Nel 1960, accompagnando l'ascesa alla Presidenza del primo cattolico, John Kennedy, sospetto in vasti settori dell'opinione pubblica protestante perché la Chiesa cattolica sembrava limitarne l'autonomia, il padre gesuita John Courtney Murray pubblicò We Hold These Truths - Catholic Reflections on the American Proposition, la raccolta dei propri scritti. In essa, a partire dal diritto costituzionale americano, proponeva di assumere pienamente la libertà religiosa come principio da valorizzare e non come male da tollerare. Kennedy si ispirò a Murray anche in un celebre discorso a Houston di quello stesso anno che ebbe particolare risonanza politica ed ecclesiale, anche ad anni di distanza. La prima apparizione italiana del testo (Morcelliana, 1965) intendeva accompagnare i lavori del Concilio Vaticano II ed in effetti ebbe un'influenza decisiva sulla Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae anche grazie ai rapporti di lunga data dell'autore con Paolo VI. Oggi, in concomitanza con l'ascesa alla Presidenza di Joe Biden, secondo cattolico dopo Kennedy, vede la luce questa nuova edizione, con una premessa e una nota biografica e bibliografica di Stefano Ceccanti, nella convinzione che alcune intuizioni di fondo del testo e della Dichiarazione possano avere ancora un significato.
Questo volume, già tradotto negli Stati Uniti, presenta una analisi del significato e delle possibili conseguenze dell'elezione di Biden per la storia del cattolicesimo e dal punto di vista dei rapporti tra la politica americana, il Vaticano e la Chiesa globale. Joe Biden è il secondo presidente cattolico, dopo John Fitzgerald Kennedy (1961- 1963), ed è stato il quarto a candidarsi (Al Smith nel 1928 e John Kerry nel 2004) per ricoprire quella carica politica, ma anche morale e in certo modo religiosa, che è la presidenza degli Stati Uniti. Biden rappresenta un Paese diviso al suo interno come non mai dai tempi della guerra civile, ma anche un mondo cattolico in crisi e polarizzato al suo interno su molti temi. Il nodo centrale resta la combattuta e controversa eredità del Concilio Vaticano II e le conseguenti scelte in merito alla giustizia sociale, ai modelli economici, all'ambiente, ai rapporti con culture e religioni diverse.
Il testo è una raccolta di saggi sul tema dell'Europa e del Cristianesimo visti attraverso la prospettiva di Florenskij, Guardini e Newman. Questi tre grandi autori rappresentano le tre "anime" - anglosassone, continentale e orientale - del Vecchio Continente.
Il fine della politica è quello di governare gli affari umani o è un compito a termine, da svolgere in un tempo intermedio, nell'attesa del mondo a venire, quando giustizia e pace regneranno per sempre? Questa domanda - la matrice stessa della «teologia politica» - è divenuta possibile quando, nella storia è apparsa la categoria giudaica di «éschaton»: l'attesa di un «mondo a venire», il pieno realizzarsi di quanto, fin dall'inizio, era stato promesso. A partire da qui, l'idea di éschaton ha segnato l'intera storia dell'Occidente e la sua filosofia politica: dal giudaismo, tramite il cristianesimo, è giunta al moderno e qui si è secolarizzata nella forma delle filosofie del progresso e delle apocalittiche rivoluzionare. Oggi l'éschaton pare giunto al tramonto: nell'odierno tempo senza fine, la storia non deve raggiungere più alcun culmine e non ci resta che governare la contingenza del mondo, portarsi all'altezza della sua improbabilità. Natoli, in questo breve e denso libro, insegue nei segni della storia i mutamenti che questo concetto centrale ha avuto nei secoli. In origine un termine spaziale, denotante i limiti remoti, i luoghi lontani che si trovano oltre il confine identitario di un territorio, l'éschaton ha assunto nel cristianesimo il suo marcato significato temporale, divenendo il punto cui tendere, il ritorno messianico, il momento nel quale il Giudizio riunirà in una sola cosa giustizia e governo. Intanto, però, nella loro attesa sulla terra, gli uomini vivono una dilatata «epoca del frattanto». È in questo limbo temporale che il governo delle cose umane deve destreggiarsi, darsi un ordinamento, prepararsi al compimento della storia. Fino a quando, nella contemporaneità, l'éschaton perde progressivamente di significato, il tempo si dilata, infinito, e il fine della politica resta la politica stessa.
«L'equivoco di fondo del populismo sta nel ritenere che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo tutto intero, legittimando il comportamento trasgressivo dei leader eletti, che ambiscono a conquistare spazi di potere sempre maggiore. Occorre prendere posizione con coraggio su una serie di sintomi, espliciti indicatori di un cancro della nostra democrazia». Da questa forte provocazione prende le mosse la riflessione di un grande protagonista e testimone della storia politica italiana, che con sguardo lucido lancia un allarme sulle derive istituzionali in atto nel nostro Paese, in Europa e nell'intero Occidente. Pungolato dalle domande di Chiara Tintori, padre Sorge denuncia la superficialità con cui l'attuale politica, ossessionata dal consenso, affronta problemi complessi - immigrazione, povertà, disoccupazione - evitando di indagare, con la necessaria competenza, le radici profonde dei mali che affliggono la società italiana. L'antidoto al populismo è per i due autori un "popolarismo" moderno, certamente ancora ispirato all'Appello ai liberi e forti di don Sturzo (1919) - che con straordinaria lungimiranza aveva posto i fondamenti di una "buona politica" e di una "laicità positiva" -, ma capace di declinarsi oggi nelle nostre società multiculturali e multireligiose.
Il libro raccoglie due testi sui limiti e le ragioni dell'impegno politico di fronte a quello assoluto e trascendente rappresentato dalla fede. Il cristiano può - e in determinate circostanze, deve - accettare lo Stato, ma mai incondizionatamente, in quanto egli appartiene a uno Stato superiore e la sua libertà si fonda sull'indipendenza da qualsiasi ideologia o peculiare forma di governo. Prendendo le distanze dalla tentazione di ogni "Cristianesimo sociale", Barth ribadisce la necessità di una formazione politica della coscienza, unita al dovere del credente di lottare per la salvezza dell'umanità, interrogando sempre il rapporto perennemente in tensione tra fede e potere politico. La riflessione su questi temi trova forma nel commento al capitolo 13 della «Lettera ai Romani» di san Paolo (1919, poi rielaborato nel 1922) e nella conferenza del 1933, in cui l'autore si oppone radicalmente alla nascita in Germania di una Chiesa di regime sottomessa al culto del Führer, e afferma che è venuto il tempo di una "decisione politica" fondata sulla libertà del Vangelo.
Il legame tra la teologia e la politica è tornato prepotentemente in primo piano, non solo con l’affermarsi di forme di radicalismo islamico, ma anche con la rinnovata centralità del cristianesimo, e delle forme di vita tradizionali a esso ispirate, nel “secolarizzato” Occidente. Come provano a dimostrare i testi raccolti in questo volume, però, fra la politica e la religione c’è una relazione ben altrimenti complessa, in gran parte confluita nell’elaborazione del concetto di “teologia politica”, a significare l’origine teologica delle categorie portanti della moderna politica occidentale. Come è giusto ricordare, questo approccio, che ovviamente va fatto risalire a Carl Schmitt, ma anche a Jacob Taubes, ha goduto di una ricezione privilegiata e precoce da parte degli intellettuali italiani, in largo anticipo rispetto ad altri contesti culturali.
È dunque nell’arco dell’orizzonte teorico schmittiano e della sua critica che i contributi qui offerti cercano di mettere a fuoco il nesso tra religione e politica, lungo un percorso articolato in tre tappe, corrispondenti alle tre parti del libro: Teologia politica e pensiero italiano, Il dibattito tedesco e Per una critica della teologia politica. L’ambizione collettiva degli autori è quella di confrontarsi fruttuosamente con la pluralità dei discorsi teologici politicamente attivi, propri tanto dei monoteismi quanto delle rivoluzioni (si pensi alla “spiritualità politica” di cui parlò Foucault in occasione della sollevazione iraniana del 1978), e con gli addentellati che essi presentano con la dimensione economica – travolta dalla grande recessione iniziata nel 2008 –, con quella giuridica e con quella più propriamente politologica.
Padre Bonaventura, al secolo Antonino Trapolino, nasce a Bisacquino, nel palermitano, il 7 gennaio del 1863 e muore a Palermo nel Convento delle SS. Stimmate il 24 aprile del 1947. La sua vita è dunque racchiusa nell'intenso periodo di rinnovamento spirituale e politico che va dall'Unità d'Italia al secondo dopoguerra ed egli fu infatti molto attivo politicamente, come si evince dai discorsi che teneva in conferenze in giro per la Sicilia. I discorsi di padre Bonaventura hanno però anche un elevato contenuto e valore spirituale, intriso del grande spirito dell'umanesimo cristiano, lo stesso di Paolo VI, secondo il quale non può esserci vero umanesimo senza cristianesimo. E proprio questo è il messaggio profondo dei discorsi di padre Bonaventura.
Oggi più che mai occorre riprendere, e a volte anche ricostruire, quell'intreccio tra spiritualità e politica che dà senso e forma alla nostra esistenza singolare e plurale. Perché se l'uomo è, per definizione aristotelica, un animale politico, cioè un essere che vive nella pluralità della polis, è anche vero che ciascun uomo di fronte al progetto dell'esistenza si pone da solo, con la sua originalità unica. Ecco allora la necessità di riflettere sulle questioni essenziali che accompagnano la costruzione del senso dell'esistenza (oggetto della spiritualità) per arrivare a disegnare l'orizzonte del proprio camminare nel tempo e nella comunità umana (che è essenza della politica). È quanto fanno gli autori di questo libro, che declinano il tema in modi diversi e peculiari: rintracciando le intime connessioni tra politica e anima nella filosofia greca; dialogando con le riflessioni della modernità, da Hannah Arendt a Simone Weil, da Heidegger a Lévinas, a Weber e tanti altri; ricostruendo le sembianze dello 'spazio interiore' come primo spazio di libertà e di resistenza; puntando l'attenzione sulle forme etiche del prendersi cura e dello sguardo accogliente nei confronti del diverso e della fragilità così facilmente ostaggio della violenza; ripercorrendo la metamorfosi dello spirituale e la sua resilienza nella società dell'imperio economico e secolare... Questa è la strada da percorrere se si vuol togliere la spiritualità dal recinto chiuso della vita unicamente privata e restituire alla politica il senso di pratica al servizio della comunità, orientata a costruire una polis dove vivere una vita giusta, bella e buona.
Carl Schmitt è il più celebre e controverso rappresentante in epoca recente della Teologia politica, vale a dire di una Teoria politica che pretende di fondarsi sulla fede nella Rivelazione divina. Una pretesa che questo libro prende sul serio, andando alla ricerca del nucleo religioso che dà unità e coerenza alla sua labirintica opera. Lontana dall’indignazione morale quanto dall’ammirazione apologetica, questa interpretazione ha infiammato un dibattito da sempre acceso sul suo pensiero. Ma è in vista di una fondazione filosofica e non teologica della vita politica che al suo nome assegna un posto paradigmatico nella tradizione di un concetto che ritorna inesorabilmente d’attualità.
Grazie all’analisi del pensiero che si fonda sulla Rivelazione può delinearsi per differenza quello fondato al contrario sulla Ragione. All’opposta autorità riconosciuta come sovrana corrispondono antitetiche comprensioni di sé. Un pensiero che si sottragga al confronto con tale distinzione rischia di presupporre in maniera inconsapevole un senso della vita e della storia analogo a quello teologico, quand’anche nell’epoca della secolarizzazione escluda dalla sfera pubblica ogni religione o si opponga all’obbedienza della politica ai comandamenti di una Rivelazione.
Come confutazione della controparte prende forma questa logica del riconoscimento della propria identità per mezzo della determinazione del proprio nemico, profilandosi come soluzione all’insuperabile contrapposizione dialettica una più chiara conoscenza di sé.
È sulla distinzione tra Teologia politica e Filosofia politica che si fonda una differenza tra opposti modi di vivere esposta nei quattro capitoli di questo volume, che porta a conclusione quella critica della Teologia politica avviata dal precedente libro su Carl Schmitt e Leo Strauss al servizio di una fondazione della Filosofi a politica.
La preoccupazione per i poveri è un elemento centrale del cristianesimo. Tuttavia, il nostro modo di affrontare il problema della povertà non nasce dalla dottrina sociale cristiana ma dalla struttura umanitaria dominante dei nostri giorni: questo induce ad attuare strategie politiche ed economiche che si rivelano deleterie per qualsiasi reale prospettiva di aiuto, in quanto non toccano le esigenze concrete dell'essere umano. Oggi è quanto mai necessario un nuovo modo di pensare i poveri, cioè non come oggetti passivi, bensì come soggetti e protagonisti del proprio sviluppo, integrandoli in economie di mercato floride per l'accrescimento del bene comune. Prefazione di Michael Matheson Miller.
Questo libro nasce da un impegno e da un'attenzione costanti che nella Diocesi di Milano si svilupparono tra le iniziative scaturite dal convegno "Farsi prossimo" del 1986, promosso e fortemente voluto dal Card. Carlo Maria Martini. Le meditazioni presentate hanno titoli già di per sé evocativi, conservano inalterati la profondità, il rigore morale e di pensiero, la forte connotazione spirituale che le ha ispirate e sono ricche di spunti e provocazioni per quanti, politici o semplici cittadini, vogliano accostarne la lettura.