Hundreds Hall, l’antica dimora di campagna della famiglia Ayres: varcarne i cancelli dopo trent’anni è un momento di grande trepidazione per il dottor Faraday, lui che ancora bambino, nel lontano 1919, ne aveva ammirato con occhi sgranati lo sfarzo e lo splendore. Quel passato, tuttavia, è ormai un vago ricordo: i suoi abitanti — la vedova del Colonnello Ayres e i figli Roderick e Caroline — sono, infatti, impegnati in una disperata battaglia per salvare dalla rovina se stessi e la casa. Ma proprio quest’ultima sembra gettare le ombre più funeste sul futuro: stanze che di colpo diventano trappole, pareti da cui emergono sussurri malevoli e segni inquietanti, un devastante incendio notturno.., chi, o che cosa, c’è dietro questi eventi? Quale mistero grava sul destino degli Ayres? Ma, soprattutto, fino a che punto si spingerà la minaccia?
Sarah Waters si confronta con un classico tra i generi letterari, la ghost story, e lo rinnova assottigliando il confine tra sovrannaturale e psicopatologico. Di consueto c’è solo la sua maestria narrativa, con cui restituisce il quadro raffinato e puntuale di un mondo drammaticamente sospeso tra passato e presente. Un mondo in cui le paure umane prendono pericolosamente forma, e dove, in un crescendo lento ma inesorabile, la voce della ragione appare sempre più un debole appiglio di fronte ai ricordi, ai desideri e alle pulsioni represse che travolgono le menti dei protagonisti, e con loro il lettore.
"Debito": una parola molto di moda in questo tempo scosso dalla crisi. Una parola sempre di moda, racconta Margaret Atwood, visto che il meccanismo del dare-avere è vecchio quanto l'uomo e che su di esso l'immaginazione umana ha costruito precetti religiosi, codici morali, sistemi giuridici e capolavori poetici e letterari. Il debito lega inestricabilmente denaro, cultura e religione; quando parliamo di dare e avere, e abbiamo a che fare con Cesare o con Dio, con la Giustizia, la Fortuna e il Destino, parliamo dei nostri desideri più profondi e delle nostre paure più tremende. Ecco allora che la Atwood ci guida in un viaggio nella storia, nelle religioni e nei libri alla ricerca dei mille volti del debito. Ma non solo. Risponde anche alla domanda più attuale, la stessa a cui oggi stanno rispondendo i politici più lungimiranti. Con il denaro bisogna cominciare a fare cose diverse da quelle fatte finora, e "calcolare il costo reale del nostro stile di vita e delle risorse naturali che abbiamo sottratto alla biosfera". La Terra non è nostra, come diceva Antoine de Saint-Exupéry: l'abbiamo avuta in prestito dai nostri figli, e a loro dovremo restituirla. Questo è il debito che dobbiamo prendere più sul serio.
Un luogo tra la vita e la morte, tra fiction e realtà. Questo è Lost. Ciò che si trova alle radici stesse del domandare. Perché l'Isola non da risposte, non possiede la verità. Piuttosto, ne incarna l'enigma. E lo fa con una narrazione al contempo complessa e popolare, sfruttando i canali aperti dalla transmedialità, dilatando all'infinito l'orizzonte della partecipazione. La serie tv creata da J.J. Abrams e Damon Lindelof è a tal punto legata alla filosofia che alla filosofia non restano che due scelte. Spiare da dietro il buco della serratura il dispiegarsi di quello che è, a tutti gli effetti, un mondo. Oppure accantonare ogni falso pudore, ed esplorare l'Isola. Simone Ragazzoni sceglie questa seconda via, e s'imbarca a bordo del volo 815 col preciso intento di precipitare insieme a Jack, John, Kate, Hurley, Sayid, Sawyer. E a tutti i fan della serie. Accampato sulla spiaggia o perso nella foresta, l'autore de "La filosofia di Lost" apre botole, progetta mappe, sfida mostri e ridicolizza pregiudizi. Naufrago tra i naufraghi, decide di far abitare al discorso filosofico lo spazio dell'erranza. Qualcuno, certo, storcerà il naso. Ci vuole tempo per sentirsi perduti. L'Isola ce l'ha. La filosofìa anche. E tu?
Uscire all'aria aperta, imbracciare una zappa e affondare le mani nella terra, per piantare e strappare erbacce: per la gioia di compiere questi gesti, Geri Larkin ha lasciato un'avviata carriera come consulente di direzione, iniziando a lavorare in un vivaio di Seattle. E adesso, forte di anni di dura pratica, ha deciso di raccontare la sua esaltante esperienza tra alberi e arbusti d'ogni genere, dispensando ai suoi lettori utili consigli su come prendersi cura di un giardino o anche semplicemente di un vaso fiorito, certa che ne trarranno un profondo arricchimento personale. Strutturando il testo come un percorso a tappe che comincia dall'individuazione del terreno più adatto alla raccolta dei frutti del proprio lavoro - passando per la scelta delle piante, l'uso del fertilizzante, le innaffiature e l'attenta e accurata eliminazione delle erbacce - l'autrice applica i principi zen e ci invita a guardare la vita come un giardino di cui occuparsi: bastano piccoli gesti quotidiani, infatti, per vederla sbocciare, sperimentando così che la felicità e la serenità sono molto più a portata di mano di quanto non si pensi.
Albrecht Beutelspacher, insieme a Marcus Wagner, organizza un laboratorio matematico in piena regola, un percorso che ha inizio con la geometria piana e approda alla tridimensionalità, lasciando ampio spazio a giochi e trucchi matematici, e soffermandosi sul mistero di alcuni tra i più significativi codici cifrati della storia. Grazie a materiale facilmente reperibile, come carta, forbici e colla, si potranno realizzare poligoni, ellissi e parabole, o cimentarsi in esperimenti decisamente più articolati, come la costruzione di un nastro di Möbius, di un pallone e di un libro a specchio, oppure tentare imprese al limite dell'assurdo, come attraversare una cartolina. Quelli che all'apparenza sembrano giochi, ben presto rivelano il loro valore aggiunto: infatti, è proprio grazie a questo approccio ludico che i due autori riescono a rendere semplici i concetti matematici più complessi, offrendo così al lettore la possibilità di accedere con il minimo sforzo a una materia per molti versi ostica. Un libro per appassionati di tutte le età, per quanti hanno voglia di imparare divertendosi.
Fatta l'Italia, si sono col tempo fatti gli italiani, anche se questo è avvenuto per la cucina da pochi anni. Oggi le varie tradizioni regionali si sono adattate ai tempi e si sono fuse in un unico ricco patrimonio condiviso che è giusto definire cucina nazionale. Partendo da questa realtà, i due autori raccontano la storia delle nostre ricette e ne danno una proposta attuale, alla luce delle esigenze contemporanee degli italiani, sempre ghiotta e soprattutto sempre rispettosa della loro anima. Questo libro è un repertorio, completo ed esauriente, delle ricette di oggi degli italiani.
Il linguaggio è un'arma potente: non solo descrive la realtà, ma la può anche cambiare. Se le parole non sono realtà "concrete", sicuramente lo sono i loro effetti. A volte il modo di parlare si traduce in blocchi, disfunzioni, sofferenza: è il caso di frasi come "Non so decidere", "Sono timido", "Mi sento sempre in colpa", che possono scaturire da situazioni reali, ma che diventano la "prova" e la giustificazione dell'impossibilità di cambiare. In questo libro, Matteo Rampin ne raccoglie una nutrita antologia tratta dalla sua attività clinica, mostrando come sia possibile, attraverso la ridefinizione e la ristrutturazione di quelle stesse parole, ribaltare gli effetti paralizzanti del linguaggio, e usare proprio quest'ultimo come una sorta di formidabile antidoto contro se stesso, spalancando così la strada al cambiamento, ridando al disagio proporzioni più adeguate e portando ad accettare il fatto che problemi e crisi fanno parte dell'esistenza. In questo modo, quasi magicamente, ciò che avvelena l'esistenza degli individui è visto da una prospettiva nuova, che svela come grano e zizzania siano due facce della stessa medaglia. Frasi come le precedenti perdono allora la loro connotazione negativa: "Non so decidere", "E come l'ha deciso?".
Per vivere pienamente la nostra vita, dobbiamo prima liberarci dell'eredità emotiva che la nostra famiglia esercita su di noi da generazioni. In questo libro-autobiografia, Jodorowsky racconta del suo cammino a ritroso nella storia della sua genealogia e degli incontri magici con sciamani, asceti, artisti, monaci con l'aiuto dei quali è diventato una delle più famose figure dello sciamanesimo contemporaneo. La modernità ha bisogno di ritrovare i suoi miti, e l'uomo contemporaneo le sue radici primitive. I riti sciamanici, con la loro simbologia forte e la loro corporeità quasi violenta, restituiscono emozioni e autenticità perdute.
In un anonimo paesino sperduto tra i monti, provato dagli orrori della guerra e dell'occupazione nazista, approda un individuo con le guance imbellettate e una redingote d'altri tempi. È accompagnato da un bel baio, "signorina Julie", e da un asino di nome "signor Socrate". L'innata diffidenza degli abitanti non tarda a marchiarlo come L'Anderer, l'Altro. È l'inizio di una convivenza difficile, è l'origine di un crimine collettivo, che rende indispensabile una ricostruzione puntuale dei fatti. Chi meglio del "paesano" Brodeck può farlo, lui che padroneggia la scrittura e di mestiere stende rapporti sulla flora e la fauna locali? Addentrandosi in un territorio proibito come l'animo umano e le sue dense ombre, Brodeck perderà di vista la sua missione per avviare un'inquietante e inarrestabile discesa tra le miserie dei suoi simili, scandagliando impietosamente una realtà dove nessuno può dirsi innocente. Perché, come ci ricorda Philippe Claudel, anche quando ad agire è l'intera comunità, non per questo viene meno la responsabilità individuale, per quanto comodo sia convincersi del contrario. E mentre va in scena la distruzione dell'uomo sull'uomo, la natura, lussureggiante e generosa di fiori soffusi di poesia, rimane a guardare indifferente.
In quel tempo quasi fiabesco che comincia sempre con "una volta", gli abitanti della Chalancho consumavano le sere nelle veglie, spegnendo le fatiche contadine nella narrazione di storie fantastiche. Stretti dentro una stalla, i montanari della piccola borgata della Val Grana esorcizzavano il buio raccontando vicende di masche, le streghe, crudeli femmine vendicatrici o più probabilmente donne che osavano fuggire dalle strette maglie del controllo sociale sfidando la notte, il lato selvatico del tempo. È stato proprio questo, nel 1987, l'argomento della tesi di dottorato di Marco Aime. Ora, a distanza di anni, l'antropologo rende omaggio a un mondo ormai scomparso riproponendo il racconto di quei giorni sulle montagne, e facendo così i conti con un'altra selvatichezza, prepotente come l'ortica che invade i sentieri dell'amata borgata, indifferente come l'asfalto che ne cancella i vecchi tracciati: quella dell'ineluttabilità di certe perdite, dello sprofondare di luoghi e persone in un niente al quale si può solo opporre l'ostinata volontà della memoria, la forza poetica della narrazione. L'assoluta verità del tempo vissuto.