"Un viaggio in Turchia" presenta un paese profondo, tradizionale e arretrato esaminato nelle sue componenti più varie, dalla relativa modernità di Smirne alla vita ancestrale della popolazione nomade Yuruk dell'Anatolia, e al mondo contadino e tradizionalista della provincia turca colto nel momento della trasformazione democratica e occidentalizzante di Kemal Ataturk. Con questo libro Irfan Orga entra nel novero dei viaggiatori veri, degli scrittori cioè capaci di cogliere l'essenza di un paese e di una cultura dall'interno animando i loro libri non solo di osservazioni illuminanti, ma anche di personaggi indimenticabili come il proprietario terriero Hikmet Bey, l'oba bey capotribù Yuruk, la guida Cemal, le donne ancora - considerate proprietà dei mariti o dei padri, e gli innumerevoli borghesi e contadini che Orga mette in scena in un'opera che si legge come un romanzo e che apre uno scorcio su un paese e una cultura oggi al centro dell'attenzione mondiale.
"Odio le parole enfatiche": questa l'ultima frase de "L'arte di persuadere", che si conclude con una lacuna dovuta a un copista o allo stesso Pascal, ma che comunque suona come un'adesione al pensiero di Montaigne, il grande critico dell'amor proprio e della vanità delle cose mondane. Ma là dove lo scettico Montaigne si ferma dopo aver fatto tabula rasa, l'apologeta cristiano, che non può essere indifferente al risultato di una disputa, deve fare un passo avanti, sostenere che, stabilite le buone regole del ragionamento, sia possibile convincere e convertire l'interlocutore. Scritto verso il 1660, "L'arte di persuadere" si riallaccia alla polemica fra giansenisti e gesuiti, importante disputa teologica che stava molto a cuore a Pascal; ma è al tempo stesso una sorta di essenziale e limpido "discours de la méthode" di Pascal stesso, che troviamo poi applicato nell'altro testo qui riunito, la prima delle famose "Lettere provinciali" scritte in quello stesso periodo.
"Quello che forse più colpisce in questo libro limpido, musicale e profondo di Andrés Sánchez Robayna - uno dei protagonisti della poesia spagnola contemporanea - è la sua grande ricchezza, poetica e concettuale insieme. Partendo dai dati concreti della propria geografia fisica - le Canarie, le loro dune, il loro mare, il loro vulcano - e interiore - un'infanzia e un'adolescenza rivisitate o meglio ricreate nel loro 'senso' verso la poesia -, l'opera si allarga in tutte le direzioni: e a compiere questo miracolo è proprio 'il libro', non solo quello della memoria individuale del poeta, ma quello in cui sfociano tutti i libri, questo e gli altri, nostri e non nostri: la nostra storia 'verticale', se vogliamo, in cui tutto arriva a coesistere, in una sorta di presente persistente. È così che il libro si apre oltre la duna, e i suoi versi sono intrisi sì di storia letteraria, ma non nel senso esteriore che si potrebbe pensare; l'hanno assunta in se stessi, nella loro sostanza e fisionomia, e sanno ora costruire non semplici se pur eleganti reminiscenze, ma un vero e proprio ponte che permette loro di rappresentare una storia sempre nuova e originale, quella dell'uomo e della sua opera. " (Fabrizio Dall'Aglio)
Scritto nel 1926, "Morte di un piccolo borghese" ci introduce nel clima di una Vienna postbellica dall'inflazione galoppante. Il protagonista, guardiano di un magazzino, vive nel ricordo glorioso del passato asburgico quando, portiere in livrea, apparteneva "alla scintillante e impellicciata schiatta dei portieri imperiali... era dunque un tassello nell'ordine mondiale": sono parole dello stesso Werfel a commento dell'edizione americana di questo suo romanzo breve. Crollato quell'"ordine mondiale", in un paese precipitato nel caos e nella miseria, all'uomo non resta che la certezza di aver fatto la mossa giusta per garantire un minimo di sicurezza alla sua famiglia: ha investito tutti i suoi risparmi in una polizza assicurativa, che però lo obbliga, lui già malato, a non morire se non dopo la scadenza fissata dal contratto...
È sempre più difficile conciliare l'alto livello di protezione sociale, di tutela dei diritti, di qualità della vita, che è proprio dei Paesi europei, con le esigenze della competizione globale, la domanda di nuovi diritti e di nuove sicurezze, la segmentazione della società e la diversificazione dei bisogni e delle domande sociali che caratterizza l'inizio di questo secolo. Lo Stato non ce la fa; non ce la può fare senza un ampio ricorso alla mobilitazione delle risorse della società civile, del territorio, delle comunità intermedie, della partnership con il privato e con il no profìt. Sono cresciuti così, in Italia e altrove, lo spazio e il ruolo del terzo settore. E si è riscoperta la sussidiarietà, un'idea più moderna e più articolata del ruolo delle amministrazioni pubbliche, del rapporto tra Stato e società civile, tra politica ed economia, tra amministrazione pubblica e cittadini. Tra Stato e terzo settore però deve dispiegarsi un rapporto positivo, nel rispetto del ruolo e dell'autonomia di ciascuno: una fitta trama di rapporti di interazione, dialogo e reciproca integrazione, in parte già in essere e in parte no, connette il terzo settore alle pubbliche amministrazioni. La ricerca di Astrid ne traccia un quadro compiuto, avanzando proposte innovative, per consentire al terzo settore di sviluppare le sue potenzialità.
Intorno a un tema quanto mai controverso, antico e pur sempre attuale, quale quello della menzogna, si affrontano in questo volume due grandi filosofi che rappresentano anche due differenti scuole di pensiero, l'una pienamente radicata nella Francia del dopo-rivoluzione, l'altra che proviene invece dalla vicina Germania. L'occasione è data da un breve trattato scritto nel 1797 dall'allora trentenne Benjamin Constant, che, sotto il titolo "Delle reazioni politiche" disquisisce intorno alla possibile legittimità, in precisi contesti, della menzogna. L'intervento di Constant è centrato sulla necessità che i princìpi universali, per essere accettati anche sul terreno concreto, debbano a loro volta fondarsi su princìpi definiti "intermedi" tali cioè da permetterne la concatenazione con la realtà effettiva. Ma Constant, mentre cerca di definire questa sua teoria, critica la riflessione di Immanuel Kant che "persino di fronte a degli assassini che vi chiedessero se il vostro amico, che loro stanno inseguendo, si sia rifugiato in casa vostra, la menzogna sarebbe un crimine". E il "filosofo tedesco" (così lo definisce, un po' sbrigativamente, Constant), chiamato in causa, risponde da par suo con "Su un presunto diritto di mentire per amore dell'umanità" nel quale ribatte punto su punto al "filosofo francese". E così che questo confronto acquista oggi, un significato emblematico, e anche al di là del tema, pur sempre centrale, che costituisce l'oggetto di questa querelle di fine Settecento.
Ambientato in Abissinia nei primi anni della conquista italiana, "Le perdute tracce degli dei" mette in scena non solo il clima della dominazione fascista - la volgarità degli occupanti, la composita, variegata società dei dominatori italiani che popola Addis Abeba, le resistenze della popolazione locale, spesso legate ad antiche tradizioni e a secolari credenze - ma anche il misterioso retroterra culturale e religioso di un paese poco conosciuto che i rozzi dominatori, che giudicano quel retroterra semplicisticamente "barbarie", non riescono ad afferrare.
Il titolo del libro è tratto dal titolo di una rubrica (appunto "Cronaca della vita che passa") tenuta da Fernando Pessoa nell'aprile del 1915 per "O Jornal". Sono pagine che trattano, in corsivi brevi e veloci che ci permettono così di conoscere l'aspetto più squisitamente giornalistico del poeta portoghese, di politica, di vita quotidiana, di carattere dei portoghesi, di letteratura, di filosofia e con il consueto piglio, sempre polemico, sempre corrosivo, ma arguto e sottile, di Pessoa. A queste "cronache", fanno seguito i suoi due articoli scritti in occasione della misteriosa visita e della presunta scomparsa (1930) del sedicente mago Aleister Crowley: il "mostro di perversità", il "vile degenerato", il "peggior uomo dell'Inghilterra", colui il quale si era ribattezzato "la Bestia 666". E per rileggere questo curioso interesse di Pessoa per il mago inglese vengono riportate anche le quattro lettere da lui scritte a Crowley e infine gli Appunti del capo della polizia generale E. De Bono al Capo del Governo Sua Eccellenza Benito Mussolini sul cittadino inglese Edward Alexander Crowley. Appunti che costeranno alla cosiddetta Bestia 666 l'espulsione da nostro Paese in quanto persona non grata.
Scritto nel 1942, allorché le sorti della guerra erano ancora indecise, Cristianesimo e democrazia pone in luce l'origine evangelica della grande corrente democratica e rivoluzionaria. La tesi di fondo è che la crisi delle coscienze di cui la guerra mondiale è l'effetto più tragico ed evidente si deve ad un doppio mancato riconoscimento da parte dell'uomo moderno: se infatti da un lato i cristiani devono riscoprire nella loro stessa esperienza l'elemento democratico che caratterizza fin nella sostanza il loro credo, dall'altra parte il mondo laico deve saper riconoscere l'elemento spirituale come fulcro di ogni umana dignità.
Ma questo libro è anche una testimonianza dell'alto tentativo da parte di uno dei grandi testimoni spirituali dell'epoca di riflettere sul destino dell'uomo in un momento in cui tutto sembra in balia della cieca violenza; chiedersi, dunque, perché questo avviene, avere coscienza che la guerra non è soltanto un prodotto di circostanze sfavorevoli, e che solo ragionando in profondità si potrà davvero sperare, distruggendo lo schiavismo totalitario, non solo di sgombrare il cammino della storia, ma di stabilire le condizioni positive che permetteranno il risorgere di una nuova, più umana, civiltà.