Scritto di getto fra il 5 e il 6 luglio del 1969, il breve poema "Un giorno ancora" si situa fra due opere molto importanti dell'ultimo Neruda: "Fine del mondo" e "La spada di fuoco". Ma cos'è quell'"ancora" (Aùn), che ne costituisce il netto e secco titolo originale? È innanzitutto un atto di presenza, un "esserci ancora" del poeta, ed è insieme un atto di rinnovamento e di rilancio, di "rigenerazione" per un'ancora maggiore aderenza alla vita. Come scrive Valerio Nardoni nella prefazione, tutta la carica semantica del titolo originale ricade su un verso programmatico, che chiude il primo dei ventotto frammenti di cui si compone il poema: debo aclarar aùn mis deberes terrestres, dove "aclarar" non significa semplicemente "chiarire", nel senso di "spiegare meglio", ma "rendere più chiari" i propri doveri. Ne scaturisce un poema urgente e asciutto, che ha le movenze di una scrittura "accaduta" così la definisce il poeta nel saluto finale - più che meditata, e che proprio in questa sua spontanea e felice sintesi riesce ad esprimere tutto il vigore e tutta la profondità della sua ispirazione.
Il volume è una sintesi della storia repubblicana che in meno di trecento pagine ripercorre le vicende politiche e sociali degli ultimi settant'anni offrendo al lettore un'interpretazione unitaria delle fasi essenziali di questo periodo: dalla ricostruzione postbellica al miracolo economico, dal compromesso storico ai terrorismi, dal crollo della classe politica di governo nei primi anni Novanta all'avvento di Berlusconi e del suo populismo. L'offensiva vittoriosa di una destra, in gran parte non ancora moderna, e gli errori e le divisioni di una sinistra che dopo il crollo del comunismo non ha ancora trovato un programma e neppure una nuova classe dirigente, sono al centro dell'analisi finale di questa opera, utile per la comprensione del nostro presente.
Un cavallo invincibile che però è già stato sconfitto, un fantino che scompare all'improvviso, due magnati senza scrupoli che si contendono la vittoria nel Gran Premio, quattro avventurieri alla ricerca del fantino scomparso... L'ambientazione è quella delle corse ippiche, ma il lettore ha ben presto la sensazione di trovarsi all'interno di una divertita reinvenzione di luoghi, personaggi, generi scaturiti dalle sue mille letture, il tutto accompagnato da un sorriso malinconico e insieme volterriano sulle fortune e sfortune del mondo. Un mondo di cui le corse ippiche sono la metafora, e in cui il sogno della ricerca della "buona sorte" non può che trasformarsi nella consapevolezza che le cose, buone o cattive che siano, semplicemente accadono mentre noi ci dibattiamo più o meno inutilmente per predeterminarle. Come dice infatti un Professore, uno dei due personaggi "narranti", "nessun sogno rivela il senso segreto della vita, ma un segreto molto più grande, ossia che la vita manca di senso".
Nella sua introduzione a questo volume, Arrigo Cipriani, il famosissimo patron dell'Harry's Bar di Venezia, parla dei suoi 'clienti maestri', e confessa come da loro abbia appreso quasi tutto quello che sa dell'arte culinaria. Emanuela Notarbartolo di Sciara rientra sicuramente tra questi 'clienti maestri', ma sempre secondo Cipriani, che parla della cucina delle grandi famiglie come della migliore - data la discendenza 'aristocratica' della sua arte culinaria, merita una 'stella' in più. Nell'ispirazione dell'autrice, Il gioco della cucina deve molto alle antiche e sagge cuoche di famiglia che avevano insegnato a cucinare a sua madre, autrice tra l'altro di un famosissimo libro di ricette illustrato dal grande architetto Giò Ponti. Ma molto anche all'esperienza personale, fatta di viaggi, frequentazioni di grandi alberghi e ristoranti, scambi di ricette con amici altrettanto appassionati e, soprattutto, di tanta curiosità e di tanto gusto. Il libro unisce così alle grandi ricette della cucina internazionale le ricette della nostra tradizione. Nessuna indulgenza, invece, verso la nouvelle cuisine: per citare ancora l'introduzione di Cipriani, «quando oggi sento parlare di rivisitazione della cucina tradizionale mi sento male, perché le nostre ricette non hanno altro bisogno che di essere svolte correttamente». Concetto sul quale Emanuela Notarbartolo di Sciara è perfettamente d'accordo.
Tragico eroe della tauromachia spagnola, divenuto figura mitica nell'Olimpo letterario grazie al celebre Lamento di Federico Garcia Lorca, e autore drammatico egli stesso, Ignacio Sànchez Mejias era intimo amico non solo di Lorca ma di tutti i più grandi poeti della cosiddetta 'generazione del 27', al cui interno operò come un illuminato e carismatico mecenate. Anche se il Llanto por Ignacio Sànchez Mejias resta senza alcun dubbio il testo più famoso e importante, Lorca non fu l'unico poeta della cerchia degli amici di Ignacio a volerlo ricordare in occasione della sua tragica scomparsa, due giorni dopo la fatale corrida dell'11 agosto 1934 a Manzanares. Il presente volume riunisce, oltre ad una nuova traduzione del Llanto lorchiano, le poesie dedicate a Ignacio da tre altri grandi protagonisti di quella straordinaria stagione della poesia spagnola: Rafael Alberti, Gerardo Diego e Miguel Hernàndez.
Scritto nel 1856, "Mozart in viaggio verso Praga" è forse la migliore, certo la più famosa, delle opere di Eduard Mòrike (Ludwisburg, 1804 - Stoccarda, 1875). Lo spunto del racconto è già tutto nel titolo: vi si narra, infatti, il viaggio che Mozart intraprese in compagnia della moglie Costanza alla volta di Praga, nell'autunno del 1787, in occasione della prima rappresentazione del Don Giovanni. Siamo ben lontani, tuttavia, dal racconto storico; a Mòrike non interessa la realtà di quel viaggio ed anche nella ricostruzione dei personaggi non c'è alcun intento documentaristico. Quel che importa qui a Mòrike è invece di rivivere e far rivivere la sensibilità gaia e tragica insieme del grande musicista, in un idillio settecentesco pieno di malinconia e di grazia. E forse è proprio questa la ragione della fortuna e, se si vuole, della modernità di questo racconto: la capacità dello scrittore di calarsi interamente nella personalità che ritrae, suggerendole modi e discorsi che, se non sono mai esistiti nella realtà del personaggio storico, appartengono comunque al suo mondo, all'eco non meno reale che l'opera di Mozart ha saputo trasmetterci.
"Andare in giro per calli e campi, senza un itinerario stabilito, è forse il più bel piacere che a Venezia uno possa prendersi. Beati i poveri in topografia, beati quelli che non sanno quel che fanno, ossia dove vanno, perché a loro è serbato il regno di tutte le sorprese...". Così Diego Valeri invita alla conoscenza della magica città di Venezia: non un colto Baedeker per turisti alla frettolosa ricerca dei monumenti e luoghi obbligati dalla tradizione, ma una vera e propria "educazione sentimentale" a "quell'insolubile enigma che si rinserra nel nome di Venezia".
Aiuto contabile in un'azienda diretta da una macchina, l'anonimo protagonista di questo racconto decide di godere in riva al mare le tre impreviste giornate di ferie che la macchina gli ha concesso. E così che comincia il suo viaggio attraverso una città altrettanto anonima, che però non tarda a rivelarsi come sterminata - non una ma nove città, come quelle che Schliemann dovette riesumare prima di approdare alle vestigia di Troia -, mentre intanto prendono corpo le sue fantasticherie su come far guadagnare tempo e spazio all'umanità. Il "Racconto delle nove città" (il cui titolo originale è letteralmente "In memoria di Schliemann") era il racconto prediletto di Nina Berberova, il più moderno secondo una scrittrice che considerava fondamentale l'essere interpreti del proprio tempo. Si tratta di un racconto anti-utopico, ambientato in un futuro 1984 che vuole essere un esplicito omaggio a Orwell; un racconto molto diverso da quelli del periodo in cui la Berberova viveva in Francia, dopo l'esilio dalla Russia natale. Qui non si ritrovano né emigrati russi né ricordi della Russia perduta, e anche i temi più consueti della scrittrice - lo sradicamento dei personaggi, la loro solitudine, lo stesso tema dell'esilio - ritornano sì in questa narrazione, ma spogliati ormai da ogni connotazione realistica.
"Descrizione di una battaglia" (1905) è il racconto che segna l'esordio letterario di Franz Kafka, anche se la sua pubblicazione avverrà qualche anno più tardi, nel 1909, sulla rivista "Hyperion". È il racconto di una passeggiata notturna per le vie di Praga; i due protagonisti, che si sono incontrati ad un ricevimento, s'incamminano verso il Monte S. Lorenzo e intrecciano una fitta conversazione, che si sottrae sempre più alla contingenza della loro vita quotidiana e diventa invece una sorta di confessione; non a caso, la seconda parte del racconto s'intitola "Divertimenti, ossia dimostrazione che è impossibile vivere". L'atmosfera di questo straordinario racconto, fra ironia e paradosso, entrambi però sentiti come qualcosa di implacabile che regge le sorti della vita umana, ricorda quella del primo grande romanzo, "America"; pagine dunque non cupe come quelle della "Metamorfosi" o de "Il castello", e con qualcosa nella rappresentazione dei personaggi che rimanda ad uno dei maestri del grande scrittore praghese, Charles Dickens.
Nessuno quanto Max Brod, lui stesso importante scrittore, poteva dirsi chiamato a narrare la vita di Franz Kafka. Amicissimo suo fin dalle aule dell'università, vissuto con lui in grande dimestichezza e in rapporti fraterni, custode dei manoscritti inediti e delle ultime volontà dello scrittore, ha potuto consegnarci una biografia del grande scrittore praghese veramente unica, indispensabile a chi voglia penetrare nella sua anima complicata e misteriosa. Se è vero che la definizione di biografia per questa opera di Max Brod è certamente giusta, in quanto così è stata concepita, e percorre la vita di Franz Kafka dalla nascita il 3 luglio 1883 fino alla morte il 3 giugno 1924, è anche vero che il termine oggi può prestarsi ad un equivoco un po' riduttivo, in quanto Max Brod narra l'amico, e in ogni pagina trapela non soltanto l'importante documentazione con cui questa biografia è stata costruita, ma anche la conoscenza diretta dell'uomo Kafka, quello di cui Brod annotava sul suo diario, all'epoca del loro primo incontro all'università, "Le parole gli escono di bocca come un bastone".