Un papa cinese, una strana indagine che prende avvio con il ritrovamento di un cadavere in un confessionale della basilica di San Pietro e prosegue con il ritratto funerario di una giovane donna rinvenuto in Egitto. Il morto non è uno qualunque: è sacerdote, è di nazionalità filippina ed è a Roma al servizio del papa Matteo I eletto pontefice dopo un drammatico conclave. Suicidio o omicidio? Vendetta o atto intimidatorio contro il papa cinese determinato a viaggiare nel proprio paese? Ma anche la misteriosa donna vissuta in Egitto nel primo secolo dopo Cristo è sempre meno una qualunque per Romeo, l'ostinato investigatore calabrese in pensione intenzionato a venire a capo anche del mistero di quella vita che lo affascina e di quella morte che gli chiede di essere chiarita tanti secoli dopo. Così, tra minacce e depistaggi, tempeste di sabbia e allucinate rivelazioni le due indagini, quella vaticana e quella egiziana, sorprendentemente si incrociano. E l'una, imprevedibilmente, permetterà di risolvere l'altra.
È un romanzo breve sulla vita della moglie di Ottaviano Augusto, madre di Tiberio, nonna di Claudio, bisnonna di Caligola, trisavola di Nerone, anima della dinastia dei Cesari, signora di Roma per 67 anni: dal matrimonio con Ottaviano Augusto, nel 38 a. C., fino alla morte, avvenuta nel 29 d. C. Il libro si compone di 12 capitoli che rappresentano altrettanti "quadri" della vita di Livia. Il testo è costruito con continui richiami - espliciti e non agli autori della Roma augustea. Tutti i riferimenti a fatti e persone hanno agganci storici, seppur romanzati, e si può trovare per ciascuno di essi almeno una fonte. Nella finzione del racconto viene evocato un antico codice latino degli inizi del III secolo d. C., il cui testo (che avrebbe anche utilizzato Machiavelli come fonte per il suo Principe) sarebbe stato scritto per confutare la descrizione negativa che di Livia danno Tacito e altre fonti dell'epoca di Tiberio, interessate a denigrare Livia.
Tra le numerose ninfee dipinte da Claude Monet la migliore - secondo Charles Péguy (1873-1914) - non sarà l'ultima, frutto di un crescente apprendimento, bensì la prima, figlia dello stupore. Solo lo stupore, infatti, veramente conosce. Il resto è "sistema" rigido, è imporsi del "bell'e fatto", è invecchiamento prodromo della morte. Non è più avvenimento. Con questa rivoluzionaria impostazione Péguy ha guardato il "mondo moderno" denunciandone la forza avvilente, ha combattuto per la "città armoniosa", ha ritrovato la fede di quand'era bambino, ha vissuto da "cristiano della comune specie", ha cantato le meraviglie della "giovane speranza" e la grandiosa avventura di Eva/umanità. Ed è morto in battaglia, perché il rapporto con l'Eterno e con l'Infinito si gioca tutto nella brevità di un tempo e nella carnalità di uno spazio.
Lo studio di von Herrmann sulla fenomenologia del tempo in Agostino costituisce un contributo essenziale per la comprensione di uno dei temi più celebri del pensiero dell'Ipponate, che ha riscosso una grande attenzione e suscitato un profondo apprezzamento nei due pensatori più significativi del Novecento per quanto riguarda la fenomenologia del tempo: Husserl e Heidegger. Nella lettura di von Herrmann, il carattere fenomenologico della ricerca sul tempo ha senz'altro il grande merito di aver messo in luce la natura e la struttura propria di questa teoria sul tempo, non considerandola semplicemente come una trattazione e una soluzione dottrinale, ma come una vera e propria esperienza fenomenologica del pensiero. Se da un lato questo sembra derivare all'autore dalla sua lunga e intensa familiarità con il pensiero di Husserl e di Heidegger, dall'altro egli trova proprio in Agostino, molto più che una contro-prova o un'applicazione della prospettiva fenomenologica novecentesca, un momento quasi "inaugurale" e anche permanente della nostra comprensione del temporale della coscienza e dell'esistenza.
La riflessione di Luigi Giussani (1922-2005) appare un contributo di grande rilievo in seno al pensiero cattolico contemporaneo. La lezione tomista, assimilata nel Seminario teologico di Venegono, viene ripensata dall'autore in chiave esistenziale alla luce di un'esperienza educativa unica, senza analogie nell'Italia del '900. Il risultato è, da un lato, la nozione di senso religioso, per la quale la verità deve, modernamente, passare attraverso la libertà, e dall'altro, quella di incontro come modalità fondamentale con cui l'Essere si manifesta. Al centro vi è la categoria originale di esperienza, verifica della corrispondenza tra l'io, nelle sue esigenze naturali fondamentali, e la realtà. Giussani delinea, in tal modo, un percorso che va al di là della tradizionale opposizione tra agostinismo e neotomismo e, nella Chiesa post-conciliare, tra modernisti e tradizionalisti. Il fine è quello di pervenire a Dio come un "Tu" esistente in Gesù Cristo, incontrato "fattualmente" nella storia. Lo può fare perché la nozione di "conoscenza amorosa", nella relazione io-tu, consente di pensare l'esperienza del vero in direzione di un pensiero "immaginativo", concreto. Il volume mette a fuoco nodi e momenti essenziali del pensiero giussaniano ponendolo a confronto sia con i suoi critici (Benvenuto, Barcellona, Severino, de Mattei) che con la questione dell'integrismo, cruciale per delineare il rapporto tra cristianesimo e libertà moderne.
Nella storia universale del teatro un ruolo tutt'altro che marginale va riconosciuto alle pratiche sceniche messe in atto nel Centro e Sud America dai padri missionari nel corso della loro azione evangelizzatrice svolta nell'età coloniale. Ciò soprattutto in relazione alle dinamiche attuative rispondenti a necessità di persuasione e comunicazione. Gli stessi sincretismi, al di là delle valenze etno-antropologiche, vanno visti come apporti originali alla pratica teatrale, legittimamente riconducibili a princìpi fondamentali del fare teatro. È quanto i padri francescani (nella prima stagione della colonizzazione) e i gesuiti (successivamente) seppero mettere in atto con modalità diverse, ricorrendo anche alla partecipazione attiva degli indios, dei quali seppero valorizzare cultura e tradizioni, oltre che le doti artistiche, in particolare nel campo della musica e della danza. All'opera di questi uomini, rimasti in buona parte nell'anonimato, il volume rivolge quell'attenzione utile a meglio comprendere molteplici significati dell'arte scenica, in un contesto estraneo alla visione eurocentrica del teatro borghese.
Il volume prende in esame una delle tesi più originali di Enrico di Gand: quella del lumen medium, ovvero dell’illuminazione speciale concessa da Dio ai maestri di teologia per permettere loro di trasformare almeno in parte (congiuntamente all’attività di studio e di ricerca) ciò che è oggetto di fede in oggetto di autentica comprensione scientifica. La dottrina enrichiana viene analizzata a partire dai suoi presupposti gnoseologici, mettendo in luce da una parte il percorso che conduce alla fondazione della teologia come scientia prima e, dall’altra, lo statuto del tutto peculiare che Enrico attribuisce al maestro di teologia. Ma ampio spazio viene dato anche al contesto in cui la posizione di Enrico si inserisce, e cioè tanto al dibattito sullo statuto scientifico della teologia nel corso della seconda metà del XIII secolo, quanto alla controversa fortuna della dottrina del lumen medium, tra il XIII e il XIV secolo, presso l’altro influente maestro secolare del periodo (Goffredo di Fontaines) e presso alcuni dei più importanti teologi domenicani, francescani e carmelitani.
In mezzo all’enorme mare degli scritti di Péguy, qual è il punto essenziale? Péguy ha lasciato pagine memorabili di sofferta partecipazione al dramma degli esclusi, di penetrante critica dell’uso ridotto della ragione tipico del «mondo moderno», di veemente ribellione di fronte alla «mistica» rimpicciolita in «politica», di partecipata immedesimazione con passi del Vangelo, di passione per la propria patria: che cosa privilegiare? Péguy ci ha inoltre parlato in modo indimenticabile della «piccola speranza», della nobiltà del «lavoro ben fatto», della grazia che buca le corazze più dure ed è impotente di fronte alle «anime abituate», del padre che è «il più grande avventuriero della storia» e del bambino che è «l’innocenza» che non si recupererà mai più, di Dio quasi imbarazzato di fronte alla libertà umana. Tutto questo ruota attorno al punto infuocato riassunto dalla parola «avvenimento». Péguy, infatti, ci ha aiutato a ricordare che la dinamica dell’avvenimento è essenziale per ogni autentica conoscenza. Alain Finkielkraut lo aveva scritto anni fa e lo ha approfondito nell’intervista che ci ha concesso in occasione della mostra e che pubblichiamo integralmente in questo catalogo. Péguy ci ha anche ridetto, con splendore di parole taglienti, che il cristianesimo stesso è, supremamente, avvenimento e che ridurlo a qualsiasi altra cosa – discorso o morale, organizzazione o devozione, ricordo o utopia – significa immiserirlo fino al punto di soffocarlo.
Il volume prende in esame le questioni dedicate da uno dei più autorevoli maestri di teologia della seconda metà del XIII secolo, Enrico di Gand, alle problematiche morali e a quella che gli stessi medievali chiamano vita activa. L’indagine del pensiero etico enrichiano viene condotta studiando dapprima le coordinate teoriche che regolano e determinano l’agire pratico (i rapporti tra la volontà e l’intelletto, ovvero delle potenze dell’anima che sovrintendono alla sfera della prassi e ne determinano la libertà, e la dottrina delle virtù morali) e quindi considerando i testi dedicati da Enrico alla sfera economica, a quella politica e alla deontologia del maestro di teologia. Il magister theologiae è, secondo Enrico, l’«architetto» della vita della Chiesa e dell’intera società laica; egli opera e guida in ogni suo aspetto la vita activa, ovvero quella sfera di esistenza in cui gli esseri umani possono realizzare su questa terra la virtù più perfetta, ed aspirare così alla felicità.
I saggi, qui raccolti, attraverso case-studies, intendono indagare la pluralità di linguaggi che attengono alla sfera del sacro e ai suoi vari patrimoni devozioni. Sono perciò presentate diverse forme espressive e comunicative che si esplicano secondo modalità proprie dell'ampio e variegato patrimonio culturale devozionale: da quello della ritualità festiva, commemorativa, a quello dell'iconografia, dell'oralità, della museografia o delle nuove produzioni del web e della multimedialità. La devozione, nel suo collocarsi in un determinato territorio e all'interno di determinate comunità locali, elabora specifici linguaggi, attraverso cui le comunità esprimono il proprio rapportarsi con la sfera del sacro, linguaggi che la tecnica fotografica e poi quella audiovisiva restituiscono e fissano nel tempo ponendo in evidenza non solo il rapporto con il territorio, ma anche l'apertura del locale al globale. Da questi contributi emergono gli stretti rapporti dell'ambito devozione con quella che è la storia e la cultura di un gruppo, la varietà ma anche la polisemicità dei linguaggi, che producono e utilizzano modalità espressive tradizionali, ma sono anche fonte di rielaborazioni, rivitalizzazioni e innovazioni.