che costellavano il colle Palatino a Roma erano una delle meraviglie del mondo antico. Decorati con il giallo della Numidia, il viola frigio, il grigio greco, il granito egizio, il bianco marmo italiano, non potevano che affascinare e meravigliare i loro visitatori per la ricchezza e la bellezza unica. Da queste stanze, per secoli, gli imperatori governarono quello che chiamavano il mondo, un enorme regno che nel momento della sua massima espansione si estendeva dalla Britannia all'Iraq. Fu una sfida imponente per tutti coloro che furono a capo dell'impero e che si trovarono ad affrontare invasioni e rivolte, guerre, congiure di palazzo, relazioni con popoli lontani e sconosciuti, nuove religioni rivoluzionarie, disastri naturali ed epidemie. Essere l'imperatore di Roma fu un compito così gravoso che soltanto in pochissimi si rivelarono all'altezza. La storia di Roma e del suo impero raccontata attraverso la vita di dieci uomini e del loro tempo: da Augusto, il fondatore, a Costantino, il cristiano, fino a Romolo Augustolo, ultimo simulacro del potere imperiale.
Oggi per la Chiesa la situazione è molto difficile. Si tratta di una delle tante crisi che il cristianesimo ha vissuto o di un definitivo declino? È un interrogativo che inquieta anche chi guarda al cristianesimo dall'esterno. Ma crisi non vuol dire necessariamente fine. Può essere un'opportunità per aprirsi al futuro, sapendo che il grande rischio è accontentarsi di sopravvivere, rimpiangendo un passato migliore. La soluzione è vivere nella crisi. La Chiesa oggi è chiamata a una condizione di lotta, questa volta non contro nemici esterni ma contro l'indifferenza e il discredito.