Perché Dante ha scritto la "Commedia"? Per amore. Mantenere una promessa d'amore, fatta nell'ultimo capitolo della "Vita Nuova", è la ragione per cui, secondo Etienne Gilson, l'altissimo Poeta di Firenze ha deciso di impegnarsi nell'impresa del suo capolavoro. Ed è anche, indirettamente, la ragione per cui ha scritto il "Convivio", documento incompiuto del periodo di "trenta mesi" dedicato da Dante allo studio della filosofia. Dunque, l'obiettivo era dire di Beatrice quello che mai non file detto d'alcuna, cioè fare della donna amata un'anima del cielo in grado di disporre del poeta latino Virgilio e del mistico cristiano Bernardo di Chiaravalle, entrambi inviati in aiuto di Dante nel suo viaggio nell'aldilà. Il poeta perciò studia come vivono angeli e beati nell'oltremondo, nel regno di Dio dove ormai la sua donna è per l'eternità. Divenuto così esperto di filosofia e teologia, dopo i canonici studi letterari di grammatica, Dante assume il ruolo di pacificatore fra le due grandi culture "nemiche" del Medioevo, quella retorico-letteraria e quella della filosofia Scolastica, che aveva il suo fulcro nell'Università di Parigi. E così diventa anche il più originale, straordinario poeta del suo tempo. studioso di cultura filosofica medievale, Etienne Gilson dedicò a Dante nel settimo centenario della nascita, il 1965, questi nove saggi, mostrandone il legame indissolubile, vitale sorgente d'ispirazione, con la "bambina di Firenze".
Attendere la rinascita? È questa la proposta che ci viene da Paul Ricoeur in questa scelta di interviste che spaziano dalla bioetica all'ecologia, dalla giustizia al tema, così caro ai filosofi francesi, del possibile ruolo dell'intellettuale nella società contemporanea. Partendo sempre dalla propria esperienza personale - di orfano di entrambi i genitori, di studioso, di prigioniero di guerra, di docente universitario - Ricoeur propone una lettura di alcuni temi caldi del nostro tempo e assieme addita la direzione di una "rinascita" che, ricomponendo i rapporti sociali, porti in sé la risoluzione o almeno una maggiore coscienza dei dilemmi etici sulle grandi tappe della vita e sulla corretta gestione del pianeta Terra. Su questi punti Ricoeur è chiaro. Il rapporto verticale tra istituzioni e individui deve essere integrato da organismi orizzontali, di prossimità, da "cellule del buon consiglio" che non lascino mai solo l'uomo di fronte alla società nel suo complesso. A partire da questo, Ricoeur propone di superare il dualismo tra una giustizia istituzionale, monolitica, e la pluralità delle etiche individuali, costruendo "sfere di giustizia" in cui la visione dell'altro come controparte si trasformi nella "via buona" del riconoscimento e della relazione.
Barbara ha 40 anni, vive in un condominio alla periferia di Roma. Ha un diploma di belle arti conseguito a Parigi. Si mantiene vendendo i suoi quadri, tele sgargianti che rappresentano scene sacre. Nelle ore in cui non lavora, Barbara prega, medita davanti alle icone, intona liturgie. Barbara è un'eremita. Lucio, invece, cammina. Non ha l'auto né altri mezzi. Una volta l'anno, all'inizio dell'estate, parte a piedi, resta fuori casa qualche mese, dormendo nelle sacrestie, nei santuari, ovunque gli si offra ospitalità. Se ne ha l'occasione, parla del Vangelo con le persone che incontra.
Altrimenti resta in silenzio. Poi rientra, torna al suo eremo nei boschi della Toscana.
Lì trascorre il resto dell'anno, studiando la Bibbia, accogliendo le persone che si rivolgono a lui per un consiglio, un'indicazione spirituale e che in cambio gli lasciano qualcosa da mangiare. Carlo è sacerdote, ma ha una laurea in medicina e una specializzazione in psichiatria. Ha lavorato a lungo in Francia, negli ospedali. Ora passa in silenzio e solitudine tutte le mattine e tutte le sere, in un piccolo appartamento di città. Il pomeriggio, scende nella chiesa sotto casa dove confessa ogni giorno una decina di persone. Questi sono alcuni rapidi profili degli eremiti italiani di oggi. Gli eremiti, a cui molti pensano come a figure di un passato lontanissimo, sono invece, e proprio negli ultimi decenni, una realtà viva e presente sia in Italia che all'estero.
Questo libro presenta i risultati della prima indagine sul campo dedicata all'eremitismo italiano: 35 lunghe interviste con eremiti giovani e anziani, uomini e donne. L'eremita, una figura dal passato millenario, non smette di stupire, di interrogare, di lanciare un messaggio al quale nemmeno il passante frettoloso rimane indifferente.
Il ministro di Gran Bretagna presso la Santa Sede nel 1939 scrive che il Sostituto della Segreteria di Stato Montini "non mostra inclinazione a subire gli entusiasmi fascisti". Su cosa si basa questo giudizio? Si tratta di un disimpegno spirituale "a-fascista" o Montini può definirsi veramente antifascista? Questo libro dimostra con i documenti che si può parlare di un antifascismo "montiniano". Una modalità che unisce la forza della fede al senso dei valori civili e umani, e si traduce nell'impegno perché gli universitari cattolici, dei quali Montini è assistente ecclesiastico, non si rassegnino a questa stagione del loro "infelice paese". Montini non è un politico, resta sempre e fermamente un sacerdote che si vuole occupare delle anime (anche di quelle dei fascisti). È motivato da una tenace speranza cristiana e convinto, sia pure di fronte alle "ingiurie, gli urti e quindi le percosse" delle squadracce contro i suoi giovani, che l'aiuto di Dio "si gioca degli uomini e degli avvenimenti per insegnare agli uomini cose migliori". E, alla fine, per quanto "attraverso ceppi e ostacoli, dietro timidezze e incertezze, rinunce e divieti, perdite e abbandoni", questi giovani montiniani crescono, le loro idee e i loro ideali si rafforzano e infine vincono. Il fascismo esibisce la volontà di "creare lo spavento", rivelando in realtà solo "il coraggio di mostrarsi pauroso": e Montini, quasi vent'anni prima che avvenga, ne prevede la disfatta.
"Un grande testo non è solamente bello. Esso genera vita, ha un'influenza seminale. Così avviene per 'I miserabili' come per 'Le illuminazioni'. Fra le opere di Péguy, nessuna meglio del 'Portico del mistero della seconda virtù' ha esercitato questo ruolo fecondante. Innumerevoli lettori ne hanno beneficiato. Alcuni ne hanno attinto la forza per un'intima resurrezione", scrive Jean Bastaire nella postfazione a questa nuova traduzione di una delle opere poetiche più intense di Charles Péguy, del quale quest'anno, il 5 settembre, ricorre l'anniversario della morte (rimase ucciso durante la battaglia della Marna). Chi era Péguy? Un personaggio dai molti volti, ciascuno dei quali può avere una sua particolare forza d'attrazione. Un personaggio fuori dagli schemi, non solo perché scomodo o atipico nella sua stessa parabola esistenziale di "cattolico non come gli altri", ma anche perché singolare nel suo personale modo di comunicare la sua riflessione e la sua esperienza di fede.
Marsiglia, autunno 1940. Simone Weil scrive una lettera al ministro dell'Istruzione della Francia di Vichy, Jérôme Carcopino, in polemica con lo "Statut des Juifs", di cui mette in luce incoerenze e assurdità, e afferma con forza la propria estraneità alla tradizione ebraica. Il tono con cui rivendica questa estraneità spiega, almeno in parte, anche uno dei suoi scritti più controversi, steso durante gli ultimi mesi di vita, a Londra, mentre lavorava per "France Libre": sono pagine di commento a un testo prodotto da una delle organizzazioni della Resistenza attive nella Francia occupata dai tedeschi. In esse Simone Weil approva le proposte xenofobe e antisemite di questa organizzazione della destra politica, suggerendo di procedere certo in modo non brutale, ma con l'adozione di misure discriminatorie (per esempio impedendo agli ebrei di insegnare nelle scuole), l'imposizione di un'educazione cristiana, l'eventuale privazione della nazionalità francese. Questa estraneità personale all'ebraismo, però, si alimenta nella Weil anche di una serie di ragioni teoriche, ovvero teologiche. In alcuni scritti stesi tra Marsiglia e New York, per la prima volta riuniti in questo volume, Simone Weil ritorna ossessivamente sulla differenza radicale che, a suo dire, separa e isola Israele dagli altri popoli del Mediterraneo antico. L'unicità di Israele, ai suoi occhi, sta tutta e solo nel suo rifiuto caparbio della idea del divino che dagli egizi si diffonde in tutte le altre culture mediterranee.
Il dono del creato e la sua custodia sarà il tema della nuova annunciata enciclica di Papa Francesco. Quello del creato e dell 'agire dell 'uomo in esso è un tema ad ampio raggio che la Chiesa, dagli anni del Concilio in poi, ha affrontato più volte con larga visione degli aspetti e dei problemi che si intersecano e interagiscono nel discorso sull 'ambiente. In questo tema ad ampio raggio, l'etica della responsabilità e della giustizia, non meno che lo slancio della carità, non potranno non essere il lievito che farà sviluppare interventi decisivi per un equilibrio generale della terra, a cominciare dall'eliminazione dello scandalo della fame, dalla distribuzione universale dei beni, dall'inclusione sociale dei poveri. Questo libro è una antologia ragionata dei testi che i Papi - da Giovanni XXIII a Francesco - hanno dedicato a questo tema e vuole offrire al lettore un percorso preparatorio alla prossima enciclica di Papa Francesco, che darà nuovo impulso alla riflessione di credenti e non credenti su una delle questioni più rilevanti del nostro tempo.
Il più ortodosso degli scrittori e il più eterodosso degli artisti, ovvero il cattolico Gilbert Keith Chesterton e il visionario William Blake: un incontro apparentemente impossibile e che invece prende corpo in questo piccolo capolavoro dimenticato. Apparsa originariamente nel 1910 e finora mai tradotta in italiano, la rapida biografia che Chesterton dedica all'autore dei "Canti dell'Innocenza e dell'Esperienza" è molto più che una semplice ricognizione nella vita di un personaggio eccentrico, inclassificabile e geniale. Pittore mancato e occasionale frequentatore dello spiritismo in gioventù, Chesterton riconosce in Blake gli elementi di un'intesa profonda, fondata anzitutto sulla virtù - universale, eppure tipicamente inglese - dell'immaginazione, da intendersi non come costruzione fantastica ma come capacità di cogliere con un colpo d'occhio la reale sostanza delle cose. Il risultato è un pamphlet paradossale e pungente, nel quale le considerazioni di natura artistica si mescolano a fulminanti notazioni di politica e di costume (una fra tutte: l'Inghilterra del passato grandioso come nazione di bottegai e dunque di poeti, contrapposta al presente nel quale prosperano solo i "proprietari di negozi"). Paradossale e ispirato, Chesterton scorge nell'isolamento di Blake rispetto al suo secolo, il Settecento, un'anticipazione della propria irriducibilità alle categorie novecentesche...
A dieci anni dalla morte del grande filosofo francese, questo volume tocca una delle questioni che più hanno occupato la sua riflessione negli ultimi anni di vita: l'eredità culturale ebraica nel rapporto con l'Occidente. Nelle tre interviste qui pubblicate, Derrida prende posizione nei grandi dibattiti del nostro tempo indagando temi specifici: la sfida della giustizia, il dovere del perdono e quello della memoria, l'ordine mondiale e le superpotenze, il confronto inquietante con l'Altro. A partire dalla circoncisione (patto di alleanza, marchio degli eletti, ma anche incisione, segno, separazione, e in quanto tale atto linguistico) Derrida riflette sull'essenza conoscitiva dell'ebraismo e sulle questioni che l'eredità culturale ebraica pone a tutto l'Occidente. Nelle pieghe di un discorso sottile ma sempre vivacemente militante, le parole-chiave della riflessione civile e morale vengono ricondotte da Derrida alla loro radice storica. Liberate dalle secche della banalità attraverso il loro potenziale di polisemia, di ambiguità e di mistero, le grandi parole d'ordine tornano qui a offrire conoscenza e risposte che stimolano a pensare fuori dai luoghi comuni.
Il ruolo della cultura in Francia e in America; pragmatismo e democrazia; iconografia e autorappresentazione dei popoli; il femminile nell'esperienza giudaico-cristiana; il nuovo statuto della psicanalisi; il corpo e l'amore come forma di conoscenza... In tre interviste rilasciate negli anni Ottanta, de Certeau posa lo sguardo lucido e sorprendente del savant su molte questioni del nostro tempo, applicando i propri strumenti storici e concettuali non più alla cultura medievale o alla mistica secentesca, ma a temi profondamente radicati nell'oggi. Lezioni di pensiero ma anche conversazioni piacevoli, in cui de Certeau non esita a rispondere con spontaneità alle curiosità degli intervistatori sulle sue impressioni di viaggiatore, sulle sue abitudini, sul suo tempo libero. Una possibilità inedita offerta al lettore italiano per conoscere meglio un pensatore a volte difficile e misterioso, nella varietà e vivacità dei suoi interessi e in una dimensione più affabile.