Questo libro, al suo apparire nel 1924, s'inquadrava in un progetto di ricerca, intenzionalmente perseguito dall'autore come lotta contro il pregiudizio «razionalistico» di un medioevo privo di originalità filosofica, ma anche contro un certo conformismo neo-scolastico tendente a far confluire sulle posizioni tomistiche la varietà delle posizioni degli altri esponenti della tradizione scolastica. Lo scopo di Gilson era mostrare l'esistenza di un pensiero medievale degno del nome di filosofia, cioè di sapere fondato nell'evidenza della ragione, ma anche correggere, in nome della storia ridata a se stessa, una certa ideologia del medioevo filosofico-teologico che s'inibiva di cogliere tutta la ricchezza e la complessità della storia stessa di questa convivenza di teologia e filosofia per incanalarsi troppo rapidamente in una sorta di reductio diversarum doctrìnarum ad Thomam. Il primato di Tommaso, più che un «dogma» fondato su una venerabile tradizione di ammirazioni, doveva essere qualcosa da riscoprire nella circolarità tra il rigore storiografico e un impegno teoretico-dialettico di confronto.
Un protagonista della storia cristiana, italica e mediterranea tra antichità e Medioevo; un fondatore della cultura medievale e uno dei «padri storici», insieme con Benedetto da Norcia, del monachesimo occidentale; un «classico» della letteratura latina di un'età difficile e complessa, che tuttavia a torto e semplicisticamente sono in troppi a definire «oscura». Calabrese di Squillace, di origine forse siriaca, Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (490 ca.-583 ca.) ha attraversato con la sua lunga vita l'intero VI secolo, che nella pars Occidentis dell'Impero - privata del suo sovrano - si aprì con la coraggiosa e generosa proposta di convivenza goto-latina di Teodorico e si chiuse col grande e innovatore pontificato di Gregorio Magno. Politico e funzionario alla corte di Teodorico, profondamente impegnato nel lavoro di pubblico amministratore, Cassiodoro non si lasciò travolgere dal fallimento dell'esperienza di governo gota e dalla guerra «greco-gotica» che ne seguì. La sua esperienza di governo e la sua saggezza sono immortalate nella raccolta delle Variae, edita nel 537. Il centro monastico Vivarium, da lui fondato nella maturità presso la natia Squillace, rappresentò, assieme a Montecassino, un faro e un modello culturale da cui è sorto il Medioevo latino e quindi l'Europa.
"Una dolcezza gentile, una radiosa affettuosità e una vasta capacità di simpatia non sono le qualità che vengono abitualmente associate ai primi cisterciensi, e però sono esattamente queste le caratteristiche più spiccate di Aelredo di Rievaulx" (D. Knowles). Testimone e attore privilegiato di un periodo di profondi mutamenti sia per la Chiesa del XII secolo sia per la società civile del tempo, Aelredo nacque nel 1110 a Hexham, nel nord dell'Inghilterra; trasferitosi alla corte del re Davide di Scozia, ne guadagnò la stima tanto da ricevere la prestigiosa carica di intendente generale del regno. Ma, rinunciando a una sicura carriera politica o ecclesiastica, si fece monaco presso l'abbazia cisterciense di Rievaulx (Yorkshire), divenendo successivamente abate della nuova fondazione di Revesby (Lincolnshire) nel 1142, poi di Rievaulx nel 1146, dove morì il 12 gennaio 1166, attorniato da "centoquaranta monaci e cinquecento fratelli laici". Contemporaneo di san Bernardo, Aelredo, insieme con l'abate di Clairvaux, Guglielmo di Saint-Thierry e Guerrico di Igny, è considerato uno dei "quattro evangelisti" di Citeaux. La sua influenza sulla Chiesa d'Inghilterra e sull'ordine monastico in questo paese può essere paragonata a quella di san Bernardo su tutta la Chiesa. "La Vita Ailredi", racconto agiografico composto, poco dopo la morte di Aelredo, da Walter Daniel che fu suo segretario e infermiere. Editoriale di Azzolino Chiappini. Presentazione di Inos Biffi.
Sante, prostitute, regine, nobildonne, guerriere, religiose, rivoluzionarie, madri, mogli, suore; ecco il panorama variegato e molteplice di cui si compone questo libro attraverso i lunghi secoli del Medioevo. Una galleria di donne le più diverse, certo però tutte legate dalle loro eccezionali personalità, sono quelle di cui si raccontano la vita, gli amori, la storia, ma soprattutto i viaggi. Il loro andare alla ricerca della fede o al compimento di un voto, il loro andare verso i luoghi santi costituisce la trama di esistenze avventurose e spesso pericolose davanti alle quali nessuna di esse si tirò indietro; forse sarebbe più opportuno dire: potè mai tirarsi indietro, perché quello che accomuna queste pellegrine viaggiatrici, di molte epoche, paesi e caratteri diversi, è che spesso la ricerca dei luoghi santi, vicini o lontani che fossero, era in realtà un modo per cercare di colmare un vuoto che eventi traumatici avevano causato nelle loro vite, come del resto accade anche per le persone più normali e comuni. Ecco allora l'ostessa che, divenuta Augusta Imperatrice, deve farsi perdonare un oscuro passato, le grandi matrone che perdono marito e figli, la borghese che non riesce ad adattarsi alla vita coniugale, le prostitute che si redimono, la grande contessa che fallisce sempre con i matrimoni e che non avrà figli, la fanciulla insidiata che deve abbandonare casa e genitori.
Nell’interpretazione dei Salmi è fondamentale per Cassiodoro il senso storico grammaticale. In ciò era favorito dalla sua straordinaria erudizione. Non di rado si mette a spiegare il testo parola per parola con frequenti riferimenti a conoscenze scientifiche di cui era ricco. Egli comunque preferisce in maniera assoluta il senso spirituale. Quando gli è possibile fa scaturire dai salmi utili insegnamenti morali. Ma per lui ciò che conta davvero è il senso allegorico. L’autore dei salmi è un profeta che vede in anticipo come Dio avrebbe realizzato il suo disegno di salvezza. In essi, pertanto, è al centro la figura di Gesù Cristo, unico Salvatore. È in Lui che la storia trova pienezza di significato. Potremmo tranquillamente dire che Cassiodoro vuole e riesce a scoprire nei Salmi la realizzazione del mistero pasquale. Il “canto nuovo” che i beati devono cantare in eterno “è il mistero della santa incarnazione, la natività mirabile, l’insegnamento che dona salvezza, la passione maestra di sapienza, la risurrezione prova certissima della nostra speranza, l’essere posto alla destra del Padre”. E, proprio perché la Pasqua avrà la sua pienezza nella Gerusalemme celeste, è evidentemente accentuato nel Commento il senso anagogico. Quanto detto risalta in particolar modo nel Commento ai Salmi dell’Hallel. Sono, in fondo, i salmi che venivano cantati dagli ebrei soprattutto nelle celebrazioni pasquali. E che, dunque, anche Gesù ha cantato. Si può esser certi che la lettura del Commento di Cassiodoro anche oggi possa far tanto bene, infondendo illimitata fiducia nella certezza che Dio ci ama e soprattutto aiutandoci a far della lode al Signore lo scopo della nostra esistenza. È una lode – insiste Cassiodoro – da cantare innanzitutto con la vita. Sono le buone azioni le corde della cetra.
Quella che qui è pubblicata è la sesta e ultima edizione de Le thomisme di Étienne Gilson, che segnò nel 1965, data di apparizione, il termine di un lungo percorso apertosi nel 1919 con la prima edizione. Tra le numerose monografie del filosofo e storico della filosofia francese, Le thomisme è senza dubbio quella che si può considerare il libro di una vita, una specie di viatico che si muove e si rinnova, anche molto sensibilmente, con gli anni che passano fi no ad esprimere nelle ultime edizioni insieme con la maturità di certe intuizioni giovanili anche autentiche prospettive di innovazione. Nell’assiduo lavoro di storico (non solo medievale) e di teoreta, Gilson si è sempre confrontato, anche quando il suo studio si incentrava su altri autori, altri aspetti o altri periodi, col pensiero avvincente e sicuro di Tommaso d’Aquino. Istruttivo soprattutto per i filosofi cristiani e particolarmente per quei neo-tomisti nel cui novero tuttavia Gilson faticava a riconoscersi. Egli infatti sottolineava che l’autentico «sistema» filosofico di Tommaso traeva significato e forza dal fatto storico che Tommaso fosse anzitutto “teologo”, fortemente motivato a far risplendere la verità della sua fede nella sua integralità. Ciò stimolò, per Gilson, il contemporaneo costituirsi di una grande e intensa teologia che non poteva non includere una grande filosofia, resa solida dalla duplice critica (interna) della ragione e (esterna) della fede, entrambe in grado di attraversare i secoli, e ancora disponibili nel presente, per il valore intrinseco della loro consistenza. Il neo-tomismo tendeva ad una valorizzazione invece della «filosofia» tomista a prescindere dal suo contesto genetico che è quello di un credente-teologo impegnato nel dirsi e nel dire la verità, la bontà, la bellezza della sua fede. Si contava sul risultato «filosofico» di Tommaso, ritenuto nel suo valore spendibile nel dialogo critico con la modernità, senza chiedersi – ciò che invece Gilson ha fatto fin dall’inizio senza temere le incomprensioni dei «razionalisti» – a cosa fosse dovuto. Gilson era convinto che nel medioevo si fossero elaborate una molteplicità di filosofie, nuove e originali per effetto della fede, di livello autenticamente filosofico e così diverse rispetto a quelle dell’antichità nate in un contesto storico in cui fu assente la fede cristiana e rispetto a quelle della modernità che per principio si distanziarono dal contesto teologico e dalle sue stimolazioni.
«Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose e più lontano di quanto vedessero questi ultimi; non perché la nostra vista sia più acuta, o la nostra altezza ci avvantaggi, ma perché siamo sostenuti e innalzati dalla statura dei giganti ai quali ci appoggiamo». Intorno al 1120, Bernardo di Chartres amava così paragonare davanti ai suoi allievi i propri contemporanei e i loro gloriosi predecessori dell’età antica, epoca di giganti e santi. Gli uomini della sua epoca erano schiacciati dal peso dell’eredità degli antichi, e si sforzavano di ricostruire e assimilare tale eredità.
Scritta a quattro mani, questa storia dei maestri e degli allievi nell’Occidente medievale si articola intorno a tale oscillazione fondamentale. La prima parte, di cui è autore Pierre Riché, copre il lungo periodo dell’alto Medioevo, per antonomasia l’epoca delle scuole monastiche e cattedrali, spingendosi fino al XII secolo e alla più brillante delle «rinascite» medievali, che annuncia il passaggio a quel secondo grande periodo di cui si occupa Jacques Verger nella seconda parte del volume: il periodo che vide sorgere le università e che portò fra il XIII e il XIV secolo alla stabilizzazione del nuovo modello istituzionale e alla diversificazione delle forme dell’insegnamento e del pubblico cui esso era destinato.
Chi erano questi uomini di sapere? Quali obblighi - materiali, regolamentari, intellettuali - pesavano sulla loro esistenza quotidiana? Quali aspirazioni ne guidavano il lavoro? Racconti, analisi e documenti dell’epoca danno corpo a questo mondo variopinto di allievi e maestri, attori per eccellenza di un’età di elevata spiritualità e di insaziabile curiosità.
Sono poche le personalità capaci, con la loro storia, di suscitare ancora, dopo secoli dalla loro vita, interesse, ammirazione e stupore; capaci di risultare attraenti tanto da essere oggetto di lettura, di studio, di pubblicazioni e di convegni.
Quella di Raimondo Lullo (1232 ca.-1316) è una di queste: giovane dalla vita contraddittoria, convertito, poi mistico, missionario, filosofo, teologo e infaticabile scrittore e annunciatore del Vangelo, in particolare al mondo islamico, attraverso l’ideazione di un metodo dalle connotazioni combinatorie (la sua Arte) e lo studio delle lingue.
Nella propria opera letteraria ha saputo coniugare rigore ed efficacia nelle dimostrazioni teologiche, ma anche la lirica dell’amore mistico; considerato il creatore della lingua letteraria catalana, ha prodotto uno dei più bei poemi mistici della letteratura universale (il Libro dell’Amico e dell’Amato) e uno dei primi romanzi autobiografici dal sapore moderno (il Blaquerna).
Raimondo ha però corso il rischio, in questi secoli, di essere considerato marginale, o peggio di diventare un "personaggio", piegato e declinato di volta in volta all’interesse di chi lo ha studiato o ne ha fatto la propria "caricatura".
A lungo inascoltato dalle corti d’Europa e persino dalle stessi corti pontificie, rischia anche oggi di non essere accolto per quello che è.
La prima traduzione in lingua italiana della Vita Coetanea, dettata a un discepolo nel 1311 dallo stesso Raimondo Lullo, intende iniziare a colmare una lacuna e delineare il profilo di una figura che, come la sua, non può essere ridotta a uno stereotipo.
Sulla scena del tragico conflitto religioso scatenato dalla dottrina catara, fondata su una dualità, respinta da Roma come corrotta, all’inizio del XIV secolo, nell’estremo Sud francese, un piccolo gruppo di uomini e donne coraggiosi testimoniava di villaggio in villaggio in una pericolosa clandestinità la forza della «Eglesia de Deu», come essi la chiamavano.
Convinti della validità della propria fede, quei cristiani dissidenti affronteranno processi, prigioni, roghi stabiliti da autorità civili ed ecclesiastiche decise a eliminare definitivamente il credo eretico da tutta l’Occitania. Qual era la loro dottrina, la loro fede, la loro esperienza?
Il processo agli ultimi catari ripercorre, attraverso i testi degli interrogatori, inediti in italiano, tratti con rigore dai documenti giacenti negli archivi vaticani, la difficile e aspra quotidianità di quegli uomini e quelle donne facendola rivivere non attraverso la stilizzazione del racconto storico o letterario, bensì attraverso le loro stesse parole, quelle che i protagonisti di questa strana e originale stagione della cristianità europea hanno lasciato alla storia in forma di confessioni.
Dal materiale emerge, oltre che la profonda fede rivoluzionaria di quegli uomini e quelle donne, pronti a sacrificare se stessi, l’essenza stessa delle loro vite, a qualsiasi strato sociale appartenessero. Essi, pur abitando in una regione sottoposta a Parigi, conservavano con fierezza l’originalità della cultura occitanica, capace di trasformare il diritto romano in funzione del carattere della propria gente, nonché di rappresentare, come poche altre terre nell’Europa di quei tempi, un esempio di convivenza religiosa e di libertà di pensiero uniche e all’avanguardia.
Questo breve saggio di Inos Biffi ha come intento quello di risvegliare o anche creare il gusto per il Paradiso di Dante, nel quale la poesia pura ha raggiunto il suo vertice sublime. La terza cantica della Commedia è ritenuta la più difficile, quasi la più arida, rarefatta com'è di immagini, la più ardua nel linguaggio. E infatti essa trasporta in un altro mondo, ultraterreno, privo della visibilità e della sagoma sensibile dei primi due, tutto plasmato di luce, nella quale si annidano i beati. La prima parte del volume inizia alla comprensione della cantica illustrandone il senso nel percorso letterario e spirituale del poeta e mettendo in luce il suo carattere teologico. Nel Paradiso il mistero cristiano appare nella sua "forma": Dante con la sua poesia abbellisce la teologia, la rappresenta come canto, nella sua lirica e nella sua estetica. Quindi il Paradiso come una cattedrale di luce. La seconda parte offre alcuni assaggi di commento al canto X.
Da tali degustazioni potrebbe sorgere il desiderio di inoltrarsi in questa incomparabile gloria del mistero, che per singolare grazia divina Dante ci ha lasciato.
L'opera principale di un maestro della spiritualità medievale
Come rivela il titolo stesso in due delle sue redazioni, l’opera principale di Giovanni di Fécamp appartiene al genere letterario della Confessio, di cui sono un illustre antecedente le "Confessioni di sant’Agostino", nelle quali non si trattava tanto di rivelare le proprie colpe, quanto invece di «confessare Dio» lodandolo e rendendogli grazie. Giovanni fuori dal contesto autobiografico si propone di confessare i misteri stessi della rivelazione, abbandonandosi a lunghe contemplazioni ammirative, celebrando la trascendenza di Dio, la mediazione di Cristo, rendendo grazie alla bontà e alla «soavità» del Creatore-Salvatore, esprimendo il suo ardente desiderio di visione anche con le «lacrime». La maggiore originalità dell’opera di Giovanni è rappresentata dal celebrare la trasformazione interiore che Cristo opera nell’anima che gli si abbandona. Il Signore non solo perdona, ma guarisce; non solo è un esempio, ma anche un aiuto che conferisce purezza al cuore e pacificazione a tutto l’essere. È nell’umanità di Cristo che Giovanni di Fécamp contempla la bellezza di Dio. Ci sono in questo cristocentrismo accenti che già annunciano san Bernardo. Tali elevazioni, che a partire da Cristo inseriscono nel mistero stesso di Dio, tradiscono nel loro autore e vogliono favorire nel lettore un’autentica esperienza mistica, fondata sulla lettura e la meditazione della Scrittura e sfociante nel silenzio dell’adorazione. L’intensità e la sincerità di questo fervore giustificano il successo delle orazioni ricavate dagli scritti di Giovanni di Fécamp, il quale, sotto diversi nomi, fu probabilmente con san Bernardo uno degli autori più letti prima dell’Imitazione di Cristo. A queste qualità dell’ispirazione si aggiungono quelle dello stile, che senza essere fragoroso rivela tratti poetici per le sue immagini e per l’armonia della sua discreta musicalità.
Il primo volume di Figure del pensiero medievale, come recita il titolo, presenta «i fondamenti» e gli «inizi» della figura della teologia che verrà elaborata nella riflessione occidentale fino alla «Via moderna», ossia fino al XIV e agli inizi del XV secolo. Né si tratta soltanto degli inizi cronologici: i vari saggi editi nel volume delineano, infatti, gli inizi metodologici, in certo modo esemplari, che avviano e determinano la forma della teologia, quale verrà in seguito elaborata. Il capitolo introduttivo offre una sintesi della teologia medievale, con le sue fonti e i suoi riferimenti e processi fondamentali. Seguono poi i grandi modelli: Agostino, con la fede che genera l’“intelletto teologico”; Boezio, con le sue esemplari attuazioni o i suoi “opuscoli” della teologia risultante dall’investimento razionale della stessa fede; Gregorio, che resterà il geniale ispiratore della teologia come «intelligenza spirituale», come lettura di tutte le risorse dei significati biblici, destinati ad avverarsi come esperienza; lo Pseudo-Dionigi, il maestro della teologia come inesausta ricerca e desiderio di Dio come di inarrivabile trascendenza, e impossibilità di “possesso”, di là da ogni rappresentatività e simbolo; Isidoro di Siviglia, con il suo enciclopedismo, mirante alla visione il più possibile comprensiva della realtà della natura e della storia; Giovanni Scoto, il geniale “discepolo” dell’Areopagita, alle origini della sapienza medievale, uno dei quattro fondatori della scuola di Parigi, per il quale la theologia indica una forma di sapere, proprio dell’uomo e costruito per mezzo della ragione a partire dalla lettura del dato rivelato, avente direttamente come oggetto Dio e la realtà divina, risultante dall’insopprimibile desiderio di conoscenza che è il sentimento motore di ogni indagine filosofica, ma che in un teologo diventa desiderio di conoscenza di Dio, desiderio di rispondere a quell’amore che orienta l’universo intero verso la causa prima, nei vari modi e moti specifici di ciascuna creatura, e che nell’uomo si manifesta appunto nella conoscenza. Per Giovanni Scoto l’uomo è animal theologum, filosofo per natura, teologo per natura e per grazia. D’altronde, la teologia non si oppone alla poesia: ed ecco in questo volume dei fondamenti e degli inizi dal IV al IX secolo i frutti della poesia e della teologia. Abbiamo detto che il valore del volume è quello di porsi non tanto cronologicamente, quanto metodologicamente, oltre che contenutisticamente, al principio. Certo, le riflessioni dei secoli successivi non saranno puramente ripetitive, ma affatto creative, e tuttavia proprio questi primi saggi non cesseranno di esserne l’ispirazione.
Il mondo monastico del Medioevo conobbe diverse concezioni di bellezza, e specialmente di bellezza teologica, e una varietà di gusti artistici. È la ragione del titolo Estetiche monastiche assunto a tema dal 3° Convegno su san Bernardo promosso dall’Abbazia di Santa Croce in Gerusalemme nel 2008 e di cui questo volume pubblica gli Atti. Espressamente al tema sono dedicati i due saggi di iniziali.
Appare nel primo tutta la proprietà e il senso dell’estetica di san Bernardo, che rivelava, pur senza l’elaborazione di una teoria dell’arte, un preciso modo di pensare la bellezza teologica dell’edificio claustrale e di attuarla per dei monaci, stimolati a salire a Dio attraverso la luce, più che il colore, l’assenza, più che la presenza. Si rivela nel secondo, allo stesso modo, una singolare sensibilità estetica, sempre teologica e tuttavia differente da quella dell’abate di Clairvaux: Sugero, il geniale ricostruttore di Saint-Denis, forgia nella sua Fucina di Vulcano gli ornamenti o gli apparati liturgici con l’intenzione che nel loro stesso pregio, nella loro arte, nel loro colore rappresentino il più intensamente possibile Dio e aprano la salita a lui.
Anche nel saggio successivo potremmo parlare di estetica monastica cisterciense: quasi un’estetica spirituale o morale, un equilibrio e una bellezza che traspariscono quando si avverano, secondo il progetto di Stefano Harding e di Bernardo, «carità e umiltà, nel cuore e nel corpo, sino a vedere il Dio degli Dei».
Il nostro volume è impreziosito da tre contributi storici. Uno riguarda i cisterciensi in Svezia e l’influsso della spiritualità di Cîteaux nella vita del Medioevo svedese; un secondo la «missionarietà monastica» della trappa di Vitorchiano, mentre il terzo tratteggia il profilo di Thomas Merton, il celebre trappista dell’abbazia del Getsemani nel Kentucky, con il suo messaggio sulla contemplazione e la vita contemplativa. Siamo sempre in ambito cisterciense con il contributo sul De sacramento altaris di Baldovino di Ford: «Un modello di teologia eucaristica medievale», «un trattato di teologia spirituale eucaristica di grande valore», nato da un profondo contatto, biblico-patristicoliturgico e nel clima di preghiera del monastero. Né poteva mancare, nel IX centenario della sua morte, un saggio su Anselmo d’Aosta, non cisterciense, certo, ma monaco appassionato, dedito alla più alta, sottile e orante speculazione della fede. Chiude il volume una serie di acute osservazioni di don Simone M. Fioraso sulla impresa monastica e la sua molteplice creatività, che, con la liturgia e la devozione, l’arte e l’architettura, le strutture organizzative e i metodi educativi, hanno plasmato la coscienza culturale d’Europa.
La Storia dei tempi nuovi in Inghilterra, qui pubblicata nei suoi primi quattro libri - dopo Nel ricordo dei discepoli, e le Vite -, porta felicemente a compimento la trilogia delle opere progettate in occasione del IX centenario della morte del sottile e originale pensatore al quale Aosta diede i natali e che dal Medioevo non ha mai cessato di interessare storici, filosofi e teologi. Potremmo ora parlare di una felice e riuscita trilogia anselmiana: Nel ricordo dei discepoli, le Vite, la Historia Novorum in Anglia, assicurata agli studiosi di sant’Anselmo da un modo avveduto e previdente di commemorare la memoria della sua morte. Se Eadmero nella Vita sancti Anselmi ne ha descritto la «condotta privata», in quest’opera ne ritrae l’azione «politica», con le travagliate vicissitudini che l’hanno segnata a motivo dell’impegno anselmiano inteso a liberare la Chiesa dalla pretesa dei re normanni di conferire l’investitura ai vescovi. Veramente si potrebbe parlare di Anselmo «politico suo malgrado». Il suo maggiore studioso, Richard Southern, scrive: «I problemi spirituali e monastici dovevano verosimilmente essere al primo posto nei pensieri di Anselmo; i suoi consiglieri e la sua preparazione gli davano gli strumenti per affrontare solo questi». E, tuttavia, anche in questa lotta per l’indipendenza della Chiesa (libertas Ecclesiae) risalta tutta la grandezza della figura del monaco di Le Bec divenuto arcivescovo di Canterbury. Lo osservava anche Sofia Vanni Rovighi: «Non si può non riconoscere che egli lottò sempre, durante il suo episcopato, per la giustizia o per quella che egli riteneva essere la giustizia, pagando sempre di persona, e si comportò sempre con una dirittura che, se non contribuì alla sua fortuna politica, fu sempre la sua forza e talora fu disarmante anche per i suoi avversari». Papa Benedetto XVI nel Messaggio, affidato al suo inviato speciale, il cardinale Giacomo Biffi, in occasione del centenario anselmiano e letto nella cattedrale di Aosta il 21 aprile 2009, ricordava tra le «opportune e intelligenti iniziative» intraprese dalla comunità valdostana «specialmente l’accurata edizione delle sue opere». La nostra trilogia si inserisce in queste iniziative. Sicuramente, essa resterà come frutto duraturo della ricorrenza anselmiana e concorrerà a far conoscere soprattutto dal profilo storico l’avvincente avventura del "Dottore Magnifico", come la tradizione ha amato definire Anselmo.
Il volume raccoglie le due più autorevoli biografie medievali di Anselmo d’Aosta, presentate in edizione scientifica e con testo latino a fronte. La Vita Anselmi redatta da Eadmero, a parte lo stesso epistolario, è la fonte più ampia e sicura per la conoscenza della biografia anselmiana. Eadmero si presenta come «compagno di esilio dell’arcivescovo, nostro signore e padre», professandosi indegno di tale esilio e di tale compagnia. Anselmo a sua volta lo chiamerà «figlio carissimo, bastone della mia vecchiaia», «al quale - egli afferma - i miei amici sono debitori tanto quanto mi amano». L’autore ha potuto stendere il suo racconto o per aver ascoltato le effusive rievocazioni di Anselmo stesso e le testimonianze di persone affidabili, o per aver fatto constatazioni di persona nell’assidua comunione di vita. Vi troviamo il monaco amante della riflessione lucida e sottile, l’educatore illuminato e profondamente amato, il vescovo retto e tribolato, tenace difensore della «libertà della Chiesa», il pastore premuroso e umile del popolo di Dio, talora accompagnato da segni miracolosi straordinari. Autore della seconda Vita di sant’Anselmo è il colto e raffinato Giovanni di Salisbury - specialmente celebre per il Metalogicon -, il quale la redige su invito di Thomas Becket, che mirava a ottenere da papa Alessandro III la canonizzazione del suo predecessore nella sede di Canterbury. La sua fonte sono i «grossi volumi» - come egli li chiama - della Vita redatta da Eadmero: egli ne ha fatto la sintesi, al fine di offrire «un po’ di conforto a dei pellegrini». Non mancano tuttavia nella narrazione di Giovanni di Salisbury dati o parole anselmiani nuovi, che egli poté raccogliere a Canterbury e soprattutto, pur nella identità fondamentale della figura e delle sue vicissitudini, si trova elaborato e proposto un profilo di Anselmo che porta con chiarezza i segni esegetici del suo autore. Anselmo - secondo Giovanni di Salisbury - si pone nella linea della figliolanza degli apostoli e dei profeti, quale successore della loro fede ed erede della loro virtù e delle loro opere: egli è «un uomo apostolico», un vero seguace degli apostoli». Giovanni di Salisbury scorge nella vita di Anselmo, come in filigrana, lo spirito e le azioni degli apostoli, la loro santità e il loro stile. In aggiunta alle due Vite, il volume contiene una serie di altri testi Vita brevior, Epitaffi, Miracoli... relativi alla figura di Anselmo.
Un movimento da riscoprire a fronte del buio degli storici, un’assoluta avanguardia per il medioevo e per la condizione femminile<
Al declinare del mondo feudale, tra il dodicesimo ed il quattordicesimo secolo, nelle Fiandre e in altre parti d'Europa, assistiamo ad un fenomeno di straordinaria modernità unito ad una grande profondità religiosa.
Delle donne laiche, in questo già precorritrici dei tempi, si fanno carico di opere di carità e di assistenza in una società sempre più divisa a causa degli sviluppi cittadini tra abbienti e nuovi poveri. Si tratta delle beghine e tra esse spiccano personalità di forte spessore.
beghine abbia, oggi, preso un carattere quasi simbolo di un pietismo superstizioso, fa parte di quelle sovversioni di significato che la storia conosce.
Spiritualità moderna che prepara figure come san Vincenzo de' Paoli con secoli di anticipo. Ma anche evento storico che mostra la crisi di un mondo che, modernizzandosi, si prepara, in nome dei nuovi lavori della vita cittadina, a lasciar indietro chi non è fortunato.
L’attenzione degli studiosi di Anselmo è quasi sempre concentrata sul teologo che si avvale delle risorse della ricerca filosofica fino a praticare, in teologia, il metodo della «sola ragione» e l’obiettivo delle «ragioni necessarie».
Ma ci sono altri “Anselmi”, difficilmente sospettabili a partire dalle opere filosofico-teologiche in forma dialettica o dialettico-meditativa. C’è l’Anselmo, per così dire, degli affetti, che è conoscibile attraverso le lettere di amicizia monastica e attraverso le Orationes sive meditationes, comprendendovi per alcuni versi anche il Proslogion, punto d’incontro tra ricerca dimostrativa e ricerca affettiva. Ma c’è infine anche l’Anselmo parabolico, dispensatore di sapienza mediante il raccontare. Jean Leclercq riconosceva in Anselmo «due stili, due “scritture” differenti che riflettono le sue diverse attività, come abate di monaci ordinari e come teologo e dottore della Chiesa». Due discepoli e ammiratori di Anselmo, i monaci Eadmero e Alessandro, hanno registrato e offerto ai posteri il magistero ordinario di Anselmo che si rivolge non ai dotti e agli speculativi, ma a coloro che abitavano i monasteri e avevano bisogno di orientare la loro prassi quotidiana con semplicità e concretezza. C’è in Anselmo – e non è un lato trascurabile della sua complessa personalità – una vis communicativa che fa di lui non solo una mente teologica e mistica, ma anche un maestro capace di catturare e incantare con la creazione di immagini.
Questo volume raccoglie, traduce e commenta i testi messi in valore sotto il titolo di Memorials of St. Anselm da Richard William Southern e da Franciscus Salesius Schmitt, e contiene i "Comportamenti umani mediante similitudini", i "Detti di Anselmo", i "Miracoli" di Anselmo, lo "Scritto sulla beatitudine della vita senza fine", e una serie di altre testimonianze: "Miscellanea anselmiana". Ed è la prima volta che nel loro insieme essi vengono tradotti in lingua moderna.
Lo scozzese Giovanni Duns Scoto (1265-1308), contemporaneo di Dante Alighieri, figura tra i più conosciuti pensatori del medioevo. Divenuto francescano, si formò a Oxford e a Parigi e vi insegnò la teologia commentando ripetutamente il libro delle Sentenze del Lombardo. Operò un trentennio dopo la morte di Tommaso d'Aquino, risentendo del clima profondamente mutato a partire dalle condanne parigine e oxoniensi del 1277. Dopo un periodo di incertezze, il suo credito crebbe presso i teologi dell'ordine di san Francesco, dando origine, al pari di san Tommaso, a una vera e propria scuola scotista che attraversò i secoli. Etienne Gilson (1884-1978), il grande storico della filosofia medievale, non potè non incontrarlo di continuo nel corso della sua longeva vita di studi, ma il suo interesse si concretizzò in una monografia tutta dedicatagli solo molto tardi. Infatti tra gli ancora validissimi e fondamentali volumi gilsoniani su alcuni dei principali pensatori medievali (Il tomismo - con le sue sei edizioni dal 1919 al 1965 che ci offrono in realtà libri molti diversi -, La filosofia di san Bonaventura del 1924, Introduzione allo studio di sant'Agostino del 1929, La teologia mistica di san Bernardo del 1934), quello su Giovanni Duns Scoto, apparso nel 1952, è cronologicamente l'ultimo.
Questo breve e sintetico saggio che si basa sulle cronache ebraiche del tempo ci dipinge un impressionante spaccato della tragedia vissuta dagli ebrei per mano di crociati divenuti orda armata. Pagina buia nella storia europea, che vede líaspetto protocoloniale e militare di una vicenda, le Crociate, prevaricare sulle istanze religiose del pellegrinaggio ai Luoghi Santi.
Ma líaffresco a tinte fosche viene in questo caso illuminato dalla forza spirituale di tanti ebrei che al centro della stessa Europa si sacrificarono per difendere la loro fede e la loro identit‡.
Il giudaismo non ha mai incoraggiato il culto dei martiri e ha sempre riaccolto nel suo seno chi non fu disposto al martirio accettando, sotto le violenze, di aderire provvisoriamente ad altro credo, come avvenne anche per alcune comunit‡ che si fecero battezzare di fronte allíarmata di Goffredo di Buglione. Questa non abitudine a enfatizzare il martirio aumenta la commozione del lettore di fronte a una pagina di grande dedizione e spiritualit‡ scritta dagli ebrei perseguitati e martirizzati.
Accanto alla loro luminosa testimonianza, il libro elogia la dedizione di grandi personaggi della Chiesa e delle corti che prestarono aiuto a comunit‡ ebraiche minacciate.
Due brevi saggi, dall'immensa letteratura medievale sulla Madre di Dio. Nel primo la Vergine, tutta dedita a custodire e meditare gli eventi della salvezza nel silenzio del cuore, risalta come il modello dell'anima contemplativa e monastica. Nel secondo saggio appare totalmente immersa nel mistero di Cristo, in un'adesione dal profondo del cuore alla scelta di Dio che, per pura grazia, l'ha eletta alla divina maternità e l'ha particolarmente unita alla Passione, che nell'annunzio a Nazaret già stende la sua ombra: la Madre del Signore è la "Crocifissa", che "concepisce il Crocifisso".
Bianca di Castiglia, madre di Luigi IX il Santo, re di Francia, ebbe un ruolo importantissimo nella Francia medievale del XIII secolo. Documenti, evocazione di personaggi, di luoghi e della vita nelle manifestazioni più significative negli anni durante i quali visse come regina prima, e come reggente poi, sono serviti a rendere sempre più evidente la complessità di questa donna che, per energia, coraggio e determinazione, rappresenta un raro esempio di modernità in un'epoca nella quale l'universo maschile era l'unico preposto al comando.
Questo saggio ci fa ripercorrere la biografia di Cirillo e Metodio, che con la loro missione in Moravia e Pannonia segnarono profondamente la storia europea nella seconda metà del IX secolo, promuovendo l'integrazione degli slavi nella cultura mediterranea. L'autore ha ricostruito la complessa realtà storica con un linguaggio semplice e con una narrazione avvincente accompagnata da illustrazioni e cartine che orientano il lettore e lo aiutano a comprendere il mondo slavo. Il punto di vista di un greco-ortodosso contribuisce a comprendere alcuni aspetti, talvolta trascurati, della vicenda di Cirillo e Metodio. Anthony-Emil N. Tachiaos è professore emerito di Storia e Letteratura slava ecclesiastica all'Università Aristotele di Tessalonica.
La figura di Cristo attraeva e unificava tutta la vita spirituale dei monaci medievali, e, con tratti particolari, i cistercensi come Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Gertrude di Helfta e Giovanni di Ford. Questo volume presenta alcuni brevi saggi di una cristologia, nata e cresciuta nei monasteri, lungo il santo viaggio scandito dall'anno liturgico e dalle sue feste; a stretto contatto con le celebrazioni sacramentali o nella quotidiana, spirituale lettura della Scrittura.
Le ricerche condotte nel secolo XX hanno permesso di ritrovare e studiare documenti antichi e autorevoli che hanno gettato nuova luce sulle origini di questo Ordine monastico di regola benedettina: tali documenti sono pubblicati in lingua originale e con la traduzione italiana corredata da note che rimandano alle fonti bibliche, liturgiche, di autori classici e patristici. Emerge la grande ricchezza spirituale dell'esperienza dei cisterciensi.
Una grande figura del secolo XII, nato a Cordoba in Andalusia e morto, in esilio, a Il Cairo Ë esposta da un autore di importanti opere sull'ebraismo nel Medio Evo. Mosheh ben Maimon Ë stata una <<personalit‡ di assoluto rilievo nell'intera storia del giudaismo>>, <<uomo fuori del comune>>, soprattutto noto come l'autore della "Guida dei perplessi" e del "MishnË Torah", rispetto alle quali <<nessun'altra opera del pensiero ebraico classico ha avuto una risonanza paragonabile>>.
Maimonide fu medico, filosofo, teologo, codificatore della legge ed esegeta. La sua produzione fu al confluire tra cultura ebraica e greca e unÏ la tradizione alla ricerca, la Bibbia alla metafisica, senza rinunciare ad essere ebreo. <<Fu il primo a concludere una durevole alleanza tra il giudaismo e la filosofia greco-musulmana del suo tempo>>, certo mirando non a <<svuotare le Scritture della loro sostanza>>, ma a soddisfare <<il bisogno di aprirsi una nuova strada>>. Quella di questo "secondo MosË" - come venne chiamato - fu, quindi, la scelta di porre a confronto le credenze tradizionali del suo popolo con le conquiste scientifiche della sua epoca, o, anche, quella di <<innestare le proprie idee filosofiche sul testo della Bibbia, che Ë un documento rivelato>>.
L'opera anselmiana è itinerario integrale di formazione per l'uomo nei suoi aspetti quali l'intelletto, la volontà, la libertà, la coscienza, i costumi, le relazioni, la fede, la preghiera. Egli univa in sé l'acutezza del filosofo, del teologo e la finezza dell'educatore. Il convegno cui si rifà il volume ha esplorato la sua dottrina e nella pratica, dal punto di vista dell'educazione.
I testi e i dati biografici di Stefano Harding, nato in Inghilterra poco dopo la metà del XI secolo, che fu uno dei fondatori del monastero di Citeaux.
Pi˘ che un saggio critico, queste pagine del Marrou riferiscono uníesperienza di lettura lucida e partecipata. La partecipazione ha trovato stimolo nelle soleggiate stagioni di Marsiglia; la lucidit‡ proviene dalla sensibilit‡ storica dellíautore, dal suo senso di prudenza scientifica, da un accostamento metodico del passato, attento ai contesti complessi (filosofico, musicale, architettonico) e da una visione equilibrata nÈ voltairiana nÈ apologetica del Medioevo.
CíË poi il tocco caratteristico del Marrou, col suo linguaggio duttile, il suo giudizio sottile, il procedimento colloquiale, brillante, non privo di humor e non alieno dalla beccata polemica.
ComíË detto dalla Finoli, che ne ha curato líedizione italiana: líinterpretazione del Marrou ´riesce a dare uníimmagine dellíantica lirica provenzale pi˘ viva, pi˘ intera, pi˘ affascinante di quanto non facciano opere pi˘ elaborate e impegnativeª.