Maeve Brennan (1917-1993), nata a Dublino, ha vissuto fin dall’adolescenza negli Stati Uniti. Bellissima e inquieta, ha pubblicato sul “New Yorker” racconti tra i più ammirati della sua epoca, prima di perdersi in anni di solitudine e depressione. BUR ha pubblicato La visitatrice (2005) e Il principio dell’amore (2006).
Al posto del sipario,
la copertina.
Al posto del palcoscenico,
le pagine.
Al posto degli attori,
la vostra fantasia.
Solo shakespeare
resta shakespeare.
Anche quando
diventa un racconto.
Karol Wojtyla dall'età di ventisei anni viveva delle autentiche esperienze mistiche. È questa una delle notizie che il libro di Antonio Socci offre, con testimonianze di prima mano, sull'uomo che più ha impressionato e commosso la nostra generazione. La natura di queste esperienze e le "rivelazioni" soprannaturali che egli custodiva spiegano anche i suoi gesti profetici? E illuminano il suo giudizio sul carattere "apocalittico" dei nostri anni? Giovanni Paolo II è il primo slavo sulla Cattedra di Pietro, primo straniero da 500 anni, uno dei papi più giovani per uno dei pontificati più lunghi della storia della Chiesa, un Papa proveniente da un Paese dell'Est, il Papa che ha abbattuto i sistemi totalitari del blocco comunista, cambiando la storia del mondo, il Papa che ha portato la Chiesa nel terzo millennio e che, con la sua personalità, ha ridato forza al Papato suscitando lo stupore e l'ammirazione di tanti popoli, insieme all'odio di chi ha cercato di assassinarlo sul luogo stesso del martirio di San Pietro. Ma il suo è anche un pontificato misteriosamente annunciato e accompagnato da una serie stupefacente di profezie, di mistici, di avvenimenti soprannaturali e di manifestazioni della Madonna. Perché? Tanti segni e messaggi concordano nell'indicare il nostro tempo come lo scenario di drammatiche prove. Cosa sapeva Karol Wojtyla? E vero che lui stesso è riuscito a scongiurare un'immane tragedia che minacciava l'umanità? E come?
I fuggiaschi avanzavano sempre
di notte, nel gelo, per paura dei posti
di blocco cinesi. L’unica luce sul loro
cammino erano le stelle, oppure,
poco prima dell’alba, ma solo allora,
la luna nuova. Le montagne colossali
si stagliavano nere contro un cielo
scuro, solo qua e là si indovinavano
chiazze di neve, pareti rocciose
e brandelli di nubi.
“Quando l’uccello di ferro solcherà i cieli e i cavalli avanzeranno su ruote, il popolo dei tibetani si spargerà per il mondo come le formiche, e la dottrina del Buddha raggiungerà la terra degli uomini rossi”: quest’antica profezia risuona finalmente chiara quando la Cina invade il Tibet e tenta di sradicarne la cultura secolare. Mola e il marito Tsering, entrambi monaci, non possono accettare la violenta repressione dei culti che praticano da sempre e sfidano in pieno inverno le nevi dell’Himalaya per raggiungere il Dalai Lama nel suo esilio indiano. Poco cibo sulle spalle, abiti leggeri e due bambine al seguito — una delle quali muore nella fuga — è tutto quello che hanno con sé. Ad accoglierli, un Paese in fermento, poverissimo, che riserva loro solo miseria e lavori pesanti per sopravvivere. E infine il trasferimento in Svizzera, la promessa di una vita nuova e la timida scoperta del mondo occidentale. Yangzom Brauen, ultima erede di questo viaggio, ripercorre l’epopea della sua famiglia attraverso la vita di due donne: la nonna Mola, monaca e madre dalle mille risorse, che ha conosciuto la morte da bambina, ha scelto la meditazione da ragazza e da allora è diventata la tenace depositaria di un antico buddismo popolare destinato a sparire con la sua generazione; e Sonam Dölma, sua figlia, che giovanissima abbandona la realtà che conosceva per seguire il futuro marito. Dai loro ricordi Yangzom ha imparato ad amare un Tibet ormai scomparso — quello delle capanne di frasche degli eremiti, delle lampade a burro, del fumo delle offerte che si innalza verso il cielo dai monasteri in alta quota — ma che si è impresso come una ferita aperta nella memoria di chi l’ha vissuto e nella coscienza di un popolo ancora in lotta per salvarlo.
Yangzom Brauen (1980) è un’attrice, modella e attivista pro Tibet. Figlia di una profuga tibetana e di un etnologo svizzero, è cresciuta a cavallo tra due culture, tra l’Europa e il retaggio buddista della sua famiglia. Oggi vive tra Los Angeles, New York, Berlino e Zurigo, lavorando nell’industria
Una cosa è certa: viviamo in un Paese da sempre abituato agli eccessi. Alle nostre spalle abbiamo una Storia millenaria, fatta di personaggi geniali e sregolati, crudeli e compassionevoli, candidi e loschi. A quanto pare le vie di mezzo non ci sono mai riuscite bene. E anche il nostro presente ci ha abituati a ogni tipo di esagerazione: dalla Tv che ha fatto a pezzi la privacy a una politica che ha fatto del vizio privato una pubblica virtù. E forse questa tradizione di eccessi, nel bene e nel male, ci ha disabituati a un concetto molto semplice e forse proprio per questo difficile da afferrare: la normalità. Quella cosa per cui un treno arrivato in orario non è un evento da festeggiare, quel principio in base al quale un lavoro sicuro e giustamente retribuito non è un obiettivo irrealizzabile, quella abitudine a vedere in chi è diverso da noi un compagno di strada e non una minaccia. In queste pagine Biagi delinea il profilo di un’Italia inconsueta eppure così facile da immaginare, un’Italia che sa stare composta non solo a tavola, ma anche nella vita di ogni giorno. E lo fa citando esempi concreti di oggi e di ieri, come i tanti eroi senza nome che sotto i nostri occhi spesso indifferenti salvano vite umane (o le rallegrano) o i nomi illustri che nel tempo ci hanno insegnato a essere persone migliori. Con la consueta semplicità che l’ha reso celebre, Biagi ci spiega cosa dovremmo fare per guadagnarci quello che ci meritiamo: un Paese normale.
Enzo Biagi, giornalista e scrittore. Tra le sue opere, tradotte in tutti i principali Paesi del mondo, ricordiamo: Un anno una vita, La disfatta, “I” come italiani, L’albero dai fi ori bianchi, Il fatto, Lunga è la notte, Quante donne, La bella vita, Sogni perduti, Scusate, dimenticavo, Ma che tempi, Cara Italia, Racconto di un secolo, Odore di cipria, Come si dice amore, Giro del mondo, Dizionario del Novecento, Un giorno ancora, Addio a questi mondi, Cose loro & fatti nostri, Il Signor Fiat (nuova edizione 2003), La mia America, Lettera d’amore a una ragazza di una volta, L’Italia domanda (con qualche risposta), e insieme a Loris Mazzetti, Era ieri, Quello che non si doveva dire, Io c’ero e I quattordici mesi.
Salvatore Giannella, giornalista, ha diretto “Genius”, “L’Europeo”, “Airone” e ha curato le pagine di cultura di “Oggi” (2000-2007). Ha scritto libri e sceneggiato documentari per La Storia siamo noi.
“Il giorno più lungo”, come lo definì Rommel, sta per iniziare. Sono le ore 0.00 del 6 giugno 1944 e le truppe vengono allertate: è il D-Day, gli Alleati stanno per sbarcare in Normandia. L’obiettivo è la resa incondizionata della Germania nazista. Il contingente coinvolto è massiccio: 5000 navi e mezzi anfibi, 104 cacciatorpedinieri, 130.000 soldati che quella notte si avvicineranno via mare alla costa francese e 20.000 uomini paracadutati. Nonostante i dubbi di Churchill sull’invasione dell’Europa attraverso la Manica e l’arroganza del generale Montgomery, Eisenhower fuma nervoso mentre scrive, oltre all’annuncio della vittoria, una dichiarazione in cui si assume ogni responsabilità dell’operazione Overlord, che poteva rivelarsi un disastro. Cosa andò storto? Cosa rese la battaglia che salvò l’Europa un selvaggio spargimento di sangue? Lettere dal fronte, diari e memorie personali delle truppe alleate si intrecciano con la documentazione ufficiale della grande Storia, in questo libro che è la ricostruzione definitiva della battaglia sulla spiaggia di Omaha: Antony Beevor sa dare spazio alle voci autorevoli della storiografia, ma anche all’orrore del soldato atterrato incolume che assiste allo schianto di 18 uomini lanciati dall’aereo a quota talmente bassa da impedire ai loro paracadute di aprirsi. E dalla carneficina del 6 giugno alle teorie neonaziste di un complotto contro Hitler, ripercorre la storia di una campagna sanguinosa, durata tre mesi, che dal D-Day culmina nella liberazione di Parigi il 25 agosto 1944. Un resoconto crudo e incalzante di un evento bellico inciso a fuoco nella memoria collettiva d’Europa.
Antony Beevor ex ufficiale dell’esercito britannico, è romanziere e saggista specializzato in storia militare. I suoi libri sono stati tradotti in 29 Paesi. In Italia sono usciti per Rizzoli il bestseller internazionale Stalingrado (1998), Berlino 1945 (2002) e Creta. 1941-1945: la battaglia e la resistenza (2003), tutti disponibili in BUR.
Nel 1990, dimenticata tra polvere e incrostazioni presso una casa di gesuiti in Irlanda, viene riconosciuta la Cattura di Cristo, una tela del Caravaggio dispersa da secoli e nota solo attraverso alcune copie. Autore della scoperta è Sergio Benedetti, restauratore della National Gallery di Dublino che ha saputo unire i tasselli di una ricerca lunga e complicata, partita da Roma con le intuizioni del prestigioso storico dell’arte Denis Mahon e le ricerche d’archivio della giovane studiosa Francesca Cappelletti. Jonathan Harr ci racconta la storia di un ritrovamento fra i più importanti del Novecento, con grande talento narrativo ma senza scostarsi mai dalla precisa ricostruzione dei fatti; e ci fornisce anche il quadro della vita turbolenta di uno dei più grandi e controversi geni pittorici italiani, fino alla morte misteriosa e improvvisa e alla scomparsa di gran parte dei suoi lavori. Indizi, intuizioni, rivalità e colpi di scena degni di una detective story da un maestro della saggistica narrativa. Jonathan Harr, giornalista investigativo, vincitore di importanti premi negli Stati Uniti, è l’autore di Azione civile (Rizzoli 1997), da cui è stato tratto un film con John Travolta. Le sue inchieste sono uscite sul “New Yorker” e sul “New York Times Magazine”. Vive e lavora a Northampton, nel Massachusetts.
Jonathan Harr, giornalista investigativo, vincitore di importanti premi negli Stati Uniti, è l’autore di Azione civile (Rizzoli 1997), da cui è stato tratto un film con John Travolta. Le sue inchieste sono uscite sul “New Yorker” e sul “New York Times Magazine”. Vive e lavora a Northampton, nel Massachusetts.
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SAIGON E COSÌ SIA, dal titolo di un famoso articolo di Oriana Fallaci pubblicato da “L’Europeo” nel maggio 1975, raccoglie per la prima volta in volume i reportage dal Vietnam del Nord e dalla Cambogia (1969-1970), alcune celebri interviste ai protagonisti di quel conflitto e lo straordinario resoconto della caduta di Saigon. Come scrive Ferruccio de Bortoli nella Prefazione, “è l’ideale continuazione di Niente e così sia, un diario preciso, un racconto fedele. Che comincia con una delusione, cocente. Con la sensazione, dolorosa (quando Oriana sbarca ad Hanoi), che quel Paese avvolto in ‘un silenzio disumano’ fosse molto diverso dall’immagine eroica e antimperialista che ne aveva gran parte dell’Occidente, e che aveva sedotto anche lei”. Quest’opera molto attesa, alla cui preparazione la Fallaci aveva messo mano più volte, ancora nei mesi precedenti la sua scomparsa, completa l’eccezionale testimonianza della guerra nel Sud-Est asiatico. “Gli elementari diritti delle creature sono infranti sia a Saigon che ad Hanoi, da nessuna parte della barricata v’è la risposta alle nostre speranze.” È il governo comunista di Ho Chi Minh a invitare Oriana, nel 1969, dopo i reportage dal Vietnam del Sud pubblicati da “L’Europeo” e tradotti nel mondo intero. La Fallaci incontra il generale Giap, parla con le giovani donne impegnate nella difesa antiaerea, intervista due prigionieri americani. Così come nel Sud aveva condannato la politica estera della Casa Bianca, qui sarà la prima a esprimere posizioni critiche su un regime immobile, cupo, “chiuso a chiave in una muraglia ideologica”. Quando la guerra si sposta in Cambogia, dopo aver registrato i travagli dell’opinione pubblica negli Stati Uniti e gli inutili sforzi del processo di pace, Oriana raggiunge Phnom Penh per raccontare i Khmer rossi e il corrotto e astutissimo re Sihanouk. Infine, torna a Saigon per documentare l’avanzata di nordvietnamiti e vietcong: “… gli angeli vendicatori giungeranno tra poco, con la loro voce di gelo, i loro occhi di marmo, la loro spietata incorruttibilità, a dare una bella ripulita e a punire. È davvero la fine”. Pagine uniche che mantengono a distanza di anni e manterranno nel tempo la loro profonda umanità, parole che condannano ogni forma di guerra, rivelando una volta ancora il coraggio delle idee e la forza della verità.
Oriana Fallaci (1929-2006), fiorentina, è stata definita “uno degli autori più letti ed amati del mondo” dal rettore del Columbia College of Chicago che le ha conferito la laurea ad honorem in letteratura. Ha intervistato i grandi della Terra e come corrispondente di guerra ha seguito i conflitti più importanti del nostro tempo, dal Vietnam al Medio Oriente. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. Nel 2008 Rizzoli ha pubblicato il suo romanzo postumo Un cappello pieno di ciliege (BUR 2009) e nel 2009 l’inedito Intervista con il Potere. Il piano di pubblicazione della nuova collana BUR delle Opere di Oriana Fallaci comprende le riedizioni di: I sette peccati di Hollywood (1958), Il sesso inutile (1961), Penelope alla guerra (1962), Gli antipatici (1963), Se il Sole muore (1965), Niente e così sia (1969), Quel giorno sulla Luna (1970), Inter vista con la storia (1974), Lettera a un bambino mai nato (1975) sia in volume sia nella forma dell’audio libro registrato nel 1993, Un uomo (1979), Insciallah (1990) e la Trilogia composta da La Rabbia e l’Orgoglio (2001), La Forza della Ragione (2004) e Oriana Fallaci intervista sé stessa — L’Apocalisse (2004). Ogni volume è presentato con una nuova Prefazione.
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Il diavolo è il padre della menzogna, ma i moderni hanno introdotto in quest’arte grandi innovazioni. Strumento di sopraffazione per i vincitori e ultimo appiglio per gli sconfitti, il falso dilaga in ogni momento di confusione sociale. Nasce così, secondo Swift, la figura del “bugiardo politico”, una specie di mentitore a sé, al quale basta essere creduto per un’ora: finita la beffa e ottenuto l’effetto, quando gli uomini arrivano a ricredersi, è ormai troppo tardi.
Le pupille di Sandrino diventano laser.
«Non c’è mai stato nessuno, e mai ce ne
sarà un altro, come il Coppi. Se vuoi ti
racconto la sua storia. Io la so tutta. Non
c’è giorno che non la ripassi. Ho paura di
scordare i dettagli. Non voglio dimenticare
niente. Da quando è morto, e sono ormai
cinquant’anni, ho incominciato a morire
un po’ anch’io. Sono nato per fare sacrifici,
quei ricordi per me sono tutto.»
Ci sono incontri casuali che ti trascinano in un altro mondo. È quello che accade ad Antonio e Andrea, padre separato e figlio alle soglie dell’adolescenza, un sabato qualunque, mentre vanno in visita all’anziana nonna nell’Alessandrino. Entrando in un bar anonimo, Antonio rimane colpito da un omone in canottiera blu e pantaloncini, solo un po’ ricurvo per l’età avanzata. È come se l’avesse già visto in tanti anni passati a fare il giornalista sportivo. Ma certo: è Sandro Torino, grande gregario di Fausto Coppi, anche lui di quelle colline. Basta un breve scambio di battute per capire che è un’occasione irripetibile per tutti: per il vecchio gregario di regalare a due menti entusiaste la storia preziosa di un’amicizia lunga una vita, per Antonio e, specialmente, per Andrea di immergersi nel mito più emozionante del ciclismo. In una serie di incontri sulle sedie di plastica del bar, fra spuma nera e calici di bianco, Sandro evoca l’epopea di Coppi, dalla prima bici — la Trifusì — al Giro del ’40 vinto quando ancora era gregario di Bartali, dalla leggendaria Milano-Sanremo del ’46, in cui staccò inesorabilmente tutti, agli anni mirabili 1949 e 1952 delle doppiette Giro e Tour, alla romantica, scandalosa follia della Dama Bianca… E dalle belle storie d’un tempo nascono altre belle storie d’oggi che parlano di poesie nascoste sotto un sellino, di un amore che sboccia, di corridori-ragazzini e di alberi felici.