
"L'adolescente Giurlà è un mandriano di capre. Proviene dalla costa. È un ottimo nuotatore, e ha rischiato di diventare un altro Cola Pesce. Ha sfiorato pure il pericolo della deportazione nelle terre calve: poteva diventare un caruso, un nuovo (pirandelliano) Ciàula negli antri infernali e nelle tenebre di una zolfara. Come guardiano di armenti, sugli altopiani, poteva toccargli in sorte il destino di solitudine di Jeli il pastore. Giurlà approda invece in una prateria. Si immerge e galleggia nell'erba, o nelle acque sciapide di un lago, ora. Sente l'allarme dei sensi. E cerca calore nel pelliccione di una capra, tra una musata e una sgroppata. La capra, Beba, è solitaria: ostinata e fedele; oltre che di permalosa gelosia. Sa battere gli zoccoli, al momento opportuno, e imporsi, dopo i lagni di un belare querulo e dolente. Beba è ferina e misteriosamente umana. Sa amare e farsi amare. Giurlà è un amante che non sopporta la distanza; e neppure l'attesa. La favola della capra-donna è di nuda tenerezza; assai diversa dalla cronaca della continuata violenza, che "armàli" più grossi dei becchi consumano intanto su una innocente "pupa" fatta di carne. Beba è diversamente innocente, pur nella sua selvaggia rustichezza". (Salvatore Silvano Nigro)
Roma, 9 settembre 1944. Al Teatro Valle si spengono le luci di scena del varietà satirico intitolato al destriero bianco di Mussolini: "Il suo cavallo", per l'appunto. Nella città da poco liberata, lo spettacolo va alla meno peggio. Sembra però che il pubblico "continui a divertirsi molto alla imitazione di Mussolini fatta da Campanini". È Steno che, con la collaborazione di Castellani, Soldati e Longanesi, ha messo su lo spettacolo. Soldati si rivolge agli amici e, quasi per sfida, annuncia che parte come inviato speciale per il fronte: sulle piste degli Alleati e del Corpo Italiano di Liberazione; là dove si combatte contro le truppe tedesche che, tra varie atrocità, continuano a occupare il paese, lontano da una capitale che sgangheratamente ride della sua recente pagliacciata storica e intanto crede di emanciparsi parlando un italiano lubrificato dallo slang degli Alleati. Le corrispondenze di guerra, scritte per l'"Avanti!" e per "l'Unità", edite e inedite, in parte raccolte dallo stesso Soldati ma mai date in volume, sono il necessario complemento del libretto "Fuga in Italia", pubblicato nel 1947: il libro edito racconta "una disavventura picaresca ed antieroica", una prima "fuga" da Roma, nel generale sbandamento succeduto all'armistizio fra l'Italia e gli angloamericani, e alla dispersione dell'esercito italiano; questo libro inedito è una seconda "fuga" da Roma, nel "tentativo di trovare un'anima eroica alla rinascente Italia".
Martin Beck, il commissario della polizia di Stoccolma, è chiamato a indagare sulla scomparsa di un uomo. Alf Matsson è sparito senza lasciare tracce. È, o era, un giornalista di successo: brutto personaggio, alcolista e attaccabrighe, nessuno rimpiangerebbe la sua presenza o si meraviglierebbe che stesse smaltendo la sbornia in qualche tana. Ma il direttore del giornale dove lavora minaccia un caso internazionale perché l'ultima volta è stato localizzato a Budapest, oltrecortina, ed è lì che Matsson sembra essere svanito. Perciò Beck è convocato in via riservata proprio mentre è in procinto di partire per le vacanze estive, per raggiungere moglie e figli. Il commissario, che rifiuta per metodo ogni ipotesi preconcetta e ogni partito preso, segue due piste diverse e successive, serpeggianti dentro il sottomondo frequentato dal giornalista (un gruppo di colleghi compagni di bevute e fracassoni, e un terzetto equivoco di trafficanti), prima a Budapest e poi di ritorno in Svezia. Si lascia prendere dalla solita routine del suo metodico lavoro di squadra, con un poliziotto ungherese, Vilmos Szluka, con cui scatta una silenziosa simpatia, e con il collega e amico fraterno Kollberg, intelligente ipercritico e lamentoso. Alla fine è la cura dei dettagli, il passare e ripassare i particolari, a farlo inciampare nell'indizio che smentisce tutti gli altri e guida a una soluzione, sul caso dell'uomo in fumo, come sempre, tutt'altro che romantica o clamorosa.
Nella notte del 4 ottobre 1957 Radio Mosca annunziava il lancio in orbita del primo satellite artificiale: lo Sputnik, letteralmente "compagno di viaggio". Si dava così inizio all'era spaziale, spalancando all'uomo le porte del cosmo. Dal 1957 sono stati fatti progressi incredibili, previsti solo dai romanzi di fantascienza. L'astronauta Umberto Guidoni, che ha partecipato a ben due spedizioni con lo Space Shuttle ed è stato il primo europeo a salire a bordo della Stazione spaziale internazionale, racconta l'avventura dell'uomo nello spazio, dalla fase pionieristica a quella odierna, attraverso i numerosi successi ma, anche, le tragedie che hanno segnato il progresso dell'astronautica. Ha scritto Tsiolkowsky - il padre dell'astronautica, il primo che ha pensato a utilizzare razzi per avventurarsi nello spazio - "la Terra è la culla dell'umanità, ma non si può vivere tutta la vita in una culla". Oggi, effettivamente, si è molto vicini alla possibilità di abbandonare la Terra. Ma la tecnologia spaziale se può condurci a vivere su altri mondi potrebbe aiutarci anche in altri settori, ad esempio nella ricerca di nuove forme di generazione dell'energia.
Anne, da tempo non ha notizie di Gyl a cui è stata a lungo legata; decide di andarlo a cercare in Siberia là dove se ne sono perse le tracce. Viaggiando sulla Transiberiana si interroga a proposito dell'uomo che, invece di rinunziare alle utopie alle quali avevano creduto insieme, se ne è andato per costruire un nuovo mondo ideale. Mentre il treno corre lungo la campagna russa Anne osserva ciò che la circonda, ma soprattutto lascia vagabondare i suoi pensieri che ritornano sempre a Clémence, una anziana modista che abita nel suo palazzo e di cui è diventata amica. Due volte la settimana Anne scende la rampa di scale che le divide per tenerle compagnia sul canapé rosso e leggerle storie di donne che entrambe amano per la loro insolenza, il coraggio, talvolta l'allegra spavalderia, spesso il loro tragico destino. Olympe de Gouges, l'autrice della "Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina", o Marion du Faouët che alla testa di una banda di briganti rubava ai ricchi per dare ai poveri o Milena Jesenská che traversava a nuoto la gelida Moldava per non mancare all'appuntamento con il suo amante. Sono storie che si intrecciano con i racconti della vita di Clémence: la Parigi degli anni Quaranta, la Resistenza, un amore travolto dalla guerra. Nello specchio che Clémence le tende dal suo canapé rosso Anne trova i motivi che l'hanno trascinata così lontano, ma anche le ragioni per continuare a vivere.
Nella malinconica allegria di "A Roma con Bubù", Gian Carlo Fusco racconta della sua grande amicizia maschile, della reciproca infatuazione per il cantante marsigliese Rick Rolando che militò nella Legione straniera. Da qui i quattro articoli del 1961 sulla Legione straniera raccolti in questo volume. Quasi tutto, di questo scrittore irregolare ed estroverso, porta infatti il segno della testimonianza vissuta: e anche in questa storia della Legione, a tratti sembra emergere il segno del ricordo personale (mutuato evidentemente dall'esperienza dell'amico). Più che una storia è una rievocazione, finalizzata a spogliare il mito romantico dominante, ricca di aneddoti e ritratti, di episodi curiosi e paradossi viventi. Un movimento che corre rapido dalla presentazione del cliché, immortalato nel cinema con la faccia di Jean Gabin, alla sua distruzione. Vi sono gli eroi, e i retroscena taciuti di essi; le campagne militari e la vita quotidiana fatta di stenti e degradanti punizioni; i miti e i grandi orrori del colonialismo; le tradizioni e le viltà nascoste. Volano come una scorribanda dentro un'unica avventura, in quello stile scintillante e fragoroso di colui che è considerato il più grande narratore orale del dopoguerra, ma che resta ammorbidito nella spontanea, coinvolgente simpatia per tutto ciò, uomini e cose, di cui narra.
La vita e le avventure del più famoso cavaliere della Tavola Rotonda. Figlio del Re Ban e della regina Elena, Lancillotto viene rapito dalla donna del lago subito dopo la morte del padre in battaglia. A causa di un incantesimo del mago Merlino, la fata abitava nelle profondità di uno specchio d'acqua; proprio nel punto più profondo c'era un castello sfarzoso. Lì visse Lancillotto una infanzia spensierata e felice con i cugini Lionello e Bohor: la donna del lago lo allevò come una madre e con l'aiuto di precettori lo istruì ai dettami della cavalleria. Ma giunge il tempo in cui Lancillotto vuole andar via per farsi cavaliere di quella Tavola Rotonda di cui ha sentito favoleggiare. Raggiunta Camelot Lancillotto diventa il più fedele servitore del Re Artù. Poi, favorito dall'amico Galehault, l'innamoramento per la regina Ginevra, colei per la quale combatterà draghi, maghi e traditori, che lo ispirerà in ogni azione valorosa.
Laure Balzac, sorella amatissima del romanziere, all'indomani della morte di Honoré decide di tracciarne la biografia, per prevenire, dice "gli errori che potrebbero prendere piede in merito al carattere di mio fratello e alle circostanze della sua vita". Ma quel che più le importa è dare un giudizio definitivo sulla Commedia umana: ha forse avuto torto Balzac, si chiede, nel credere che il romanzo di costume non può prescindere dai contrasti e che la rappresentazione della virtù non basta, da sola, ad ammaestrare gli uomini? Di soli due anni più piccola del fratello, Laure gli era molto legata. Honoré la proteggeva e spesso si faceva punire al posto suo. Una familiarità e confidenza che non li abbandonerà per tutta la vita. Per sette anni fu separato dalla sorella perché mandato a studiare al collegio di Tours. Lì spesso era punito con la proibizione di uscire dalla sua stanza. Ne approfittava per leggere e in quegli anni divorò quasi tutta la biblioteca del collegio. Rientrato a casa gli venne messo a fianco un precettore. Era un ragazzo normalissimo, anzi bisognava un po' spronarlo allo studio del greco e del latino. Ma era un grandissimo osservatore. Cominciò a scrivere presto, Laure da conto della sua intera opera, di come giunse alla decisione di intitolarla complessivamente "La Commedia umana", titolo sul quale esitò a lungo perché troppo audace. Tra il 1827 e il 1848, ricorda Laure Balzac "mio fratello pubblicò 97 opere pari a 10.816 pagine."
"Fratelli" venne pubblicato nel 1978 e diventò subito un caso editoriale. L'autore, noto ispanista, era alla sua prima prova narrativa e le 30.000 copie della tiratura andarono immediatamente esaurite mentre critici come Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg, Alfredo Giuliani lo accolsero come un capolavoro. "Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato". In una vasta casa di una città imprecisata vivono due fratelli. È il più grande a raccontare, l'altro è affetto da disturbi che riguardano "l'attività del pensiero" che non vengono comunque mai precisati, il ricovero in ospedale, predisposto da anni, "sembra di là da venire". Il rapporto tra i due è tormentato, la comunicazione è difficile, fatta di poche parole, di molti sguardi, silenzi, contatti fisici - il fratello maggiore accudisce l'infermo, lo lava, lo veste, lo segue da una stanza all'altra del grande appartamento, semivuoto di mobili, colmo comunque di ricordi, "arnesi dall'uso incerto" che "interrompono, di tanto in tanto, la sequenza dei vuoti", residui di una intimità familiare ormai perduta.
Centrale di Polizia di Boston, ufficio Archivio criminale: lì, seduto alla sua scrivania, Arthur Jelling, quarant'anni, vita tranquilla, sposato, un figlio, un passato di studente di medicina. Un innato istinto per scoprire la trama oscura dei delitti. "Chissà che cosa c'è nel cuore degli uomini. Di fuori sembrano una cosa e di dentro Dio solo sa cosa sono". Jelling si trova questa volta alle prese con il mondo della sanità: il miliardario Déravans, rimasto cieco in un incidente automobilistico in cui è implicata la ragazza poi diventata sua fidanzata, può essere guarito da un intervento ardito. Solo il professore Linden è in grado di farlo, ma è minacciato di morte se deciderà di compiere l'operazione. La minaccia si realizza alla vigilia di entrare in sala operatoria. Cos'è che Déravans non deve vedere? o chi? o quale impressione sepolta non deve riemergere con la vista? Jelling deve saperlo prima che la mano assassina spenga la prossima preda; e per scoprirlo scruta i volti, le mani, i gesti, nella selva di individui che circonda Déravans, la cerchia eccentrica dei suoi familiari, i medici della clinica, perfino i legami più intimi.