I grandi leader religiosi come Gesù sono profondamente radicati nella società in cui vivono e per comprenderne la personalità è necessario prestare attenzione alla situazione politica, economica e sociale, ma anche culturale e religiosa dell'epoca in cui sono vissuti. L'anacronismo è infatti il peggior nemico della comprensione delle origini del cristianesimo. Compito dello storico è non farsi influenzare dalle concezioni e dalla cultura di oggi e riscoprire invece il modo di vivere e di pensare di Gesù, dei suoi primi seguaci e degli scritti che essi produssero nei primi due secoli. Per questo le ricerche qui contenute prendono le mosse da due convinzioni: l'ebraicità di Gesù e dei suoi discepoli, divisi in una molteplicità di gruppi locali che possedevano informazioni parziali e differenti, e la conseguente presenza di affermazioni contrastanti nei vangeli, pur nella loro verità storica. A riprova che sociologia e antropologia sono parte essenziale e creativa degli studi biblici e, accanto ad altre correnti esegetiche e sensibilità storiografiche, possono dare il proprio, sempre parziale, contributo.
Chi crea l'opera d'arte, l'uomo o Dio? In questo testo, tradotto sulla base dell'edizione critica danese, Kierkegaard si interroga sul rapporto, ambiguo e dialettico, tra apostolici - l'essere un chiamato da Dio - e genialità - l'essere ispirato.
Un dilemma sia esistenziale, vissuto in prima persona e sotteso all'intera opera kierkegaardiana, sia teoretico: l'essere apostolo in che modo è compatibile con l'essere un creatore in se stesso? E' l'antinomia che riecheggia nella categoria di "genialità apostolica", l'aspirazione al carattere divino della creazione umana.
Appellarsi ai valori cristiani come motivi ispiratori per operare nelle società alimenta opzioni contrapposte, specie quando il tema in questione è l'accoglienza dell'"altro": inoltrandosi che nelle pagine bibliche meno note, si trovano testimonianze in direzioni contrarie. La società giudaica si forma chiudendosi ai "diversi", ma nel corso della storia che dai patriarchi giunge alla generazione dell'esodo, l'esperienza di essere minoranza, a volte anche vessata e perseguitata, diventa tratto comune dell'intro popolo di Israele. Fino ai più celebri passi evangelici sull'ospitalità, l'estraneità nella Bibbia si intende n termini relativi: ognuno può essere "straniero" rispetto a qualcun altro.
Una nuova storiografia che guarda alle grandi trasformazioni della mentalità collettiva, ai sistemi di credenza e alla comunicazione di massa, ha introdotto una nuova prospettiva "culturale" nella storia del fascismo. Il nuovo approccio, tuttavia, non è stato ancora applicato agli studi sul cattolicesimo italiano. Eppure, in tale prospettiva, il processo di nazionalizzazione degli italiani durante il "ventennio" sembra profondamente legato alla fede cattolica, e in una doppia maniera: il cattolicesimo divenne parte della nazione e, parallelamente, l'idea che gli italiani avevano della nazione incluse massicciamente il cattolicesimo. Alimentato in modo convergente e, assieme, sottilmente concorrenziale sia dal regime che dal mondo cattolico, il mito dell'"Italia cattolica" finì per imporsi, in alternativa a quello risorgimentale e laico della "Terza Roma". Sostenuto dal fascismo, in parte con sincera convinzione in parte per inglobare strumentalmente il cattolicesimo nella propria visione totalitaria del mondo, e promosso dai cattolici per realizzare i presupposti di una visione che puntava, in chiave anti-liberale e anti-laicista, a una confessionalizzazione dello Stato e della società, esso ha rappresentato la base dell'intesa e del compromesso tra il regime e la Chiesa ma anche, allo stesso tempo, il terreno principale del loro contrasto. Questo libro racconta dunque la storia di un mito, nella convinzione che esso sia stato un soggetto non secondario delle vicende di quegli anni, ma anche delle successive perché la sua eredità avrebbe continuato a pesare nella storia dell'Italia democratica.
Da Assisi al monte della Verna, nel Casentino, da Moncasale nei pressi di Sansepolcro, nella Valtiberina Toscana, all'Alpe di Catenaia e all'Alpe della Luna, le montagne attraversate da Massimiliano Ossini sono luoghi mistici, in cui natura e spiritualità trovano il loro equilibrio e in cui la bellezza di spazi incontaminati abbraccia fede, storia e cultura. Massimiliano Ossini, in questo libro, ripercorrendo anche molti luoghi toccati da san Francesco nel suo peregrinare, ci accompagna lungo un itinerario in cui il trionfo naturalistico delle nostre montagne e la loro carica mistica ci permettono di riscoprire e di rendere più chiaro ciò che abbiamo dentro.
Nei dodici canti finali delle Dionisiache – summa abbagliante del mito greco e nel contempo dei molti modi poetici, dall’epico all’erotico all’elegiaco, di quella civiltà – Nonno trascina il lettore alternando sapientemente toni, motivi e atmosfere esotiche. L’immane carneficina esito dei sei anni della guerra indiana esige che i comandanti sospendano le ostilità per onorare i morti – e la descrizione dei giochi funebri celebrati per commemorare Ofelte diventa l’occasione per una virtuosistica gara con il modello omerico. Esperto nell’arte del differimento, Nonno ne rinvia ulteriormente l’inevitabile conclusione inserendo come vertiginoso intermezzo l’episodio di Fetonte, precipitato dal cielo per aver osato guidare il Carro del Sole. Sconfitto il re degli Indiani Deriade in duello, Dioniso giunge prima in Libano, terra del suo avo Cadmo, e poi a Tebe, sua città natale. Ma una nuova serie di avventure lo porterà in altri luoghi della Grecia e in Frigia, dove, unitosi ad Aura, darà vita alla sua terza incarnazione, Iacco, il cui avvento lo libera da ogni responsabilità verso gli uomini – e consente a Nonno di chiudere il poema conducendo il suo eroe, divinizzato, sull’Olimpo.
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Il mondo contemporaneo ha assoluto bisogno di pensare il futuro come una possibilità buona. È nell’ottica di un’opportunità per il cambiamento che questo libro rilegge le utopie moderne da Thomas More a Francesco Bacone, da Henri de Saint-Simon a Zygmunt Bauman.
Il ritorno a Utopia è un viaggio necessario, per quanto il suo percorso sia difficile da immaginare con precisione. Superata l’illusione che il progresso si produca automaticamente per un destino o per una necessità storica o tecnologica, abbiamo il compito di immaginare strutture e relazioni sociali che siano meno ingiuste, meno autodistruttive, più vivibili, anche se non perfette.Si tratta di provare a tracciare l’immagine credibile di un futuro in vista del quale agire con decisione. La navigazione è affidata all’ingegno di ognuno e di tutti, ma prima di salpare occorre rintracciare e ordinare le conoscenze intorno a che cosa sia la meta che intendiamo raggiungere. Conoscenze che si trovano precisamente in quell’immagine della giustizia e del bene che abbiamo imparato a chiamare ‘utopia’. Riscopriremo così la profondissima ragionevolezza del pensiero utopico, il suo realismo, la sua concretezza – antidoto alle contorsioni folli dell’attuale assetto del mondo.
Giudicare: un compito necessario e impossibile. Necessario perché una società non può lasciare senza conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza. Impossibile perché non possiamo mai avere la certezza di riuscire a conseguire la verità. Da questa contraddizione nasce l’esigenza di stabilire un itinerario conoscitivo, il ‘processo’, ritenuto il metodo meno imperfetto per pronunciare una decisione giusta, che siamo disposti ad accettare pro veritate.
Una preziosa riflessione sul processo penale che ne analizza l’irrinunciabile funzione sociale, le scelte epistemologiche qualificanti, gli snodi fondamentali, le distorsioni della sua rappresentazione mediatica.
La direzione del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici è cambiata: le speranze di miglioramento, che erano state riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reimpiegate nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Con un simile dietrofront il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, si trasforma in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale a quello di vedersi riprendere le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere-prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, potrebbe trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente.