
Il "partito romano" ha una storia a cavallo tra la politica italiana, la Chiesa e la Curia romana. Per Alcide De Gasperi si tratta di una lobby ecclesiastica con cui fare i conti per la creazione e la conservazione del sistema politico da lui realizzato. La visione del "partito romano" è fortemente bipolare, critica verso il centrismo e il parlamentarismo degasperiano. In sostanza corrisponde a quella che è la geopolitica di una parte consistente della Curia romana, ben espressa dal card. Ottaviani: lo scontro epocale tra la Chiesa e l'"antichiesa", tra cristianità e comunismo. La storia del "partito romano" è la vicenda dell'opposizione alla politica degasperiana, ma anche dell'antagonismo con Giovanni Battista Montini, Sostituto della Segreteria di Stato con Pio XI e Pio XII e, dal 1954, arcivescovo di Milano, considerato il maggior sostegno in Vaticano del leader democristiano. Questo prelato rappresenta una visione riformista della Chiesa e milita per un rapporto meno conflittuale con il mondo contemporaneo. Non è l'avversario dei "romani" solo da un punto di vista politico, ma lo è principalmente nella vita della Chiesa. La prima edizione di questo volume, apparsa nel 1983, ricostruiva questa vicenda dalla fine della guerra mondiale sino al 1954, anno della morte di De Gasperi e del trasferimento di Montini a Milano.
DESCRIZIONE: Passato alla storia della teologia del secolo XX soprattutto per il "discorso funebre" che ebbe il coraggio di pronunciare sulla ricerca sulla vita di Gesù (Leben-Jesu-Forschung) praticata nel secolo precedente, Albert Schweitzer è figura singolare di testimone di quanto studiava: l’attenta lettura del messaggio di Gesù, da lui inteso come messaggio escatologico – in contrapposizione alla teologia liberale – e della mistica dell’apostolo Paolo, lo condusse, infatti, a praticare in forma radicale l’etica cristiana dedicando lunga parte della sua vita (dal 1913 al 1965, salvo gli anni di detenzione in Francia durante il primo conflitto mondiale) alla cura dei lebbrosi, presso l’ospedale da lui stesso fondato a Lambarené (Gabon). La sua fu un’esistenza protesa alla assimilazione alla volontà di Gesù, che comporta un "profondo rispetto per la vita". In lui mistica e studio si incontrano in mirabile sintesi, alimentandosi reciprocamente, a testimonianza che il "ritorno all’autentico Gesù" non si attua semplicemente con l’indagine storico-critica, peraltro da lui abbondantemente praticata, bensì unendo questa con l’assunzione della pratica vissuta dal medesimo Gesù in vista del Regno di Dio. (Giacomo Canobbio)
COMMENTO: Una biografia intellettuale che ritrae l'originalità di un pensatore multiforme del '900: di grande ricchezza culturale, noto come musicologo, eccelso interprete di Bach, A. Schweitzer fu anche fine filosofo e profondo teologo, di cui qui si disegna il pensiero. Con un importante inedito per la prima volta tradotto.
ENRICO COLOMBO si è laureato e ha ottenuto il Dottorato di ricerca in Filosofia, presso l’Università degli Studi "Statale" di Milano; professore nei licei, continua l’attività di ricerca presso la cattedra di Storia della filosofia contemporanea di quella stessa Università. Autore di saggi sul pensiero tedesco tra Settecento e Ottocento, ha pubblicato Antidialettica. Polemiche sul pensiero hegeliano (Milano 1998), La signoria della ragione. Albert Schweitzer filosofo del Novecento (Milano 2004) e ha curato A. Schweitzer, Melodia del rispetto per la vita. Prediche di Strasburgo (Cinisello Balsamo 2002).
Si legge nella Bibbia che uno dei compiti fondamentali del sacerdote è quello di insegnare a tenere distinto e separato ciò che è sacro da ciò che è profano, ciò che è impuro da ciò che è puro. Frase che contiene l'espressione di idee oggi malamente afferrabili, comprensibili solo come metafore indicanti valori affermati o traditi. Questo studio traccia la storia della categoria "sacro/profano - impuro/puro" quale si può ricavare dalla Bibbia e da molti altri scritti della cultura ebraica dalle sue origini fino al sorgere del cristianesimo. Un libro nel quale l'indagine storica non solo svela inaspettate trasformazioni di senso delle parole "sacro" e "impuro", ma mostra un'immagine inconsueta dei tanti volti del giudaismo e delle loro relazioni con la nascita del cristianesimo.
DESCRIZIONE: Tutte le domande e le risposte di questo dialogo pedagogico - in una ripresa laica del genere rabbinico delle she'elot u-teshuvot [domande e risposte] - ruotano attorno al tema del "cosa insegnare" allo scopo di formare nei giovani ebrei una "vera coscienza ebraica". Questo testo è esso stesso un momento della tradizione che tramanda se medesima e dà voce a quel «contatto vivente per cui l'uomo afferra la verità primordialie, ricollegandosi ad essa attraverso tutte le generazioni nel dialogo del dare e del ricevere». Quasi fosse un testamento del maggior studioso novecentesco del giudaismo, rivolto a tutti coloro che vogliano introdursi ai sentieri dell'ebraismo.
COMMENTO: Uno straordinario inedito del massimo studioso novecentesco di ebraismo che si sofferma sul rapporto tra educazione ed ebraismo nell'età contemporanea.
GERSHOM SCHOLEM (1897-1982), filosofo e storico ebreo nato in Germania, per gli studi sulla Kabbalà fu nominato primo professore di misticismo ebraico all'Università ebraica di Gerusalemme. Tra le sue pubblicazioni: Le grandi correnti della mistica ebraica (Einaudi 1993); La kabbalah e il suo simbolismo (Einaudi 2001); Sabbetay Sevi. Il messia mistico. 1626-1676 (Einaudi 2001); Da Berlino a Gerusalemme. Ricordi giovanili (Einaudi 2004); Tre discorsi sull'ebraismo (La Giuntina 2005).
"Il lirico -- insieme alla preghiera personale, che pone al centro del rapporto la propria persona e il suo patema -- è il luogo, "eterno ed universale", dove la coscienza umana scopre L'"esistenza" e il sé si lega, nei flutti del principium individuationis, all'albero dell'Io per non soccombere".Una definizione a partire dalla quale l'autore si interroga sulla relazione tra lirica e filosofia nell'età moderna -- ove il soggetto da presupposto diviene problema -- e in Qohélet, ove lo sguardo poetico getta una fredda luce sulla creaturalità dell'esistenza e fa da controcanto alle certezze della sapienza. Quasi che lirica e filosofia, con movenze linguistiche diverse, si incontrino al cospetto di quell'enigma che va sotto il nome di uomo.
DESCRIZIONE: La fortuna di questo saggio, pubblicato per la prima volta nel 1967, è dovuta ad almeno due motivi. Per un verso, coglie lucidamente la natura particolare dell’intreccio tra religione e politica negli Stati Uniti, legata certo al cristianesimo protestante e puritano dei padri fondatori, ma anche in grado — come dimostra l’analisi dei discorsi presidenziali — di trascendere il dato confessionale, rivelandosi un potente fattore inclusivo e di coesione morale. Per un altro verso, proprio questa peculiarità fa sorgere un problema più generale di confronto, per analogia ma anche per differenza, con la situazione europea. Il fatto che oggi si ritorni a parlare di "religione civile" a vari livelli — riguardo sia al generale processo di sacralizzazione della politica sia ai cambiamenti nel frattempo intervenuti negli Stati Uniti come in Europa — dimostra la classicità di queste pagine, che ci parlano ancora oggi e nel contempo riflettono problemi e situazioni profondamente diverse da quelle attuali.
COMMENTO: Il celebre testo del sociologo americano che ha inaugurato le riflessioni sulla religione civile in America e nelle democrazie occidentali.
DESCRIZIONE: Nei due scritti qui raccolti - La fede dell’ebraismo e I fuochi dell’anima ebraica — Buber riassume la sua visione dell’ebraismo. Nel primo si sottolinea il carattere di abbandono esistenziale proprio della fede/fiducia dell’ebreo ed è posto in evidenza come si delinea il dialogo lo-Tu tra l’uomo e l’Eterno, con notazioni sul problema del male e sul carattere concreto che ha in questa fede la conversione, ben diverso da quello che attiene alla metanoia proposta dal cristianesimo. Nel secondo saggio l’autore ravvisa i due fuochi dell’anima ebraica nei paradossi propri della emunah, ovvero della esperienza di fede vissuta dall’ebreo: il rapporto con l’Uno, trascendente eppure vicino all’uomo, e il mistero per il quale, sebbene la potenza redentrice dell’Eterno agisca dappertutto e incessantemente, il mondo non è ancora redento. Il fedele ebreo assurge qui a paradigma di colui che è capace di accogliere senza riserve la Rivelazione.
COMMENTO: Da parte di uno dei maestri dell'ebraismo contemporaneo, una illuminante introduzione a cosa significa credere in Dio nell'ebraismo.
Libro che ha anticipato l'attuale dibattito sulla post-modernità, "La fine dell'epoca moderna" (1950) è il luogo in cui Guardini dà il meglio di sé come filosofo e teologo. Con radicalità teoretica, ma anche con sensibilità letteraria, Guardini traccia i lineamenti dell'affermarsi dell'idea di modernità. Un'idea che si compie e disintegra con la prima guerra mondiale. Non è la logica stessa della modernità - si chiede Guardini - a metter capo ad un inaspettato ritorno del caos, interno ed esterno? "L'uomo sta nuovamente di fronte al caos... In questo secondo caos si sono riaperti tutti gli abissi delle origini". Che ne è del kerygma cristiano in quest'epoca che "non ha ancora un nome"? Con disincanto Guardini rigetta ogni nostalgia restauratrice. Certo, all'altezza dei tempi "la solitudine della fede sarà tremenda"; ma non v'è qui un kairós provvidenziale? "La fede diviene più parca, ma anche più pura e più grave": una fede in cui rivive l'idea cristiana di persona. E gli scuotimenti che caratterizzano la nuova epoca non comportano la necessità di reinterrogare i fondamenti del concetto di Potere? È quanto Guardini fa nel secondo saggio qui raccolto (1951), dispiegando una lucida, e straordinariamente attuale, analisi delle radici teologiche e antropologiche del potere.
Nei due scritti qui raccolti ("Accettare se stessi" - "Conosce l'uomo solo chi ha conoscenza di Dio") Guardini parte dalla domanda costitutiva del soggetto: «Chi sono io?». Una domanda inquietante, nel tempo della compiuta modernità, in quanto non si danno risposte immediate e certe. Consumate le identità fondate su una presupposta autosufficienza dell'immagine dell'uomo, per Guardini la domanda esistenziale ritrova una risposta nella Parola: questo è il senso del biblico essere fatti ad immagine e somiglianza di Dio. In questo Nome l'uomo ritrova se stesso, ritrova il proprio nome. Ma sarà un ritrovarsi solo nel tempo del Giudizio. Nel frattempo - nel «nostro tempo glaciale…in un cosmo totalmente estraneo» - all'uomo che non cessa di cercarsi, Dio si dà nella polarità della lontananza e vicinanza: fedele alla chiamata - ostinato nella ricerca del proprio "nome nuovo" - sarà solo chi, rifiutando ogni sicurezza idolatrica, attenderà in una fede certo povera, ma pura.