Eleonora Duse (1858-1924) è stata una delle più grandi attrici di tutti i tempi, studiatissima eppure ancora misteriosa. Il suo stile era tanto lontano dalla norma che talvolta gli spettatori, vedendola in scena, rimanevano sconcertati e diffidenti - per poi innamorarsene. Fu anche direttrice di compagnia e capocomica, creatrice di spettacoli e non solo di interpretazioni. Insieme a Pirandello, è stata forse l'artista più grande e innovativa del teatro italiano. E tuttavia resta da decifrare il segreto della sua presa sul pubblico, della sua tecnica, del suo fascino, e resta da capire quale fosse il suo progetto, e quali i bisogni, le strategie, e le ferite da cui faceva nascere i suoi spettacoli. Eleonora Duse ha trasformato il senso stesso del fare teatro, dandogliene uno nuovo: non più cultura, o piacere, o arte, ma scossa, profondo sconvolgimento esistenziale. Una rivoluzione silenziosa, che questo libro indaga attraverso documenti, lettere, storie, testimonianze, racconti, e attraverso le immagini - i ritratti in studio, i disegni, le caricature - anch'esse indizi di un percorso da scoprire.
Autentico capolavoro del teatro barocco, l'opera mette in scena il conflitto tra libertà e destino, vita e sogno (un sogno presunto, insinuato da altri), verità e ingannevole apparenza. "Sogno" infatti non è emblema solo d'una condizione sfuggente e precaria, ma anche d'uno strato di finzione e di menzogna, di paralisi parziale della volontà, di un'angoscia esistenziale "il delitto d'esser nato" - che consiste nel non poter imporre agli altri il proprio essere e il proprio esistere. Introduzione di Andrea Baldissera.
Il nome e l'attività antifascista di Lucia Sarzi sono ben noti a chi ha letto "I miei sette figli" di Alcide Cervi o ha visto "I sette fratelli Cervi" di Gianni Puccini. A lei si deve molto del radicamento della rete clandestina che, tra case di latitanza, antifascisti e partigiani, rese possibile la Resistenza in Emilia. Attrice itinerante, giovanissima (era nata l'8 novembre 1920) entrò in contatto con i comunisti di Parma nell'estate 1940; nel novembre 1941 la famiglia Cervi scoprì lei e il suo pensiero antifascista grazie, appunto, al Teatro in cui recitava; nel 1943 accompagnava Giorgio Amendola nel suo percorso clandestino nel nord Italia e collaborava alla stampa e alla diffusione de «l'Unità». Le lettere che Lucia si scambiò con un gruppo di giovani di Lentate sul Seveso fra la fine del 1938 e l'inizio del 1940, conservate all'Archivio centrale dello Stato perché sequestrate dalla polizia, ci aiutano a comprendere la formazione culturale e politica di una ragazza di 18-19 anni e a collocare in quei mesi le radici del suo antifascismo e della sua attività clandestina.
«Gigi Proietti se n'è andato in fretta, troppo. È uscito dallo spettacolo come i colleghi Federico Fellini, Alberto Sordi, Carlo Lizzani. Nato nel 1940, era un ruscello fresco, un bell'atleta della durata, un pischello, un malandrino, con sorrisi in corsa. Non ha potuto battersi e vincere, fino in fondo, contro Roma: immobile, confusa, dominata da incapaci. Non come i suoi colleghi illustri, che avevano trovato continuità, successi, premi, protezioni nella Roma più corrotta di ieri e ieri l'altro. Avrebbe voluto impedire, allontanare la città da inganni, affarismi, pigrizia, bande, malaffare; ma doveva battersi contro le scene e gli schermi, cantare, giocare, soprattutto non farsi prendere dal deterioramento nelle abitudini. E poi, a un certo punto, non ce l'ha fatta più. Roma è rimasta sola? Sola, senza la forza dei suoi artisti, dei grandi nomi fondatori di avventure? Gigi si è impegnato nello spettacolo, nella televisione, nel teatro unendosi a personaggi come Carmelo Bene, alle avanguardie, ha fatto tutto e anche di più. Era impetuoso e irresistibile. Ha lavorato con passione, genialità. Ma si è trovato solo».
«Ebbene, sì. Confesso. Sì, scrivo roba in versi. Mi dichiaro rifugiato poetico.». Gigi Proietti è stato il più grande attore, regista, scrittore e interprete di un universo umano che attingeva spesso a Roma, a cui ha dato voce nella sua anima più nobile e più popolare insieme. «Il romano ha regalato alla lingua italiana espressioni, parole, significati per i quali dovrebbero ringraziarci. Per capirci, se invece di dire: "Sono stato particolarmente sfortunato in quella circostanza", uno dice: "M'ha detto pedalino". Oppure "M'ha detto zella", se fa' prima.» La sua romanità si riversava soprattutto nella scrittura dei sonetti: alcuni sono diventati un appuntamento fisso anche per i lettori del «Messaggero» o del «Fatto quotidiano», moltissimi altri sono stati recitati in eventi pubblici o sono rimasti nei quaderni che portava con sé sul set o in camerino e su cui si divertiva a costruire versi pungenti per resistere al quotidiano sfascio culturale e politico. Per la prima volta sono raccolti in questo libro tutti i suoi sonetti insieme ad alcuni racconti a cui stava lavorando con gran divertimento, come le avventure di Er Ciofeca che si ritrova suo malgrado al centro di un intreccio di cronache romane agre, tra dialoghi stralunati nel suo bar o in coda dal barbieretto. Ci sono poi i disegni con cui Gigi Proietti si divertiva a fissare in pochi tratti tic, manie e piccole ossessioni del mondo intorno. Una passione che condivideva soprattutto con la figlia Susanna, a cui aveva chiesto di dare un volto ai personaggi di "'Ndò cojo cojo". Il risultato è un libro unico, puntellato da storie e sonetti fuori da ogni regola, capaci di far ridere e di commuovere, e che dimostrano ancora una volta il talento di un narratore e di un sonettaro satirico.
Eschilo, Sofocle, Euripide nelle loro concrete condizioni di lavoro e nei loro non meno concreti problemi poetici: il finanziamento degli spettacoli, il pubblico, la regia e la recitazione. Baldry analizza anche le forme della tragedia, il rapporto con la leggenda, le origini rituali del dramma, l'accanito antinaturalismo, le trame incredibili e i personaggi stilizzati, fuori dello spazio e del tempo.
Nota di Marco De Marinis
Il gesto del riguardo. Presentazione di Ferdinando Taviani
Il teatro dell’arte di piacere. Esperienze italiane nel Settecento francese
La rivoluzione degli artisti e il terzo «Théâtre Italien»
La microsocietà degli attori. Una storia di tre secoli e più
L’attore, le sue fonti e i suoi orizzonti
Alla ricerca del Grande attore: Shakespeare e il valore di scambio
Modena rivisto
L’indipendenza prima di tutto. Il caso di Totò
Per una storia del teatro nel romanzo in Europa. Gli apici del «Pasticciaccio» e del «Castello»
Gesti parole e cose dialettali. Su Eduardo, Cecchi e il teatro della differenza
Nota bibliografica
Indice dei nomi
Il principe Antonio De Curtis non era solito leggere i racconti degli storici. Lo appassionava solo la storia della sua famiglia, che risaliva all'imperatore Costantino. Non lo divertiva la Storia, cioè l'esistenza umana nel fluire del tempo, perché aveva una visione tragica della vita. Ma permetteva a Totò di spernacchiare tutte le persone che nella Storia, e quindi nella vita, si comportano da «caporali»: i prepotenti che tormentano gli «uomini» qualunque, costretti a vivere un'esistenza grama. Nei suoi novantasette film, ambientati nelle più varie epoche storiche, dall'Egitto dei faraoni all'Italia del 'miracolo economico' e all'Europa del Muro di Berlino, Antonio incarna nei personaggi di Totò sia i 'caporali' sia gli 'uomini', ma sempre con lo stesso proposito: «spernacchiare» i caporali, spiegando che la pernacchia «ha tanti scopi: deride, protesta, esplode con un grido di dolore». E difende così la dignità dell'uomo libero.
A ogni generazione spetta il compito di reinventare i classici. Ogni generazione deve assumersi la responsabilità di questa reinvenzione, cioè di attingere dal passato qualcosa che permetta di decifrare il presente, che consenta di cogliere, sotto la superficie del flusso inarrestabile degli eventi e delle informazioni, ciò che ci riguarda direttamente, ci chiama in causa. Per farlo è necessario sottrarsi al brusio assordante della modernità e prestare ascolto a quanto hanno ancora da dirci gli antichi, i Greci in particolare. Perché la tragedia greca, a duemilacinquecento anni di distanza, continua a parlarci con forza, ponendoci di fronte questioni ineludibili: dà voce al dolore e alla sofferenza, racconta i conflitti che lacerano le comunità e squassano i rapporti familiari, ha molto da dirci riguardo alle nostre origini, mette a nudo la precarietà della nostra esistenza. E soprattutto descrive la zona grigia in cui si dispiega l'agire degli uomini, costretti a vivere in un mondo dominato dall'ambiguità e dall'incertezza, dove la ragione spesso si rivela una guida insufficiente a dissolvere l'opacità che li avvolge e le parole non sono altro che un vuoto gioco di prestigio che occulta la verità. Una «terra di mezzo» sospesa tra libertà e necessità, fra autonomia e dipendenza, dove il passato sembra condizionare ogni decisione e il futuro assume le sembianze del fato, cioè di una realtà che pare al di fuori della nostra portata ma che tuttavia ha bisogno di noi per potersi realizzare. La tragedia, quindi, ci rivolge in maniera pressante una domanda cruciale: che cosa dobbiamo fare? Di fronte ai drammi del nostro presente - le guerre, le ingiustizie, la violenza, la povertà - come dobbiamo agire? Qual è il nostro grado di coinvolgimento? Possiamo davvero considerarci non responsabili? Fino a dove può spingersi la nostra inazione o la nostra indifferenza? A lezione dagli antichi ci invita a trovare una risposta a questi interrogativi, una risposta che è essenzialmente «politica», perché attiene al nostro essere cittadini, parte attiva di una comunità che di fronte ai drammi degli altri non distoglie lo sguardo ma li riconosce come propri. Non è un caso, infatti, se la tragedia è nata nell'Atene democratica del V secolo a.C., se in essa «la città si fa teatro» e si mette in scena. Se vogliamo capire chi siamo, se vogliamo scoprire quale ruolo possiamo svolgere nel mondo, allora dobbiamo tornare al palcoscenico della vita che i tragici greci hanno allestito per noi.
Ultima opera che Ágnes Heller concluse prima della sua scomparsa, questo libro ricostruisce la storia culturale dell'Occidente negli intrecci fra produzione drammaturgica e riflessione filosofica. Sin dalla loro nascita, tragedia e filosofia sono unite da un'"affinità elettiva": la tragedia rappresenta le tensioni che caratterizzano un dato presente storico e ne introduce la sua comprensione filosofica. A sua volta la filosofia, pensando il proprio tempo (Hegel), pone nuovi concetti e scenari che faranno da materiale per successive rappresentazioni drammaturgiche, in una mutua influenza che imprime movimento all'intero sviluppo storico. Antigone, Amleto, Fedra, la Nora di Ibsen, il Galileo di Brecht condividono il palcoscenico di questo libro con l'etica aristotelica, la teoria secentesca delle passioni, l'utopia marxiana, l'esistenzialismo, la decostruzione. Solo attraverso questa profonda e originale ricomposizione è possibile porre la domanda sul futuro di filosofia e tragedia - e tentare di rispondere.
Voltaire è stato il primo intellettuale impegnato del nostro mondo, il più letto, criticato, discusso ed emulato del suo secolo. Grande ammiratore degli Inglesi, della loro libertà di pensiero e delle loro istituzioni, giovane esule, tra il 1724 e 1728, nei teatri di Londra scoprì Shakespeare, allora in Francia del tutto sconosciuto, e lo utilizzò per rinnovare la tragedia francese. Solo pochi decenni dopo però, intorno al 1760, la fama del poeta inglese in Europa crebbe a dismisura, mettendo in crisi la tragedia, il ruolo della Francia nel mondo e quindi lo stesso Voltaire, la cui cultura significava regole, norme, principi e, soprattutto, buon gusto. Shakespeare, invece, che trascendeva i limiti aristocratici, metteva in scena non eroi ma uomini moderni, con un linguaggio ora ricercato ora triviale, unendo tragico e comico, alto e basso. Pur contro l’oscurantismo, Voltaire vide vacillare il suo mondo e attaccò il poeta inglese, il cui sorprendente successo gli parve, a un secolo e mezzo dalla morte, uno scandalo intollerabile. Ma sapeva, dal punto di vista letterario e teatrale, di essere ormai uno sconfitto. Il libro ricostruisce il modo in cui la scoperta quasi improvvisa dell’eredità di William Shakespeare aprì in Europa uno scontro culturale senza precedenti e sconvolse irreversibilmente l’assetto della civiltà classica. È la storia della riscoperta del poeta che, con il suo genio, pose fine alla tradizione del mondo neolatino e all’egemonia culturale francese, annunciò il Romanticismo e aprì alla modernità
L'"Elettra" di Sofocle ha sempre goduto, nei duemila-cinquecento anni dalla sua comparsa, di una popolarità eccezionale, tanto da conoscere numerosissime riscritture sino all'Elektra di Hofmannsthal (poi trasformata in memorabile opera in musica da Richard Strauss), a O'Neill, Giraudoux e Sartre. La personalità della protagonista vi campeggia assoluta. La trama si svolge con rapidità stupefacente, ma con una quantità di svolte e raddoppiamenti sensazionali. Il tessuto lirico, drammatico e melodrammatico è teso come la corda di una lira. In questa edizione si dà una lettura nuova della protagonista: Elettra vi è interpretata come un "problema" «in quanto ostacola i cospiratori e ruba la scena ai loro piani»; il dramma stesso si configura come "problema", «perché è privo del normale meccanismo che serve a portare avanti la trama». Davanti alla sconfitta ateniese nella guerra contro Sparta, Sofocle sceglie di «sondare più da vicino l'individuo drammatico», ma anche qui sorgono questioni non indifferenti: per esempio, «può un individuo eroico essere esemplare se la forza della sua personalità non è diretta contro potenti antagonisti ma resta un'esibizione largamente inefficace da parte di una persona», come Elettra, «posta ai margini»? E ancora: perché Sofocle complica la trama del riconoscimento tra Elettra e Oreste già resa celebre dalla versione di Eschilo? Nell'Elettra sofoclea tale intreccio si sviluppa in una serie di scene di finzione che vedono il Precettore narrare la morte di Oreste; poi la sorella Crisotemi annunciare che è vivo e raccontare una replica dell'episodio, ben noto dalle Coefore, presso la tomba di Agamennone; quindi la comparsa dell'urna, portata da Oreste stesso, che ne conterrebbe le ceneri, e l'esibizione dell'anello paterno come prova definitiva. «Sì, proprio l'unico che viene a soffrire dei tuoi mali», dice Oreste di sé stesso un attimo prima, in un verso denso di compassione. «Oreste è qui morto per finzione, e ora per quella finzione sano e salvo», esclama Elettra, convinta dall'anello. Quella «finzione» è la chiave di volta dell'emozione intensa che ancora oggi suscita l'"Elettra" di Sofocle.