Un piccolo libro in cui Kallistos di Diokleia, con la maestria di sempre, tocca una delle nozioni centrali della fede cristiana – quella della salvezza. Tutti facciamo esperienza del peccato e dei suoi effetti nella nostra vita, e per questo avvertiamo il bisogno di qualcuno che ci guarisca. Questa guarigione tuttavia non trasforma semplicemente la corruzione e la morte in sopravvivenza, ma offre una nuova possibilità di vita che è quella che Dio stesso nella sua incarnazione ha inaugurato. Salvezza vuol dire allora redenzione: il Figlio di Dio è venuto per riscattarci dalla schiavitù del peccato e della morte. Ma salvezza vuol dire anche vita nuova. Cristo, Dio-uomo, è Lui in persona la nostra salvezza, la nostra nuova esistenza, ed è nella sua risurrezione che si manifesta il compimento della nostra redenzione, come vittoria finale sulla morte e apparizione della nuova creazione, la possibilità per noi del modo di esistenza trinitario: la vita come dono di sé nell’amore. E siccome viviamo e pecchiamo, allora ci è indispensabile pentirci, continuare a pentirci e rimanere in questo “stato salvifico” per tutta la vita, giacché il pentimento crea quell’atmosfera spirituale indispensabile nella quale solo si può incominciare, accrescere e conservare la vita nuova. Un testo che, pur essendo breve, non è meno completo di un manuale. Tutti i temi dell’antropologia sono presenti in modo organico, uno rimanda all’altro, e sono sempre sostenuti dall’esperienza dei santi della tradizione spirituale.
Indice: Prefazione (Michelina Tenace) • 1. Come siamo salvati? La comprensione della salvezza nella tradizione ortodossa • 2. “Dobbiamo pregare per tutti”: La salvezza secondo san Silvano del Monte Athos
"San Porfirio è uno dei santi contemporanei più amati dal popolo greco. Al secolo Evangelos Bairaktaris, nacque nel 1906 in un villaggio nell'isola di Eubea, in Grecia, in una famiglia di contadini con molte difficoltà a mantenere la famiglia numerosa. Per questo il piccolo Evangelos, all'età di sette anni, va prima a lavorare a Chalkida in una bottega e poi si trasferisce al Pireo, in un negozio di alimentari di proprietà di un parente. All'età di dodici anni fugge di nascosto per il Monte Athos, mosso dal desiderio di imitare san Giovanni il Calibita, al quale era particolarmente affezionato da quando aveva letto la sua biografia. La grazia di Dio lo conduce all'eremo di san Giorgio, a Kafsokalyvia, sotto l'obbedienza di due anziani, che lo introducono nella vita monastica. Riceve ben presto carismi straordinari, che non lo portano al compiacimento di sé, ma a stupirsi di Cristo. A diciannove anni si ammala gravemente, tanto da dover abbandonare l'Athos. Ordinato sacerdote nel 1926, nel 1940 diviene cappellano del Policlinico di Atene. Qui rasserena gli animi e attutisce il dolore, offrendo in silenzio una consolazione che apre ad un altro mondo. Nel dicembre del 1991, Dio gli concede di tornare a morire nella cella in cui era stato consacrato monaco. Le sue ultime parole furono quelle che tanto amava e tanto spesso ripeteva: "Perché siano una cosa sola" (Gv 17,11). Il 27 novembre 2013, il Santo Sinodo del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha deciso l'inclusione formale di Porfirio di Kafsokalyvia nella lista dei santi. La sua memoria si celebra il 2 dicembre."
La vera secolarizzazione è avvenuta con una cultura centrata sull’individuo. L’individuo è lo scoglio contro il quale si è frantumata ogni impostazione teologica, pastorale, della vita spirituale, dell’ecclesiologia, di tutto. E ogni tentativo di aggiustare l’individuo, di sottolineare il mistero dell’uomo, di mettere al centro la solidarietà, la comunità, la condivisione – tutte queste realtà si sono dimostrate impotenti perché non sono in grado di superare ontologicamente l’individuo. Si sono semplicemente spostate a livello dei valori desiderabili. È come se avessimo paura di ripartire dalla teologia nel senso squisito e di ripensare il nostro approccio al mistero fondante che è la Trinità, dove l’amore, la solidarietà, la condivisione, la comunione non sono valori etico-morali da raggiungere, ma sono la realtà fondante di ciò che teologicamente viene chiamata persona. Kallistos di Diokleia ha colto dal didentro la crisi verso la quale la nostra cultura, la nostra storia ci portano sempre più decisamente ed ha avuto il coraggio esemplare di ripartire dal mistero centrale della nostra fede. Proprio per la sua capacità comunicativa, egli rende fruibile in modo gustoso le grandi aperture che fanno respirare una visione dell’uomo organica, unitaria, divino-umana, dove la comunione è veramente l’ontologia dell’antropologia.
"In quanto mistero, l'essere umano non può mai essere 'definito'. Eppure c'è una via che ci permette di dire l'uomo, la via che Dio stesso ha preso per rivelarci chi siamo: il Figlio, Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Questo libro ha dunque scelto la via migliore per parlarci dell'uomo: partire da Cristo, dalla risurrezione per parlare dell'uomo, del corpo risorto. C'è un'antropologia che non parte da Cristo, ma dal fenomeno umano, e che per questo, senza rendere conto della fede nella risurrezione, inciampa nella questione del corpo, e dunque non garantisce l'unità di tutto ciò che è l'uomo" (dalla Presentazione).
Questo libro, pubblicato per la prima volta quasi 40 anni fa, ha un approccio insuperato. Quando ci viene presentato un mondo di fede e di santità sconosciuto, da cui ci separa una distanza sia di tempo che di cultura, oltre che una onesta e seria ricerca che ci spieghi il senso di espressioni, gesti e parole a cui non abbiamo un accesso diretto, c’è bisogno di qualcuno che ci faccia cogliere il suo senso esistenziale per noi. Le introduzioni di p. Špidlík ai singoli capitoli sono proprio questo: un viaggio in un mondo di santità e di fede non come turisti, né come archeologi, ma valorizzandolo come qualcosa di originario del cristianesimo, importante non solo per la Chiesa particolare che esprime, ma per la Chiesa universale e per la vita della Chiesa di oggi.
Quando la fede è compresa come un credo, un culto, delle prescrizioni, ma niente di tutto questo è collegato alla vita, Schmemann afferma che si tratta di una questione di memoria. Ma quale memoria? Non la nostra memoria psicologica – una delle facoltà più ambigue dell’uomo, capace di risuscitare il passato, nella consapevolezza tuttavia che si tratta di qualcosa che non c’è più, che la nostra vita è frammentata e scompare nella morte –, ma la memoria che ci è svelata nella liturgia. Cristo ha collegato la sua presenza tra noi al comando “Fate questo in memoria di me”. Attraverso la celebrazione dell’Eucaristia, che rinnova la memoria della persona del Signore – quindi di quanto Egli ha comunicato agli uomini come salvezza e pienezza di vita –, noi abbiamo accesso, nella frammentarietà della nostra esperienza, alla pienezza della memoria divina, dove tutto vive. L’anamnesi liturgica è quindi la realtà del regno presente in mezzo a noi che ci è dato come anticipo della pienezza escatologica e come forza di attrazione per camminare verso questa pienezza. È a partire da questa memoria che Schmemann vede il senso della teologia, della missione e anche quello della vita personale.
Da tanto tempo si avverte che nella vita religiosa qualcosa non va. Si sono fatte tante analisi sulla vita comunitaria e sulle opere delle religiose e dei religiosi, come anche sulla loro collocazione nella Chiesa. Il libro mette in evidenza alcune dinamiche teologico-spirituali della storia della vita religiosa alle quali si può attribuire lo stato in cui essa si trova oggi, individuando dei sentieri che aprono agli orizzonti in cui propriamente si colloca la risposta a Colui che chiama. E lo fa mantenendo viva una creatività dinamica tra il monachesimo antico e la vita religiosa nella forma che essa ha assunto in occidente nel secondo millennio. L'aspetto della memoria, infatti, è costitutivo della vita religiosa, perché essa è in un certo senso, nella Chiesa, tra le realtà che hanno la memoria più lunga: dalla memoria dei deserti in cui è cominciata a quella della parusia, di cui costituisce un'anticipazione vivente. È nello spazio di questa memoria, allora, che essa impara a non avere il cuore imprigionato dalle proprie realizzazioni e a disporsi continuamente ad accogliere il dono. E questa è la condizione del suo servizio alla Chiesa, la possibilità di avere gli occhi attenti a saper cogliere il germoglio quando ancora punge il gelo.
La storia dell’umanità viene raggiunta dall’amore di Dio con l’incarnazione del Verbo. Cristo, da un lato, assume la storia dell’umanità, dall’altro si lascia plasmare da essa.
Così la nostra storia comincia a trasfigurarsi nella storia della salvezza. Attraverso la pasqua, Cristo ritorna alla gloria del Padre come la vita senza tramonto, coinvolgendo anche noi nel suo passaggio. La cripta che accoglie il corpo di san Pio è uno spazio della luce di Cristo, luce della santità e della fedeltà perenne di Dio, che vorrebbe richiamare alla memoria di ogni battezzato la sua vera patria: il cielo. A partire dalla tomba vuota e dal soffio che Cristo trasmette agli apostoli, le immagini della cripta, accompagnate da brevi commenti teologico-spirituali e citazioni patristiche e liturgiche, ci introducono a contemplare il mistero della nostra vita in Cristo.
Le questioni sollevate in questi saggi riguardano un ampio genere di argomenti: storia, teologia, liturgia, l’ordinamento canonico della vita ecclesiale, il movimento ecumenico e la missione. Un interrogativo di fondo, da cui nascono tali questioni, dà loro una interiore unità e coesione: qual è il destino della Chiesa ortodossa nell’epoca contemporanea, in un mondo e una cultura radicalmente diversi da quelli che hanno plasmato la mentalità ortodossa, le forme di pensiero e gli stili di vita del passato.
In una manciata di pagine, p. Guy ci dà una lettura della storia plurisecolare della vita religiosa facendoci cogliere anzitutto che esiste una unità della vita religiosa, prima della molteplicità delle sue forme, e che pertanto tutte le forme precedenti hanno qualcosa da dire sul modo in cui oggi cerchiamo di viverla.