"Arrivo a Volterra che è novembre, è sera e fa un freddo cane. Dal cellulare blindato, il Ducato, non vedo niente e mi è venuto il mal di stomaco per le curve. Volterra è proprio 'ncopp' a 'na muntaqna. Maronna mia, ma dove mi stanno portando, in un carcere sperduto d'o Pataterno." Quella sera, Aniello Arena non sapeva che proprio in quel carcere sperduto d'o Pataterno sarebbe rinato. Allora, per usare le sue parole, "ero ancora un pezzo di carne che camminava". Ma partiamo dall'inizio di questa storia durissima che Aniello ha trovato la forza di raccontare. A Barra, quartiere degradato alla periferia est di Napoli, lui è uno scugnizzo con il fuoco dentro e troppo poche possibilità. Dalle sue parti tanto è difficile costruirsi una vita "regolare", quanto è facile arrangiarsi ai margini della legalità, finire in un brutto giro e commettere errori che, prima o poi, si pagheranno salati. È così che Aniello, ancora giovanissimo, entra per la prima volta a Poggioreale, un carcere che "è un rimedio peggiore del male che dovrebbe curare". Ne esce, ma ormai è preso nella spirale degli errori e, nonostante abbia moglie e figli che ama, non riesce a rimettersi su una buona via. Anzi. Presto è un'escalation che, passando per diversi penitenziari, porta dritto all'ergastolo. Fine-pena-mai. Un abisso che svela con parole vibranti, descrivendo la vita carceraria come nessun altro ha fatto finora, con cruda autenticità ma non senza lasciarsi sfuggire, ogni tanto, un guizzo d'ironia.
Il successo commerciale e mediatico della Passione di Cristo di Mel Gibson (2004), seguito due anni dopo dall'ampia distribuzione che ha accompagnato l'uscita del film Nativity di Catherine Hardwicke, ha riacceso l'interesse di Hollywood per la figura di Gesù e per i temi della Bibbia.
L'attenzione agli immaginari di tipo mitico-religioso nella cultura di massa non è certo una novità per l'industria cinematografica americana, come testimonia la figura del regista e produttore Cecil B. DeMille (1881-1959). Con il grande successo dei Dieci comandamenti (1923) e del Re dei Re (1927) egli ha infatti notevolmente contribuito a rendere il cinema consapevole delle proprie possibilità come veicolo di mentalità e serbatoio dell'immaginario sociale.
Sommario
I. Cinema e religione nell'era dei blockbusters. II. DeMille e la messa in scena del desiderio negato. III. Gesù e il triangolo sentimentale. IV. L'emozione religiosa e l'etica del successo. V. Il Decalogo, ieri e oggi. VI. Tornare ai sani principi: Bibbia, cinema e politica. VII. Nel paese della libertà. Conclusione. Bibliografia.
Note sull'autore
Davide Zordan ha ottenuto il dottorato in teologia presso l'Institut d'Études Théologiques di Bruxelles ed è ricercatore presso il Centro per le scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler. Insegna inoltre teologia fondamentale al Corso superiore di scienze religiose di Trento. I suoi studi riguardano in particolare l'estetica teologica e le dinamiche del credere nel contesto contemporaneo. È caporedattore della rivista Cabiria. Studi di cinema e membro del comitato di redazione di Studia Patavina e dello staff direttivo del Religion Today Film Festival. Ha pubblicato Connaissance et mystère. L'itinéraire théologique de Louis Bouyer (Éditions du Cerf, 2008) e Louis Bouyer (Morcelliana, 2009). Per EDB ha curato Riflessi di bellezza. Arte e religioni, estetica e teologie (2007) e, con Stefanie Knauss, La promessa immaginata. Proposte per una teologia estetica fondamentale (2012).
Quali dilemmi morali sollevano le neuroscienze? Quali provocazioni lanciano alle categorie filosofiche tradizionali? Si può ancora parlare di libertà decisionale e responsabilità personale se i moderni strumenti diagnostici documentano le influenze causali esercitate dal substrato encefalico e dal metabolismo corporeo? La risposta a queste domande esige non solo un'analisi dei concetti-guida che dominano le nuove ricerche, ma anche una diversa ricostruzione del rapporto fra i due mondi - mind e body, pensiero e cervello - cui si è di volta in volta attribuita una separazione, una sinergia funzionale, un'identificazione ontologica.
L'approccio del volume è di ordine narrativo. Mente e cervello sono rappresentati come personaggi in cerca di una trama che sveli i loro caratteri, la loro genesi e le condizioni del loro interagire. Il cinema, quale repertorio contemporaneo di miti, aiuta l'esplorazione. Le pellicole che il libro commenta anticipano intuizioni scientifiche, precedono interventi tecnologici, immaginano l'impatto antropologico delle nuove scoperte, invitano a riportare dati biologici e cifre speculative al mondo della vita, in cui intelletto ed emozioni, ideazioni spirituali e passioni corporee, scelte e affetti si intrecciano e si condizionano reciprocamente.
La mente è un'esistenza corporea che, anche attraverso il cervello, allestisce meccanismi di funzionamento psichico, i quali consentono al soggetto di pensare, raccontare e decidere di sé. L'indagine scientifica non esaurisce pertanto il discorso sulla libertà. Dotarsi di strumenti di lettura propri della critica d'arte e dell'estetica apre feconde prospettive sul delicato terreno di congiunzione in cui corpo e mente, cervello e libertà, scienza ed etica si scambiano le metafore.
Sommario
Introduzione. La bioetica e le neuroscienze. I. La neuroetica: i concetti e i miti soggiacenti. II. Le proprietà del cervello e i privilegi della mente. III. L'identità della persona e l'ambiguità del corpo. IV. Mind-body problem: dualismo, riduzionismo, funzionalismo, determinismo. V. Nozioni da ripensare: materia, sede, empatia. VI. L'emergere della libertà. VII. Estetica e narrazioni, in neurologia. Bibliografia. Filmografia. Indice dei nomi. Sigle bibliografiche.
Note sull'autore
Paolo Cattorini è professore ordinario di bioetica alla Facoltà di medicina e chirurgia dell'Università degli studi dell'Insubria, Varese. Laureato in Medicina e Filosofia, specializzato in Psicologia clinica, ha svolto ricerche in Filosofia della medicina, Bioetica e Medical humanities ed è stato componente di commissioni etiche a livello nazionale e locale. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Bioetica e cinema. Racconti di malattia e dilemmi morali (F. Angeli, 2003); Bioetica. Metodo ed elementi di base per affrontare problemi clinici (Elsevier, 2011). Per EDB ha pubblicato La morale dei sogni. Lo statuto etico della psicoanalisi (1999); I Salmi della follia. Disturbi mentali e preghiere di liberazione (2003). La morte offesa. Espropriazione del morire ed etica della resistenza al male (22006); Un buon racconto. Etica, teologia, narrazione (2007); Estetica nell'etica. La forma di un'esistenza degna (2010).
Quando "il Maestro" e "il Poliziotto" s'incontrano Nicola Longo è già celebre, Federico Fellini ne ha seguito le imprese sui giornali appassionandosi a una carriera fitta di operazioni sotto copertura, scontri a fuoco, ferimenti e casi risolti. Tra i due, messi in contatto da Tonino Guerra, nascono subito una reciproca fascinazione e la voglia di lavorare insieme. Il primo tentativo - un film tratto dal romanzo autobiografico di Nicola, "La valle delle farfalle" - fallisce per contrasti con il produttore Renzo Rossellini. Il regista rilancia, sa che Nicola può essere la guida perfetta per decifrare il presente dei primi anni Ottanta: un eroe senza retorica, diviso tra l'orgoglio del proprio ruolo e una nascosta amarezza, con la consapevolezza del male e dei suoi indefiniti contorni. "Poliziotto" raccoglie i sei racconti che i due produssero, con l'aiuto di Gianfranco Angelucci, chiusi nello studio di Fellini nell'estate del 1983. Longo racconta impassibile, la voce è fredda e impersonale, irresistibilmente ipnotica. Fellini ascolta e annota, nella sua mente le storie diventano l'affresco di un mondo assediato da una violenza cieca e pervasiva che tutto confonde. Sono episodi di lotta quotidiana, che attraversano i bassifondi della malavita, s'immergono nel vortice caotico del crimine e arrivano a sfiorare il fantasma dei poteri occulti. Questi racconti, sospesi in precario equilibrio tra descrizione della realtà e metafora visionaria, non diventaranno film...
Dai saggi degli autori del presente volume (Renato Balduzzi, Rossana Cuccurullo, Roberto Di Ceglie, Redi Sante Di Pol, Sira Serenella Macchietti, Carlo Nanni, Antonio Sabetta, Ignazio Sanna) si evince che educare nella postmodernità vuol dire educare in un periodo storico in cui le verità fondamentali e i modelli di comportamento proposti dalle diverse agenzie educative sono plurali e, talvolta, anche contrapposti. Nel linguaggio comune, per esempio, dire persona significa dire uomo. I due termini, persona e uomo, sono interscambiabili, e vengono usati per indicare la stessa realtà, perché la persona è l'uomo e non già una proprietà dell'uomo. Nel linguaggio comune, dunque, uomo è sinonimo di persona. Ma mentre tutti si è d'accordo su che cosa sia uomo, non tutti si è d'accordo su che cosa sia persona, su quando l'uomo cominci ad essere persona e quando cessi di esserlo. Mentre l'uomo è legato alla natura umana, alla specie, all'insieme di dati fenomenologicamente osservabili e verificabili, la persona è legata ad una interpretazione dell'essere vivente, mutuata da una visione religiosa della vita. Uomo è in rapporto alla vita come organismo biologico, determinabile, quantificabile, misurabile. Persona è in rapporto alla vita come zoe, come dinamismo interiore, come esistenza carismatica, non sempre misurabile e quantificabile.
Con la verve e l'ironia che lo contraddistinguono Diego Abatantuono si racconta, ripercorrendo aneddoti, storie d'amore e di amicizia dietro le quinte dei suoi film, dove i sapori della cucina sono il filo rosso che unisce tutti i ricordi. In ogni capitolo, dedicato a un film o all'incontro con un attore o regista, vengono narrati episodi e vicende legati a quel momento e sempre "conditi" dai cibi assaporati; di alcuni dei piatti citati viene poi ricostruita e proposta la ricetta vera e propria. Così dal baule dei ricordi escono una mitica cena organizzata da Ugo Tognazzi, una festa mancata alla fine delle riprese di Mediterraneo, le esperienze gastronomiche con Paolo Villaggio, il pane e cicoria mangiato con Depardieu, ma anche i ricordi di Diego bambino, quando andava con il nonno Paolo e il papà Matteo a spasso per cinema e osterie. Ne risulta un Abatantuono inconsueto, accompagnato da fotografie in gran parte inedite che restituiscono l'atmosfera e il profumo delle storie narrate: un viaggio nella memoria dove cinema, cucina, amori, amicizia sono indissolubilmente legati tra loro con allegria e leggerezza.
È il 20 settembre 1905. Davanti a Porta Pia si proietta "La presa di Roma" diretto da Filoteo Albertini. Nasce così il cinema italiano. Evento pubblico che chiama in causa memoria storica, coscienza civile e passioni contrapposte: dai tempi eroici del muto all'ibridazione dei media, l'autore ci spiega cosa è stato il cinema nel nostro paese e cosa oggi ancora è. Ne evidenzia i caratteri originali - attraverso la tipologia dei generi, degli attori e delle opere - e le linee di tendenza, tratteggiando un profilo dell'industria cinematografica come capitolo importante nella storia della formazione dell'identità italiana.
"Ma cos'è questa crisi?" si chiedeva Rodolfo de Angelis in un celebre ritornello della prima metà del Novecento. Ripercorrendo sessant'anni di storia italiana, il libro misura la crisi come condizione naturale della cultura del nostro paese. È una contraddizione solo apparente che il malessere deflagri proprio nell'epoca del boom, nel vivo dei favolosi anni Sessanta. E da allora assume forme via via diverse, prolungando la propria ombra fino alla stagione presente. Tra letteratura e cinema del malessere, gli antieroi passati in rassegna hanno i volti e i nomi dei personaggi di Risi, Calvino, Bianciardi e Volponi, per incarnare poi in tempi più recenti i tratti grossolani del cinema dei Vanzina, quelli melanconici dei libri di Tondelli o, infine, quelli ossessivi della "Gomorra" di Saviano.
Sophia Loren in una veste insolita: quella della donna di casa, che propone un libro composto da più di 200 ricette. Uscito con successo negli anni Settanta, viene riproposto in una versione arricchita da contenuti speciali: oltre alle ricette, intervallate da testi su vari argomenti (il bon ton a tavola e l'arte di apparecchiare, ma anche i ricordi di un infanzia di guerra fino all'invito, rivolto agli uomini, a prendere almeno ogni tanto le redini della cucina) la nuova edizione propone fotografie inedite che ripercorrono i momenti clou della carriera di Sophia Loren, tratte dai suoi film o da momenti pubblici della sua vita fino a oggi.
Esordisce nel 1962 con un documentario contro la pena di morte. In seguito gira due film sullo stesso tema, rivedendo le proprie posizioni. Incrocia Alfred Hitchcock, improvvisa un musicarello con Sonny e Cher, conquista la fiducia di Harold Pinter. William Friedkin è il regista di successi epocali da Oscar come Il braccio violento della legge e L esorcista, ed è responsabile di alcuni dei fallimenti più costosi della storia di Hollywood. Dirige opere liriche, film a basso costo, telefilm. La sua carriera è unica, nel cinema americano e non solo. E unica è anche la sua autobiografia. "Mi chiedo che cosa mi attragga così ossessivamente verso temi inquietanti," dice di sé. Ma a differenza di tanti suoi colleghi, non coltiva il mito di una vocazione autoriale. Non che non sia cinefilo: dopo tutto è un ragazzo di Chicago folgorato da Quarto potere e dalla nouvelle vague. Ma in questa autobiografia mostra, con grande onestà intellettuale, che il cinema è un'impresa faticosa e spesso dominata dal caso. Errori grossolani si possono rivelare provvidenziali; mentre l'impulso di un attimo può compromettere mesi di lavoro. Più che celebrare i propri trionfi, Friedkin è interessato a svelare i retroscena, le occasioni perdute, le scelte sbagliate e le coincidenze fortuite, la follia propria e altrui. Riconosce la propria hybris, con la serenità di chi ha alle spalle una carriera avventurosa e imprevedibile, e ha saputo ogni volta ripartire da capo.
La storia del cinema europeo, dal neorealismo al Sessantotto, è anche la storia di una serie di problematiche legate alla vita e allo spirito. Il neorealismo rappresenta il primo squillo della rivoluzione estetica dalla quale nasce il cinema moderno. La «politica degli autori» a livello teorico, la successiva nouvelle vague e soprattutto il «nuovo cinema» d'autore affermatosi a livello planetario negli anni Sessanta, non rappresentano, come molti sostengono, solo una «forma» nuova. La «forma» naturalmente ha una rilevanza non trascurabile. Ma se oltre alle questioni meramente formali, ampliando il campo di osservazione, si evidenziano le tensioni etiche presenti nelle opere cinematografiche, ne viene fuori una storia molto più complessa, caratterizzata da una forte tensione filosofica, morale e spirituale. Il neorealismo è animato dal desiderio di guardare in faccia le tragedie umane, e il passo successivo compiuto dalla ricerca del cinema d'autore europeo orienta lo sguardo cinematografico verso la descrizione della libertà di autodeterminazione, tratto peculiare della modernità, le cui conseguenze sono intimamente connesse con le filosofie dell'esistenza proprie dell'età dell'eclissi del sacro. Alla conclusione dello straordinario decennio - gli anni Sessanta - di effervescenza, originalità, profondità e creatività incarnate dal cinema d'autore europeo, proprio nel ribollente crogiolo culturale del Sessantotto, alla disumanizzazione estetica finisce per legarsi una virulenta ideologia politica, anticristiana e impegnata a rappresentare la «privatizzazione esistenziale». Il cinema diventa militante, a stretto contatto con la realtà ribollente. La macchina da presa deve riprendere l'esistenza nella maniera più spontanea possibile, partecipando così al cambiamento, saldando tecnica e ideologia.
Lo sapevate che Michelangelo Antonioni, il regista intellettuale per eccellenza, si presta a girare gli interni del mitologico "Nel segno di Roma" con Anita Ekberg, che Sergio Leone non ancora famoso dirige "Il colosso di Rodi" e "Gli ultimi giorni di Pompei" e che Carlo Lizzani ha girato un western con Pasolini attore? Oppure che il futuro premio Oscar Carlo Rambaldi muove i primi passi costruendo una rudimentale idra a quattro teste per "Maciste contro i mostri" ma il camioncino che la trasporta si ferma per un guasto a Roma sulla via Tuscolana tra l'ilarità dei passanti? Steve Della Casa racconta il cinema italiano da un punto di vista inedito: quello di chi il cinema l'ha fatto e di chi l'ha guardato. È una storia non lineare, inconsueta, raccontata il più possibile dai protagonisti, che mescola il cinema alto con quello commerciale, le punte di creazione artistica con gli espedienti più astuti e più divertenti. Perché il cinema italiano, secondo solo a Hollywood per film prodotti, ha una caratteristica: non è mai stato un'industria nel senso compiuto e letterale del termine, ma un vero e proprio turbinio di creatività, di artigianato e di arte di arrangiarsi. Non manca nessuno all'appello: dal D'Annunzio di "Cabiria" alla stagione del cinema di regime, dal neorealismo alla commedia all'italiana, dai film mitologici agli spaghetti western, fino a Benigni, fino a oggi.